Genere, famiglia e colonialismo

di Roberto Spanò

Introduzione

Lo sbarco di Colombo nelle Americhe segnò l’inizio di una nuova epoca di conquiste ed espansione militare per le principali potenze europee, in primis Spagna e Portogallo, le quali spinte dalla ricerca di oro e spezie assoggettarono al proprio potere un intero continente. Andando oltre la narrazione classica del fatto coloniale, secondo la quale la sola superiorità militare degli europei sarebbe bastata per sottomettere Messico, Perù e Brasile, esistono altre chiavi di lettura, che possono contribuire a delineare un quadro sempre più articolato della vicenda. La prima questione riguarda il ruolo che ebbero i valori europei, come vennero incarnati da conquistatori e missionari e come entrarono in conflitto con quelli degli indios; la seconda riguarda come gli europei decisero di trattare gli indios, come interagirono con loro e come si rapportarono alle differenze.

Per comprendere la natura, il peso e il ruolo dell’America latina nel mondo globale bisogna attuare però una “dissociazione” tra la prospettiva eurocentrica della conoscenza e la storia specifica dell’America latina; si tratta infatti di un’esperienza storica originale e specifica, nonostante l’esperienza eurocentrica sia stata incapace di comprenderne la specificità e l’originalità. La “nascita” dell’America fu accompagnata da quella di esperienze ed elementi completamente inediti, che conducevano a un nuovo universo storico: da quel momento tutte le forme di lavoro, produzione e sfruttamento gravitarono intorno all’asse del mercato mondiale; parliamo di schiavitù, servitù, piccola produzione di merci, salario; non si trattò, semplicemente, di un prolungamento di antecedenti storici, ma anche di elementi storicamente e socialmente nuovi, in quanto connessi a un nuovo schema di potere. In America Latina prese forma una nuova struttura di rapporti di produzione, unica e originale per l’epoca1; per la prima volta nella storia umana, venne creata una nuova categoria mentale, l’idea di razza come insieme di differenze biologiche, strutturali e gerarchiche, tra il dominante e il dominato: insomma, un’idea che portò a definire i rapporti di dominio come “naturali”.

Nacquero così delle nuove identità socio-storiche: spagnoli e portoghesi (bianchi ed europei “arrivarono” successivamente), indios, neri e meticci. Ciò avvenne perchè solo in seguito alla Reconquista e alla conquista dell’America gli spagnoli misero da parte le differenze, per esempio, tra aragonesi e castigliani, per raccogliersi sotto la nuova identità spagnola. La razza divenne uno dei criteri fondamentali, se non il principale, per classificare la popolazione all’interno della struttura di potere della nuova società, insieme alle posizioni e ai ruoli occupati nella divisione del lavoro e nel controllo delle risorse di produzione. Sappiamo però che la nobiltà india era dispensata dalla servitù e anzi riceveva un trattamento speciale grazie al suo ruolo di intermediaria con i conquistatori, oltre a poter svolgere alcune mansioni riservate agli spagnoli non nobili.

Alla fine del XVIII secolo, i meticci, nati da uomini spagnoli e donne indie, avevano accesso agli stessi lavori degli iberici non nobili (come la produzione indipendente di merci e il commercio), ciò non valeva per i figli delle donne nere, in quanto le loro madri erano schiave. Questa distribuzione del lavoro basta sulla razza fu mantenuta per tutto il periodo coloniale2; questo specifico elemento fondante del nuovo schema di potere, (ossia la razza, insieme alla classificazione sociale razziale della popolazione mondiale), che si esprimeva tramite la distribuzione razziale del lavoro, l’imposizione di identità geo-culturali razziali, la concentrazione del controllo delle risorse produttive e del capitale come relazioni sociali (incluso il salario come privilegio dei bianchi) è ciò a cui ci si riferisce quando si parla di colonialità del potere3.

Cristianesimo e sessualità

Cosa c’entrano il sesso, la sessualità e il genere con l’opera di conquista dell’America? Sessualità e genere non sono di certo una pura invenzione del cristianesimo, dal momento che questi temi interessarono la nostra società già dai tempi di Aristotele. Per secoli le giustificazioni legate alla natura, alla morale e alla religione furono strutturali all’opera di socializzazione del genere4 e all’erezione di una società prettamente maschile. Il cristianesimo diede nuova linfa vitale a idee abbastanza radicate nel mondo classico, ma allo steso tempo introdusse alcune novità, come la creazione del peccato di sodomia e la figura del sodomita. Non ci volle troppo tempo prima che la commistione tra diritto romano e norme della Chiesa fece si che questi atti venissero condannati sia come peccati che come reati. Nel mondo giudaico cristiano l’avversione verso gli atti sessuali impuri ha origine nell’Antico Testamento: nel libro del Genesi (1,26-28) si legge che Dio creò gli uomini a sua immagine e li divise in maschio e femmina; successivamente il mito della distruzione di Sodoma fu posto alla base della nascita della sodomia, pur non essendoci totale accordo tra i teologi sull’interpretazione da dare ai fatti narrati. Come tutti sappiamo, prevalse una chiave di lettura “anti-omosessuale” della vicenda, che avrà un ruolo fondamentale nella formazione della Chiesa fino alla nascita dei tribunali di fede delegati5. Qualche secolo dopo la stesura delle antiche scritture, nella Lettera ai Romani san Paolo muove una dura critica ai pagani, che per non aver accolto e riconosciuto il messaggio di Dio, sono stati abbandonati da lui a «“passioni infami”» e da quel momento si sarebbero dedicati ad atti di sodomia6. Sant’Agostino definì il peccato di sodomia come degenerazione del genere umano e nelle Confessioni affermò che i peccati contro natura si dovessero condannare sempre e comunque, in quanto violazione e profanazione di ciò che Dio aveva creato7.

Questa riflessione avrà un successivo slancio con san Tommaso: il vizio contro natura è da considerare come una «specialis ratio deformitatis» che rende indecente l’atto venereo; in questa maniera il peccato di sodomia venne saldamente legato alla categoria degli «atti contro natura». Urge specificare, però, che le norme che regolano la vita sessuale non furono appannaggio esclusivo dell’autorità religiosa, dal momento che anche l’autorità civile e militare si impegnò per la regolamentazione dei comportamenti sessuali. Già nel Digesto di Giustiniano era presente una riflessione di Ulpiano su sesso, procreazione ed educazione dei figli; anche nel Codex e nelle Istitutiones si fa riferimento alla poena glandii, ossia la pena capitale inflitta con la spada. Grazie ad alcuni storici coevi sappiamo anche che nell’Impero bizantino i sodomiti erano puniti con l’evirazione, e seppur non fosse comminata la pena capitale i mal capitati potevano morire in conseguenza della tortura. Nelle Novelle 77 e 141, sempre di Giustiniano, è presente l’associazione tra sodomia e tentazione diabolica, dal momento che nella prima leggiamo: «diabolica instigatione comprehensi et gravissimis luxuriis semetipsos inseruerunt et ipsi naturae contraria agunt»8, e poi nella seconda «sed ut omnes quidem pravis cupiditatibus et actionibus abstineamus, maxime vero illi, qui in abonimabili et deo merito exosa atque impia actione contabuerunt»9. Sarà dunque il potere civile a prendersi carico della difesa della cristianità e il legame tra autorità civile e religiosa si farà sempre più stretto. Durante i secoli centrali del Medioevo questo meccanismo si perfezionerà sempre di più, fino a sfociare nella persecuzione giudiziaria che oltrepasserà i confini europei10.

La penisola iberica

Arriviamo ora alla Penisola iberica, e al nostro collegamento con l’opera di conquista dell’America. Nella penisola iberica l’opera di socializzazione del genere fu totalmente strutturale all’ascesa dell’impero e della Chiesa, l’attenzione verso le regole e i comportamenti sessuali probabilmente fu più dura che nel resto dell’Europa. L’accusa di sodomia fu uno strumento politico potentissimo nella persecuzione di tutti coloro che erano ritenuti capaci di contagiare una cristianità che, a partire dalla Reconquista, si edificherà giorno per giorno, attraverso le conquiste coloniali, gli innumerevoli autodafè e le processioni del Corpus Domini, tutto a discapito degli infedeli in madre patria e degli indios nelle colonie11. Fu proprio qui, nella penisola iberica, che i tribunali di fede delegati furono autorizzati ad agire in materia di sodomia; questa venne associata all’islam, secondo una dicotomia formulata durante le prime crociate e ripresa frequentemente nel corso del tardo medioevo. Nel 1458 Alonso de Espina scrisse il Fortalitium Fidei, in cui accusò Muhammad di aver autorizzato i suoi seguaci a compiere il peccato nefando, poiché la traduzione classica della Sura 2 Al Baqarah12 recita: «Le vostre spose nono per voi come un campo. Venite pure al vostro campo come volete»13. Il 22 agosto 1497 i Re Cattolici stabilirono che contro i sodomiti si dovesse agire con la pena del fuoco purificatore e nel 1505 re Ferdinando autorizzò l’Inquisizione aragonese ad agire contro la sodomia. Il 24 febbraio 1524 papa Clemente VII concesse agli inquisitori aragonesi di agire contro vizio nefando e bestialità, legittimando l’assimilazione tra sodomia ed eresia14. Per i tribunali dell’Inquisizione aragonese e portoghese la sodomia fu un’eresia formale che prevedeva l’aggiunta della pena del fuoco purificatore e non era concessa una seconda possibilità15. In Castiglia, dunque, le pene capitali per i reati di sodomia furono sempre inflitte dai tribunali secolari, a differenza di quanto accadeva in Aragona e Portogallo, dove l’assimilazione tra eresia e sodomia fece sì che a comminare le pene fossero i tribunali dell’Inquisizione16. Nel 1557 Paolo IV Carafa autorizzò il tribunale papale ad agire contro la sodomia, ma la decisione non ebbe seguito e solo bigamia e adescamento in confessione furono comportamenti sessuali trasgressivi di competenza del Sant’Uffizio romano. In punto di morte Filippo II chiese al papa di autorizzare anche gli inquisitori di Castiglia ad agire contro la sodomia, ma Clemente VIII si oppose e la giurisdizione speciale non si estese neanche ai territori italiani17. Successivamente, con le costituzioni Cum primum apostolatus (aprile 1556) e Horrendum illud scelsus (agosto 1568) di Pio V, si stabilì che sacerdoti e frati sodomiti fossero affidati al braccio secolare, dopo la degradazione e il processo ecclesiastico18.

Il 20 ottobre del 1600 il Sant’Uffizio romano decise di procedere contro la sodomia e i crimini contro natura solo quando questi erano accompagnati da opinioni ereticali: in questo modo a Roma confluirono molti sodomiti portoghesi e aragonesi, in cerca di un perdono conferito al costo di più blande penitenze. Anche in Portogallo si sviluppò l’ossessione per la sessualità. Nel 1553 Giovanni III autorizzò l’Inquisizione lusitana ad agire contro il vizio nefando e tale privilegio venne ribadito due anni dopo grazie a una dottrina che classificò la sodomia tra i crimina mixti fori. L’inquisitore portoghese Dom Enrique fu autorizzato da Pio V, il 20 febbraio 1562, a perseguire il crimine contro natura alla stregua dell’eresia; anche Gregorio XIII era terrorizzato dall’idea che la sodomia potesse diffondersi in ogni luogo sotto il dominio della Chiesa e oltre oceano, per opera di persone provenienti dall’Africa islamica e dal Nuovo Mondo, e il 13 agosto del 1574 riconobbe nuovamente al tribunale lusitano la facoltà di perseguire il peccato nefando19. La paura della diffusione della sodomia portò a prendere provvedimenti soprattutto tra i ranghi del clero e degli ordini militari e chiunque, chierico o laico, poteva essere colpito dalle pene del braccio secolare. Bisogna fare però una precisazione: in genere, nei processi per eresia, la condanna della pena capitale era destinata solo ai relapsi e l’adozione di una procedura mista, per di più identica a quella aragonese, è indicativa di quanto in realtà il crimine di sodomia avesse una natura indefinita.

Secondo Re Sebastiano e il cardinale Henrique per contrastare la sodomia occorreva rendere più efficace e rapido il controllo di polizia, che fu possibile grazie all’assimilazione tra sodomia ed eresia presente nei regolamenti dell’Inquisizione portoghese prima nel 1613 e poi nel 1640; anche se qui il fuoco purificatore venne riservato a chi avesse dato scandalo e si fosse mostrato relapso al vizio20. In tutto ciò le bolle di Pio IV e Gregorio XIII non prevedevano alcuna mitigazione delle pene, dal momento che facevano riferimento alle leggi civili e la pena capitale era vista come un giusto castigo per chiunque, laico o chierico. La prassi inquisitoria riconosceva comunque l’impunità a chi si autodenunciava, se non era già arrivata una denuncia, anche se erano sufficienti due testimonianze confermate per condurre un inquisito al rogo. Nella maggior parte dei casi si ricorreva a fustigazione, bando (maggiormente in Angola e Brasile), detenzione e servizio sulle galere. In trecento anni di attività l’Inquisizione portoghese denunciò più di quattromila sodomiti in Portogallo, Brasile, Africa e India, circa 550 furono gli arresti e i processi effettivi, 30 le condanne al rogo. Dalle fonti sembra che Lisbona fosse sede di una delle più vivaci culture sodomitiche dell’Europa del tempo e tra i sodomiti di pubblica fama non mancavano i religiosi, tanto che molte case d’incontri erano gestite da preti21.

Gli uomini dell’epoca si chiesero anche da dove avesse origine la sodomia: la maggior parte riteneva che il peccato nefando avesse anche un’origine biologica, per esempio con degli squilibri nei quattro umori corporali, in una pratica del vizio in tenera età, in un influsso maligno al momento della nascita, oppure in una qualche indole radicata nella natura del colpevole. Esistevano dunque delle predisposizioni al vizio e di conseguenza anche dei luoghi i cui abitanti erano “naturalmente” propensi al peccato, ossia l’Asia, il Nuovo Mondo e l’Africa22. Quest’idea fu strutturale alla creazione della retorica colonialista che legittimò la sottomissione dei popoli non europei, grazie a una rappresentazione identitaria capace di articolare e legittimare, tramite presupposti “naturali e ontologici”, le relazioni di dominazione.

Il conquistatore

Dietro la presunta esistenza di una maschilità “naturale” esiste una lotta continua tra un modello dominante e forme diverse di maschilità, che anche nel caso della penisola iberica permette di parlare di maschilità egemonica, ossia un modello che presume di giustificare la posizione dominante di alcuni individui su tutti gli altri. In Spagna gli attribuiti del “vero uomo” e poi dell’“uomo nuovo” non solo si diffusero ben presto tra le varie classi sociali, ma furono oggetto di una vera e propria opera di egemonia culturale, finalizzata alla creazione di uomini capaci di difendere l’impero, la cristianità e di essere perfettamente virili. L’opera di conquista oltre oceano fu totalmente funzionale a questo scopo, dal momento che la percezione della sodomia come una caratteristica “naturale” degli indios funse da giusta causa per la conquista politica, militare e religiosa. Cosa significò per i conquistatori adattarsi a questo modello di uomo? Prima di tutto significò performare l’uomo feroce e dedito alla guerra, virile e dotato di potenza sessuale, ma allo stesso tempo intriso di morale cristiana. Tuttavia questo modello non presenta gradi novità, poiché proviene dal mondo aristocratico, storicamente ancorato a un senso di disprezzo per la vita sedentaria, che divenne egemonico in seguito alla grande migrazione di uomini verso il sud della penisola, in conseguenza della mobilitazione degli eserciti della Reconquista. Il modello del perfecto hidalgo si configurò come quello di un uomo che viveva per la guerra, che era capace di grandissime imprese solo grazie alla sua forza fisica e di volontà; tuttavia, anche se questo modello a un certo punto venne considerato come naturale, bisogna tenere a mente che non fu sempre facile performarlo, dal momento che la maggior parte dei conquistatori non proveniva dalla nobiltà ma da una classe medio bassa, composta per lo più da studiosi di livello non troppo alto, ma anche contadini e artigiani23. Qui la virilità è intesa come un’attitudine naturale all’esercizio della violenza, come il prendersi responsabilità per il conseguimento di onore e gloria nella sfera pubblica, anche sfidando il pericolo con comportamenti temerari; nel caso contrario si va incontro alla perdita della stima e dell’ammirazione del gruppo, in seguito alla quale si viene relegati nella categoria, tipicamente femminile, dei “deboli”24. L’impresa coloniale e il contatto con popolazioni culturalmente differenti favorirono lo sviluppo di un processo identitario che portò pian piano a superare le differenze basate sulla provenienza dei conquistatori e da quel momento tutti iniziarono a identificarsi come «spagnoli». La lotta portata avanti dagli europei fu su due fronti: contro il nemico esterno ma anche contro sé stessi, tutto per l’esigenza di (ri)affermare di continuo la propria maschilità; era infatti di vitale importanza dimostrare che i risultati ottenuti, per la Corona e per la Chiesa, fossero dipesi esclusivamente dagli sforzi sul campo di battaglia e quando ciò era accompagnato dalla rivendicazione delle umili origini allora si poteva sperare di ottenere maggiori ricompense e privilegi25.

In seguito alla cattura del sovrano inca Atahualpa, dopo il massacro di Cajamarca del 16 novembre 1532, alcuni cronisti rivendicarono la superiorità dei conquistatori e di come vinsero «sin matar sino sólo un negro de nuestra parte»; le esperienze sui campi di battaglia rafforzarono la convinzione che la destrezza militare, l’abilità fisica e il coraggio costituissero degli attribuiti naturali e ontologici dell’uomo spagnolo, contro le popolazioni americane che furono un termine di paragone perfetto per affermare la propria maschilità. In virtù di ciò le prime rappresentazioni degli indios tesero da una parte a femminilizzare i sottomessi, dall’altra a esaltare la grandezza degli europei, rimarcando la supremazia della maschilità peninsulare europea. In questo processo di costruzione dell’identità maschile spagnola l’America fu percepita come una donna desiderosa di essere esplorata, le unioni matrimoniali che spesso si celebravano implicarono l’adulterio, dato che si trattava di uomini già sposati in patria. Dal diario di Colombo possiamo facilmente intuire le tendenze che i conquistatori avevano verso le donne del luogo: «Mentro ero sulla barca, ho preso prigioniera una bellissima donna caraibica, che il suddetto ammiraglio mi ha dato, e dopo che l’ho portata con me nella mia cabina, ed era nuda come è sua abitudine, ho sentito il desiderio di divertirmi con lei»26. Porre l’attenzione su questa descrizione permette di capire quanto i conquistatori consideravano la nudità degli indios come una predilezione naturale ai “disturbi” carnali, al cannibalismo, all’ubriachezza, all’incesto, alla poligamia e alla sodomia. Ma i comportamenti dissoluti non erano appannaggio esclusivo degli indios: alcuni ambasciatori di Atahualpa riportarono che, dopo l’ingresso a Cajamarca, gli spagnoli portarono via tutti i beni degli indios, comprese le donne, considerate alla pari di qualsiasi bene Questo trafugato come bottino di guerra27.

Uno dei compiti principali dell’uomo spagnolo era popolare la terra, una missione riuscita se si prende in considerazione la larga schiera di meticci illegittimi nati da rapporti interetnici, caratterizzati dalla subordinazione delle donne indigene; ciò avveniva perché dietro figure come gli «“indiani di servizio”» o «“affidati”» si annidava la pratica dei “favori” sessuali, non solo verso il padre-padrone ma verso tutti i maschi della casa. Molti cronisti e teologi erano però preoccupati degli effetti delle unioni miste, perché potevano portare a perdere gradualmente alcune caratteristiche “razziali” spagnole, ma dal punto di vista del perfecto hidalgo tutto ciò fu la coronazione delle eccellenti prestazioni sessuali compiute nelle Americhe. Questo si spiega col fatto che la virilità, intesa come potenza sessuale, può essere dimostrata solo partendo da dati empirici: quanto più era numerosa la discendenza tanto maggiore era la capacità riproduttiva del Vir, che grazie al proprio seme diventava un perfetto collaboratore dell’opera di creazione. La rappresentazione del cristianesimo come religione universale fu centrale nel processo d’erezione del maschio spagnolo, lo stesso maschio che liberò la Terra santa e la penisola iberica dalla stretta dei musulmani: essere cristiani divenne così un elemento dell’essere uomo e viceversa.

La Nuova Spagna

Il Viceregno della Nuova Spagna, il primo di quattro vicereami della Corona spagnola, venne creato nel 1535 e la sua estensione territoriale andava dall’allora Repubblica messicana (come la definirono i missionari) a nord verso le terre della Florida e a sud comprendeva tutte le regioni dell’America centrale28. Qui, l’analisi di alcuni simboli legati all’identità e ai ruoli di genere pare mettere in luce una dimensione pubblica molto più forte di quella privata; pare infatti che le donne potessero lavorare come artigiane, sacerdotesse e, in via eccezionale, anche come governanti. Ma in contemporanea erano legate a un particolare schema di lavoro domestico e di cura29. Dagli studi di June Nesh sappiamo che il dominio militare azteco portò in qualche maniera a una completa penetrazione del simbolismo di guerra nella dimensione domestica,rendendo la casa al pari del fronte della battaglia. Già dal momento del parto sono presenti riferimenti al mondo della guerra: il successo equivaleva al catturare prigionieri in battaglia, un parto finito in tragedia era al pari dell’essere uccisi o catturati dal nemico.

I coloni europei hanno descritto alcuni dei rituali domestici degli indios con cui entrarono in contatto: nei testi coloniali la donna messicana viene descritta come una laboriosa casalinga, madre devota e dedita all’educazione dei figli, tutte rappresentazioni che furono molto utili per affermare che queste persone avessero un minimo di «civilizzazione» e ciò avrebbe reso più facile spiegare alle donne cosa significasse essere delle buone madri cristiane30. Dall’altra parte, secondo gli uomini di chiesa, tutto il potere che le donne avevano nella casa, legato al complesso sistema di cerimonie locali, non era altro che una manipolazione del demonio.

Il potere famigliare

Nel 1516 il cardinale Francisco Jiménez comunicò ai frati geronomiti inviati a governare in alcuni insediamenti, che vi erano dei vantaggi per gli spagnoli che avessero sposato le figlie dei caciques che non avevano discendenti maschi: in tal modo la discendenza dei signori locali sarebbe diventata spagnola. Nel 1534 a Puebla del Messico vi erano 81 residenti spagnoli (vecinos) di cui 35 conquistatori e 46 arrivati successivamente. Tra i conquistatori 22 erano sposarti con donne spagnole, 7 invece con donne del posto, o «mujeres de la tierra», infine vi erano un vedovo e 6 celibi. Tra i 46 arrivati successivamente alla conquista. Per quanto riguarda gli altri 46, sappiamo che 19 erano sposati con donne spagnole, uno era vedovo, 13 avevano sposato donne del posto, 10 erano celibi.

Gli spagnoli posero il controllo su una società fortemente stratificata, con un sistema di credenze molto complesso in cui norme e costumi sociali legati al matrimonio ebbero un ruolo fondamentale nell’inserimento degli europei negli affari di famiglia. Le due classi principali erano quelle dei pipiltin (nobili) e macehualtin o macehuales (cittadini comuni); per le donne appartenenti alla prima classe il rito del matrimonio prevedeva la compilazione di un documento formale e una cerimonia pubblica. La poligamia era un privilegio dei soli nobili, in quanto permetteva di instaurare diversi rapporti sociali tramite le alleanze matrimoniali31. I Monumenta Mexicana ci forniscono la descrizione del rito del matrimonio presso i Tarascos di Michoacán prima dell’arrivo degli spagnoli. Innanzitutto il rito veniva preparato dai genitori senza alcun consenso dei figli; la cerimonia si svolgeva alla presenza di un sacerdote che, accompagnato da un gruppo di vedove, conduceva la sposa presso il padre del futuro marito e lì avveniva il primo atto: allo sposo veniva consegnato un mantello, un’ascia, uno zaino e una corda che indicavano il suo dovere principale, ossia tagliare la legna da portare al tempio per accendere un fuoco in onore del dio Curicaueri. Ma i novelli sposi, invece di consumare subito l’atto, dovevano aspettare dai due ai quattro giorni in astinenza; durante questo breve periodo lo sposo doveva portare la legna al tempio e la sposa spazzava l’ingresso e il sentiero che conduceva alla casa32. Dal XVI secolo i matrimoni tra uomini spagnoli e figlie di caciques senza figli maschi divennero sempre più frequenti. Come d’usanza spagnola l’eredità veniva trasmessa per linea maschile al primogenito, ma in assenza di figli succedeva la figlia femmina. Secondo un documento della Corona del 16 aprile 1585 i capi tribù di Tlaxcala dichiararono che nella loro provincia molti spagnoli avevano sposato donne rimaste vedove dei caciques e che avevano lasciato la casa, la proprietà e altri possedimenti che appartenevano ai figli dei primi mariti,

creando situazioni di confusione. Pare che questi caciques abbiano chiesto che, una volta che queste vedove fossero state date in seconde nozze, a uno spagnolo o a qualsiasi altro uomo, nel momento in cui fossero passate sotto la protezione del marito venissero ripristinati tutti i diritti dei loro orfani, che altrimenti sarebbero stati espropriati e usurpati a causa di questi matrimoni33. Ci furono invece matrimoni tra uomini indios e donne spagnole? Si, ma furono molto pochi per diversi motivi: la subordinazione degli indios, la riluttanza delle famiglie spagnole a dare in sposa le figlie a uomini di classe inferiore, ma anche la scarsità di donne spagnole nelle colonie, almeno nei primi anni della conquista. Nei pochi casi in cui un indio poteva sposare una donna spagnola si trattava comunque di un membro della nobiltà locale, come i membri della nobiltà Tenochca, oppure i membri della linea di sangue reale di Michoacán34.

Il Viceregno del Perù

Sul finire del XVI secolo, il forte desiderio di evangelizzazione condusse i gesuiti nell’Impero Inca, il quale si estendeva dall’Istmo di Panama all’odierna Hornos, passando per il Venezuela fino a giungere alle regioni del Brasile che saranno sotto l’autorità portoghese. Si calcola che l’estensione totale fosse di 6.948.881 chilometri quadrati; tutto questo territorio venne sottomesso al potere di un Proregem per l’amministrazione delle questioni politiche e di un Archiepiscopum per le questioni ecclesiastiche35. La società del vasto impero inca era stratificata in una forma che aveva alla base gli schiavi e i loro figli, i nobili di sangue e la famiglia reale36. I gesuiti definirono gli abitanti dell’imperio come materialisti e ignoranti, ma sappiamo che il loro lavoro non si limitò all’evangelizzazione, poiché giocarono un ruolo fondamentale nell’istituzione del Viceregno. Il 28 luglio 1508, con la bolla Universalis Ecclesiae Regimini, Giulio II concesse i poteri civili a tutti i vescovi e beneficiari delle chiese del vicereame. Il Vicerè collaborava con le istituzioni ecclesiastiche occupandosi di collazione dei benefici, riparazione dei templi, pubblicazione delle bolle papali, distribuzione dei missionari nei territori, celebrazione dei Concili e «“sexcenta alia, quae de iure ad solos viros ecclesiasticos pertinebant”»37. Nel 1524 Carlo V istituì il Consiglio delle Indie, i cui membri erano nominati da lui e provenivano da altri consigli: a questi spettava il governo, la giustizia e l’amministrazione coloniale, come legittima amministrazione suprema delle Indie spagnole. Il Consiglio aveva poi la facoltà di nominare giudici e controllare il loro operato, ma era al contempo l’unico apparato a cui potersi rivolgere per dirimere controversie e liti. Aveva anche il potere di nominare vescovi in sante sedi e Capitoli, istituire diocesi e tracciarne i confini; ma soprattutto riscuotere e redistribuire le decime delle chiese del vicereame38. Al di fuori degli ambiti di competenza della Compagnia il potere era nelle mani di Filippo II, del viceré Francisco de Toledo e del suo successore, Martín Enriquez de Almansa, che arrivò nell’impero nel 158039.

Encomienda e Corregimiento

Preso atto del fatto che gli indios sono esseri di una razza inferiore, pagani, dediti alla sodomia, alle nefandezze, come educarli?

Innanzitutto, gli spagnoli misero in piedi un perfetto dispositivo di potere fatto di istituzioni private, pubbliche e religiose. Tra queste, la giurisdizione privata, o encomienda, fu la prima a imporsi più duramente: divenne la modalità esclusiva di sfruttamento della popolazione locale per i primi cinquant’anni in quanto assicurava autorità ai coloni e terrore per i nativi. L’encomienda prevedeva la consegna di indiani a coloni spagnoli privilegiati, chiamati encomenderos, che avevano diritto a ricevere tributi e lavoro da questi indiani, i quali, sebbene soggetti al versamento di tributi e lavoro per tutto il periodo della concessione, erano considerati liberi, non erano posseduti come proprietà dagli encomenderos, e ciò stabilì una grossa differenza giuridica tra encomienda e schiavitù.

L’encomienda era una concessione, costituiva possesso e non proprietà, era inalienabile e non ereditabile, salvo concessioni particolari; una encomienda vacante sarebbe tornata nelle mani della Corona, la quale poteva rimettere gli indiani al proprio servizio o concederli a un altro encomendero. Questo sistema, che si differenzia dal classico rapporto feudale a cui siamo abituati a pensare, verso la fine del XVI secolo era diventato il mezzo principale per il controllo dei privati spagnoli sull’intera popolazione locale. Ben presto gli encomenderos pensarono bene di trasformarsi in una aristocrazia coloniale ereditaria.

Già Cortés assegnò encomiendas nella Valle del Messico subito dopo la conquista, ed era già un’istituzione consolidata nel 1532 quando la Corona provò ad eliminarla visto il crescente potere dei signori locali.

Ma il conquistatore si rifiutò di eseguire l’ordine, presentando la sottomissione degli indiani tramite encomiendas come una necessità strategica40. Sempre di più la lotta tra encomenderos e Corona si acuì; le sovvenzioni più grandi e redditizie furono le prime a terminare e tutte le encomiendas tornate alla Corona prima del 1570 rappresentavano i tre quarti di tutte le entrate dei tributi. Le prove suggeriscono che nel 1570 lo vittoria della Corona era stata ottenuta e gli encomenderos rimasti vennero lasciati in pace poiché la Corona non aveva più nulla da temere41.

I primi encomenderos fecero pesanti richieste ai lavoratori urbani, poiché la maggior parte di questi signori divenne residente nella capitale: il palazzo di Cortés, le case di Francisco de Montejo e Alonso di Avila vennero costruite dagli indiani.

Ma l’encomienda era considerata dai coloni al pari di una proprietà e il bilancio della prima generazione è caratterizzato da abusi generalizzati: gli indiani erano utilizzati in qualsiasi forma di lavoro manuale, nell’edilizia, nell’agricoltura e nell’estrazione mineraria, erano richieste loro anche provviste quotidiane di cibo, foraggio ma anche metalli preziosi, cereali, tessuti e tante altre cose con cui potevano aumentare la ricchezza dei signori locali spagnoli e garantire la loro rendita42.

Gli encomenderos sopravvissuti alla soppressione della Corona continuarono a lottare sempre per la perpetuità, ribadendo che questo sistema di gestione degli indios avrebbe facilitato e assicurato la loro conversione al cristianesimo, abolito l’idolatria e pacificato tutto il territorio.

Ma le nuove epidemie e lo spopolamento delle zone abitate dagli indios portarono a una netta diminuzione delle entrate e tra XVI e XVII vennero effettuate delle nuove concessioni con carattere completamente diverso dalle precedenti: si trattava per lo più di rendite a importo fisso, tramite tributi raccolti in aree designate da vecchie encomiendas decadute o da vari rami del tesoro reale. Chi furono i beneficiari di questi tributi? Furono nobili della Spagna o delle colonie: il marchese di Salinas, il marchese di San Román, il conte di Cifuentes e tutti gli altri beneficiari erano a tutti gli effetti dei pensionati reali, del tutto diversi dai precedessori delle encomiendas. Così nel 1600, con la manodopera indiana negata, con i tributi determinati dalla popolazione e con la popolazione indiana ridotta dell’ottanta percento dai tempi della conquista, il potere degli encomenderos era quasi scomparso43.

Tutto ciò fu accompagnato dalla progressiva espansione del governo civile sotto il re; in ordine decrescente i rappresentanti del governo regio erano il vicerè, gli oidores o membri dell’audiencia, e i magistrati locali detti corregidores. Questa gerarchia venne stabilita tra gli anni Venti e Trenta del Cinquecento. I primi corregidores ricevevano cibo, foraggio, carburante e servizio dagli indiani come aggiunta al loro salario, proprio come avveniva con gli encomenderos. A Chalco, intorno al 1540, il corregidor e il suo assistente ricevevano dagli indiani della giurisdizione anche tre polli, 200 peperoncini, una fanega di mais, una pietra di sale, un carico di carbone, dodici carichi di legna da ardere, torce di pino e otto servi indiani. Due terzi spettavano al corregidor e un terzo al suo assistente. Ma a Chalco, nel 1552 i tributi vennero convertiti nel versamento annuale di 500 pesos. Lo staf del corregimiento comprendeva anche un teniente (vice), un alguacil (agente), un escribano (segretario) e un interprete. In teoria le nomine venivano effettuate del vicerè, ma alcuni corregidores potevano essere nominati direttamente dalla Spagna e alcuni assumevano il potere di nominare i propri subordinati. Nel 1786 venne introdotta l’intendenza, di derivazione francese.

Anche i corregimientos vennero legalmente aboliti, le posizioni dei corregidores vennero assunte da subdelegati sotto la supervisione degli intendenti. Unico stipendio che ricevevano i subdelegati ora era il cinque percento del tributo sul salario della loro zona: la Corona era interessata ad abolire la pesante corruzione delle colonie, ma alla fine il vicerè si rese conto che molti corregidores conrtinuavano a esercitare il loro potere sotto il nome di subdelegado e che i titoli dei nuovi ufficiali,a volte, emergevano come “corregidores subdelegados”. Il termine corregidores rimase in uso fino al XIX secolo44.

I corregimientos della Valle del Messico negli anni settanta del Cinquecento erano quindici e i confini stabiliti nel 1570 rimasero più o meno stabili fino al XVIII secolo. Le influenze di encomienda e corregimiento sulla società indiana sono misurabili nella misura in cui le istruzioni fornite ai signori spagnoli nel XVI secolo mettevano l’accento sulla missione cristiana, sull’obbligo di trattare “con giustizia” gli indiani, esortavano a far ricoprire i ruoli di governo nelle città da buoni cristiani, di evitare danni contro l’agricoltira indiana da parte del bestiame spagnolo. Ma si imponeva anche di non chiedere tributi oltre le soglie stabilite, di non costringere gli indiani a vendere i propri prodotti a prezzi inferiori alla norma, di non prelevare beni dalle comunità indiane senza il corrispettivo pagamento. Insomma, c’era un elenco preciso di diritti e doveri del corregidor, inoltre erano sempre soggetti a speciali ordini reali per lo svolgimento di compiti amministrativi relativi a criminalità, mercati, strade, concessioni di terreni e tanti altri affari45.

Ma in disprezzo alle norme, questi signori della terra sfruttarono sempre le loro cariche per ottenere molti benefici. Pare che nel 1530 i corregidores trattassero gli indiani peggio degli encomenderos; anche quando arrivarono denunce e gli indiani si trovarono in tribunale contro gli spagnoli raramente questi venivano puniti per i loro reati. Nel XVII e XVIII secolo, con l’ulteriore sviluppo della vita economica coloniale i corregimentos assicuravano circostanze favorevoli per gli affari e la finanza. Le funzioni economiche svolte da questi spesso avevano ripercussioni di vasta portata e una parte essenziale del peso ricadeva sulla comunità indiana.

In conclusione occorre citare tre aspetti del corregimiento tardo: la riscossione dei tributi, i derramas e il commercio. Secondo la legge coloniale i corregidores doveva riscuotere i tributi per conto degli ufficiali del tesoro anche se non potevano riscuotere personalmente presso gli indiani poiché dirottavano i fondi nelle proprie tasche. Ricevevano cibo e altri beni dagli indiani, che rivendevano. Pare che l’appropriazione indebita dei tributi fosse diventata una pratica comune entro il XVII secolo. I derramas sono i tributi aggiuntivi, non autorizzati, come tasse per adempimenti di doveri legali o multe legate a varie trasgressioni46. Nel XVIII secolo si ammise che il salario legale del corregidor costituisse solo una piccola parte del suo reddito reale, circa la metà dei corregidores della Valle del Messico viveva stabilmente a Città del Messico, dedicandosi al commercio, trascurando i propri uffici e disobbedendo in vari modi alle leggi della Corona.

La caratteristica principale dell’encomienda era il prevalere della legge reale e che la vittoria della Corona nella sua soppressione ebbe conseguenze limitate per la società indiana diventa chiaro nella storia del corregimiento, nonostante l’enorme accumulo di leggi reali e vicereali fu impossibile controllare i funzionari amministrativi della corona47.

Il Repartimiento

Presso gli aztechi il lavoro agricolo era una responsabilità primaria nel sistema della proprietà fondiaria comune. Il lavoro nelle suddivisioni urbane, per esempio quello per la costruzione e riparazione di edifici pubblici, era richiesto a tutti gli abitanti capaci di svolgerlo in tutte le cabeceras e sujetos. I signori locali indiani dipendevano dai gruppi di lavoratori e avevano incarichi minimi.

Al tempo della conquista gli indiani si dimostrarono molto vulnerabili alle richieste di manodopera degli spagnoli, dacché erano abituati a provvedere al proprio sostentamento e a prestare servizi anche senza retribuzione, e sembravano pronti a svolgere tutte quelle mansioni considerate degradanti dagli europei. Gli spagnoli approfittarono immediatamente dell’atteggiamento degli indiani verso il lavoro, ma a differenza di quanto accadeva prima gli indiani persero totalmente il senso di gioia e condivisione che legavano al lavoro comunitario, per dare spazio molte volte alla rassegnazione.

Dalla metà del XVI secolo, fino alla fine del periodo coloniale, aderirono alle richieste spagnole di impiego senza il cerimoniale comunitario che aveva accompagnato l’era precedente alla conquista: il lavoro così si spostò dalle categorie sociali, morali e spirituali in cui lo avevano collocato gli indiani, per spostarsi alle categorie economiche dell’Europa. Nei corregimientos degli anni Trenta del Cinquecento e successivi, le disposizioni sul lavoro erano incluse nei regolamenti tributari; la chiesa “primitiva”, persuadendo e influenzando i capi tribù, impiegava lavoratori indiani nella costruzione di edifici ecclesiastici e in altri servizi personali. Per esempio a Tenochtitlan e Tlatelolco le prime esazioni di tributi spagnoli consistevano quasi interamente in richieste di manodopera, servizio al viceré, costruzione di edifici civici, riparazione e riempimento di canali e altri compiti legati al mantenimento delle colonie48.

L’atteggiamento della corona è sorprendentemente diverso da quello dei coloni: nel XVI secolo la corona cercò in vari modi di creare una forza lavoro che fosse libera di scegliere i propri compiti e adeguatamente retribuita. Intanto il lavoro non retribuito venne eliminato gradualmente dalle tabelle dei tributi, con una serie di ordinanze che vennero emanate dal 1549 in poi. Venne introdotto un sistema di assunzioni a rotazione che prevedeva, in teoria, manodopera moderata, orari brevi, distanze di viaggio e salari limitati. Q ueste regole dovevano valere sia nell’encomienda che nel corregimiento, ma sappiamo che in realtà in lavoro non retribuito non venne mai realmentre sdradicato nelle colonie49.

Particolare è il fatto che la legislazione sul lavoro del 1549 arrivò in un momento particolare nello sviluppo del rapporto tra europei e indiani, ossia dopo l’ondata di peste del 1545-48: sebbene gli encomenderos tendevano a incolpare la corona era evidente a tutti gli altri spagnoli non-encomenderos che l’encomienda non fosse più in grado di soddisfare i bisogni dei bianchi: dopo la metà del secolo non c’erano abbastanza lavoratori indiani e molti nuovi proprietari terrieri non encomenderos iniziarono a rivendicare il diritto alla manodopera indiana.

Una soluzione a molti problemi fu la ripartizione, che riguardò l’assegnazione delle terre, la riscossione dei tributi e la gestione del lavoro.

Il ripartimiento fu l’istituzione che regolò il reclutamento dei lavoratori indiani per circa settantacinque anni dopo la metà del secolo: prevedeva un sistema di lavoro razionato e a rotazione che colpiva tutti gli indiani e avvantaggiava una classe di datori di lavoro molto più ampia di prima: per la prima volta le procedure lavorative della colonia erano sottoposte al controllo amministrativo e per poco tempo le nuove esigenze dei datori di lavoro coloniali vennero soddisfatte. Ma le origini del ripartimiento sono in realtà anteriori al 1549: aveva dei precedenti sia nel lavoro pre-conquista che nei primi anni coloniali.

Le comunità si erano alternate al servizio del sovrano Nezahuacoyotl nel XV secolo e si alternarono al servizio del vicerè nel XVI; nel 1520 Cortés aveva ordinato un sistema di rotazione per le encomiendas in base al quale gli indiani avrebbero lavorato per gli encomenderos in turni di venti giorni, con intervalli di trenta giorni tra i periodi di lavoro per ciasciun lavoratore. Le regole di Cortés prevedevano anche mezzi di ispezione, proibivano il coinvolgimento di donne e bambini, consentivano la retribuzione degli straordinari, limitavano il lavoro quotidiano al periodo compreso tra l’alba e un’ora prima del tramonto.

Nel XVII vari problemi portarono a nuovi tentativi di riformare l’intera struttura del lavoro coloniale. Nel 1601 la Corona proibì la costrizione nel reclutamento dei lavoratori, gli indiani potevano scegliere liberamente i loro datori di lavoro e i corregidores potevano solo chiedere che gli indiani si offrissero di essere assunti in posti designati. Anche in questo caso l’intenzione della corona è porre fine a questo sistema. Un altro tentativo venne effettuato nel 1609, attraverso una nuova rete di controlli. Così negli anni venti del Seicento l’audiencia proibì alcuni aspetti della ripartizione urbana e dei restanti servizi; un ordine vicereale del 1632 emanò il divieto definitivo di ripartizione, eccetto nelle miniere e l’ordine entrò in vigore il primo gennaio 163350.

  1. Cfr. Aníbal Quijano, Colonialità del potere ed eurocentrismo in America Latina, pp. 73,74. ↩︎
  2. Ivi, p. 75-76. ↩︎
  3. Ivi, p. 77. ↩︎
  4. Per socializzazione del genere si intende il processo mediante il quale gli attori sociali forniscono al soggetto gli strumenti per stabilizzare il proprio ruolo nella società, alla luce di regole condivise. ↩︎
  5. Cfr. Vincenzo Lavenia, Un’eresia indicibile. Inquisizione e crimini contro natura in età moderna, Bologna, EBD, 2015, p. 13. ↩︎
  6. Cfr. Umberto Grassi, Sodoma. Persecuzioni, affetti, pratiche sociali (secoli V-XVIII), Roma, Carocci, 2020, pp. 24-25. ↩︎
  7. Ivi, pp. 29-30. ↩︎
  8. http://www.giovannidallorto.com/lavori/novella77.html. ↩︎
  9. http://www.giovannidallorto.com/lavori/novela141.html. ↩︎
  10. Cfr. Umberto Grassi, Sodoma, p. 34-35. ↩︎
  11. Cfr. Vincenzo Lavenia, Tra eresia e crimine contro natura: sessualità, islamofobia e inquisizioni nell’Europa moderna, in Le trasgressioni della carrne. Il desiderio omosessuale nel mondo islamico e cristiano, secc. XII-XX, a cura di Umberto Grassi, Roma, Viella, 2015, p. 103. ↩︎
  12. Id., Un’eresia indicibile, p. 19. ↩︎
  13. https://ilcorano.net/il-sacro-corano/2-sura-al-baqarah/. ↩︎
  14. Id., Un’eresia indicibile, p. 20. ↩︎
  15. Id., Convertire e punire? Ancora su teologia, Inquisizione e sodomia nella prima età moderna, in Infami macchie, sessualità maschili e indisciplina in età moderna, a cura di Fernanda Alfieri e Vincenzo Lagioia, Roma, Viella, 2018, p. 24. ↩︎
  16. Ivi, p. 88. ↩︎
  17. Ivi, pp. 35-36. ↩︎
  18. Ivi, p. 37. ↩︎
  19. Cfr. Grassi, Sodoma, p. 103. ↩︎
  20. Cfr. Lavenia, Convertire e punire, p. 47. ↩︎
  21. Cfr. Grassi, Sodoma, p. 104. ↩︎
  22. Cfr. Lavenia, Convertire e punire, p. 47. ↩︎
  23. Cfr. Molina, Crónicas de la hombría. La costrucción de la masculinidad en la conquista de América, in «Lemir», n. 15, 2011, pp. 185-206: pp. 186. ↩︎
  24. Cfr. Bourdieu, La dominazione maschile, Milano, Feltrinelli, 2014, pp. 62-64. ↩︎
  25. Cfr. Molina, Crónicas de la hombría, p. 190. ↩︎
  26. Ivi, p. 191. ↩︎
  27. Ivi, p. 193. ↩︎
  28. Cit. in Monumenta Mexicana, Vol. I (1570-1580), in Monumenta Missionum Societatis Iesu, Vol. VIII, edidit Felix Zubillaga S.I., Romae, apud M.H.S.I., 1956, p. 1*. ↩︎
  29. Cfr. L. M. Burkhart, Mexica Women on the Home Front. Housework and Religion in Aztec Mexico, in S. Schroeder, S. Wood, R. Haskett (edited by), Indian Women of Early Mexico, Norman, University of Oklahoma Press, 2020, p. 25 ↩︎
  30. Ivi, p. 27. ↩︎
  31. Cfr. Pedro Carrasco, Indian-Spanish Marriages in the First Century of the Colony, in Schroeder, Wood, Haskett, Indian Woman of, pp. 87-89. ↩︎
  32. Cfr. Monumenta Mexicana, Vol. I, p. 133. ↩︎
  33. Cfr. Carrasco, Indian-Spanish Marriages, in Schroeder, Wood, Haskett, Indian Woman of, p. 97. ↩︎
  34. Ivi, p. 90. ↩︎
  35. Cfr. Monumenta Peruana, Vol. I (1565-1575), in Monumenta Missionum Societatis Iesu, Vol. VII, edidit Antonius de Egaña S.I., Romae, apud M.H.S.I., 1954, p. 14. ↩︎
  36. Ivi, p. 19. ↩︎
  37. Cfr. Monumenta Peruana, Vol. I, p. 24. ↩︎
  38. Ibidem. ↩︎
  39. Cfr. Monumenta Peruana, Vol. II (1576-1580), in Monumenta Missionum Societatis Iesu, Vol. XIII, por Antonio de Egaña S.I., Romae, apud M.H.S.I., 1958, p. 32. ↩︎
  40. Cfr. Charles Gibson, The Aztecs Under Spanish Rule. A History of the Indians of the Valley of Mexico, 1519-1810, Stenford University Press, 1964, pp. 58-59. ↩︎
  41. Ivi, p. 63. ↩︎
  42. Ivi, pp. 77-78. ↩︎
  43. Ivi, p. 81. ↩︎
  44. Ivi, pp. 83-84. ↩︎
  45. Ivi, pp. 90-91. ↩︎
  46. Ivi, p. 92-93. ↩︎
  47. Ivi, pp. 96-97. ↩︎
  48. Ivi, pp. 220-221. ↩︎
  49. Ivi, p. 223. ↩︎
  50. Ivi, pp. 234-235. ↩︎

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