Inflazione da profitto: come procede il dibattito?

Abbiamo iniziato due mesi fa ad occuparci del tema dell’inflazione da profitto. Oggi arriviamo alla conclusione di questo percorso di ricerca che ha inaugurato anche un nuovo modo di organizzare il lavoro del nostro sito. Cercheremo ogni mese, al massimo due, di cambiare la tematica principale affrontata a cui affiancheremo analisi di libri in uscita, singoli volumi slegati dal percorso principale affrontato e articoli di vario genere che potranno uscire con una cadenza non regolare.

Due mesi fa abbiamo analizzato il libro collettivo L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo, uno dei principali lavori sul tema che ha generato nei mesi successivi alla sua uscita molti dibattiti nella sinistra italiana. Sono state pubblicate molte recensioni positive ma l’analisi più critica e attenta l’hanno scritta Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri per il sito Officina Primo Maggio.

  1. La critica di Bellofiore e Coveri

La loro recensione critica inizia dal saggio di Lampa e Oro dal titolo Una rilettura critica della teoria quantitativa della moneta. Bellofiore e Coveri mettono in discussione l’attualità del monetarismo che per i due autori entra in crisi con il Volcker shock tra il 1979 e il 1982 che sfociò nella crisi del debito dell’America Latina, la quale decretò la sua morte. L’idea che sul lungo periodo l’inflazione abbia un legame proporzionale con la quantità di moneta, utilizzata per spiegare la crisi degli anni Settanta, a cui si sommano le aspettativa adattive, è andata in crisi già con l’economista Lucas. Le aspettative adattive si sono trasformate in aspettative per il futuro, di conseguenza il problema non è più la quantità di moneta ma le aspettative. Questo cambiamento deriva dalla pratica delle banche centrali che empiricamente smentiscono le tesi monetariste. Quello che veniva fissato era il prezzo della moneta e non la sua quantità, segno del riconoscimento della sua natura endogena.

La politica monetaria degli anni ’90, retta dalla Regola di Taylor, per esempio, è una gestione anti-inflazionistica del tasso d’interesse. La moneta è determinata in maniera endogena, come variabile dipendente, a partire da un tasso di disoccupazione naturale, una scelta tutta politica, e un tasso d’interesse naturale che dipende da risparmio e produttività.

L’obiettivo di queste politiche è l’inflation targeting che punta ad ancorare l’inflazione alle aspettative ma senza successo, vista l’enorme fatica degli ultimi anni nel mantenere l’inflazione intorno al 2% in una fase caratterizzata da bassa inflazione. La continuità in tutto questo periodo storico va ricercata non nel monetarismo ma nella guerra di classe che ha tolto potere ai lavoratori. Nel passaggio da fordismo a post-fordismo le banche centrali hanno smesso di comprare sistematicamente titoli del Tesoro, favorendo il maggiore peso del mercato delle obbligazioni, e ridotto i tassi d’interesse contribuendo all’inflazione degli asset. Queste politiche a favore della finanza rientrano nella schema della cosiddetta sussunzione del lavoro alla finanza e al debito, cioè il neoliberismo che entrerà in crisi prima nel 2000 – 2003 e infine nel 2007 – 2008. Seguiranno molteplici crisi fino agli scenari di guerra odierni. Sullo sfondo torna la spesa pubblica in disavanzo che favorisce un keynesismo privatizzato di seconda generazione “che colonizza la sfera pubblica dentro quella privata: non più soltanto dal lato della politica monetaria, ma anche e primariamente da quello della politica fiscale e della c.d. politica industriale”1.

In seguito viene analizzato il saggio Accumulazione, inflazione e banche centrali di Lorenzo Esposito, Roberto Lampa e Gianmarco Oro. Per Bellofiore e Coveri le svolte nelle politiche delle banche centrali dopo la fase pandemica sono determinate dalla perdita di credibilità per l’inflazione non pervista e dal tentativo di evitare che la ripresa della domanda, con offerta gessata, diventasse un aumento dei salari in un contesto di aumento dell’occupazione. Si tratta di una tesi simile a quella sostenuta da Christian Marazzi in un’intervista al Manifesto del 17 marzo 2023.

È corretta l’impressione per cui da un anno e mezzo le banche centrali e tutti i governi abbiano sbagliato l’interpretazione del significato dell’inflazione?

Sì. L’insistenza nel combattere l’inflazione con politiche monetariste tutte incentrate sul volume dell’offerta si spiega come una lotta preventiva, nella migliore delle ipotesi, contro una possibile spirale tra i salari e i prezzi che però non esiste, come dimostrano i dati a disposizione. In realtà stiamo assistendo a un’inflazione dovuta a una spirale prezzi-prezzi, viene cioè dall’accumulazione dei giganteschi profitti accumulati dalla pandemia in poi. La testardaggine dei banchieri centrali è dettata da una politica che vuole proteggere questi profitti ed è nei fatti contraria a una resistenza operaia e del lavoro in aumento dal 2022. L’anno scorso c’è stato un aumento del 52% del numero di interruzioni del lavoro rispetto al 2021, con il 60% in più di lavoratori che hanno partecipato alle proteste. Se confrontato con il periodo fordista, si può avanzare l’ipotesi che si sia innescato un ciclo di lotte sociali che sembrava irripetibile dagli anni 1980 quando è iniziata la controrivoluzione liberista.

Di cosa hanno paura?

Non solo del contagio della crisi finanziaria, ma di quello della crisi sociale. E reagiscono. Anche a costo di andare contro gli interessi del capitale2.

1.1 L’inflazione da profitto

Collegandosi ad Augusto Graziani, Bellofiore e Coveri affermano che se la moneta entra nell’economia tramite espansione della spesa pubblica in disavanzo sostenuta dalla banca centrale o dall’aumento della velocità di circolazione, la nuova moneta arriva alle imprese senza oneri finanziari. L’inflazione riduce il peso degli interessi, migliora la posizione dell’impresa e scarica tutto l’onere sulla finanza pubblica. Si tratta di uno scenario simile al nostro? Favorisce la centralizzazione del capitale? Per gli autori dobbiamo prendere come riferimento Cédric Durand che parla di transizione ad una nuova fase del capitalismo, di cui non capiamo ancora bene i tratti ma dove i gestori dei patrimoni sono più interessati a contrastare la svalutazione del loro patrimonio che l’inflazione.

L’attuale inflazione sarebbe una crisi finanziaria a rallentatore per i dubbi sulla futura valorizzazione reale. Quindi, in sintonia con le tesi di Francesco Saraceno, è qui per rimanere e per questo motivo non dobbiamo fossilizzare l’attenzione solo su salari e profitti.

Prima di proseguire, è bene citare la definizione di inflazione data dagli autori.

L’inflazione non è essenzialmente un fenomeno macroeconomico: è in larga misura microeconomico, nel senso di settoriale. L’inflazione origina dai ‘venditori’ (sellers’ inflation) che fanno il prezzo: sono price maker, come si dice in gergo. Alcune imprese, magari soggette a pressioni dal lato dei costi, aumentano il prezzo, convinte che nella situazione data (con shock comuni e con generalizzate strozzature nell’offerta) i loro concorrenti faranno lo stesso. L’inflazione, con le imprese che manipolano i prezzi per accrescere o difendere i margini, tende a diffondersi da un punto a tutto il sistema, seguendo la catena della produzione. La politica economica deve fermare il processo il prima possibile tramite un controllo dei prezzi3.

Valorizzando le tesi di Marc Lavoie, viene criticata la tendenza nel libro a spiegare l’inflazione sempre con i profitti perché i prezzi sono fatti dalle imprese. Lavoie afferma che “nel meccanismo di fissazione dei prezzi da parte delle imprese, queste applicano un mark-up sui costi unitari normali, ossia sui costi di produzione unitari corrispondenti ad un grado di utilizzo normale della capacità produttiva (di norma inferiore al pieno utilizzo). Tenuto conto dei costi fissi di produzione, la massa dei profitti da un lato ed i profitti unitari dall’altro aumentano in corrispondenza di un’espansione della produzione (a sua volta dovuta ad un aumento della domanda aggregata, così come avvenuto fin dalla fine del 2020 con il venir meno delle restrizioni dovute alla pandemia). L’aumento dei profitti unitari è dovuto essenzialmente alle economie di scala che le imprese realizzano aumentando il grado di utilizzo degli impianti, il che si traduce in una riduzione dei costi fissi unitari, a cui consegue un aumento dei profitti unitari realizzati e, a livello macroeconomico, un aumento della quota dei profitti sul totale del valore aggiunto. Questa spiegazione è in grado di dare conto del carattere tipicamente pro ciclico della quota dei profitti, pur in presenza di un mark-up costante”4.

I costi aumentano perché i salari nominali crescono più velocemente della produttività del lavoro oppure se aumenta qualche costo unitario diretto per unità di prodotto come l’energia. Per Bellofiore e Coveri il libro non tiene conto dell’aumento dei prezzi come conseguenza dell’aumento del margine di profitto per contrastare la riduzione del mark up causato dall’aumento dell’energia. Sostengono che l’inflazione da profitto è una situazione in cui il mark up aumenta come percentuale sui costi unitari diretti da parte delle imprese. Ma “non è detto che si possa parlare di vera e propria ‘inflazione da profitto’, dal momento che l’incremento del mark-up percentuale potrebbe aver luogo a fronte di una crescita dell’intensità capitalistica allo scopo di mantenere costante il saggio di rendimento”5.

Potremmo infine, anche parlare dell’esistenza di profitti da inflazione, come nei settori colpiti maggiormente da essa.

Ricordiamo, per concludere questo paragrafo, che l’inflazione non incide solo su salari e profitti ma anche sulla divisione del plusvalore tra interessi e profitti. Il capitale monetario, come la banca, aumenta l’interesse del credito che concede all’impresa, la quale risponde aumentando i prezzi. Questo spiega perché alti tassi d’interesse aumentano l’inflazione. Parte del capitale emigra dalla produzione, contribuendo alla centralizzazione del capitale anche se rallenta la concentrazione del capitale. Sono due processi legati all’accelerazione delle trasformazioni dei processi produttivi.

1.2 Il conflitto distributivo

Bellofiore e Coveri criticano l’idea di conflitto distributivo del libro che ritengono troppo affine al Marx ricardiano di Salari, prezzo, profitto.

Se ci volgiamo al Marx del Capitale, il quadro è più chiaro e preciso. Il salario reale può aumentare mentre il salario relativo si riduce. Dunque, non è poi così insensata, se letta in questa maniera, la pretesa confindustriale che vorrebbe un “incremento dei redditi di impresa e [del] lavoro attraverso la spinta alla competitività, all’innovazione” (p. 110 del volume). È appunto l’aumento della forza produttiva del lavoro (o al limite anche dell’intensità del lavoro) che può conciliare riformisticamente capitale e lavoro sul terreno del valore d’uso, mentre una conciliazione è invece certamente impossibile sul terreno della spartizione del neo-valore. D’altra parte, la classe lavoratrice non può essere indifferente al punto di vista del valore d’uso, cioè del salario reale o anche dell’orario. E che non esistano compatibilità capitalistiche è evidentemente una fantasia, se no vivremmo nel migliore dei mondi possibili6.

Su questo argomento, inoltre, citano Augusto Graziani per motivare la preferenza per il concetto di inflazione conflittuale:

l’inflazione può anche nascere dal conflitto sociale, e cioè dal fatto che i lavoratori chiedono salari più elevati, о dal fatto che gli imprenditori vogliono profitti maggiori. E una volta raggiunto questo risultato e formulata la teoria dell’inflazione conflittuale, è ancora più facile compiere il passo finale e portare la teoria dell’inflazione fuori dello schema di classe che contrappone lavoratori a capitalisti ed entro lo schema della stratificazione sociale, che contrappone l’uno all’altro i molteplici strati di cui si compone la collettività. A questo punto, anche l’inflazione conflittuale scompare, per fare posto all’inflazione corporativa, inflazione che nasce esclusivamente sul terreno della distribuzione del reddito, ed è dovuta all’appetito, о alla prepotenza, di singole minoranze sociali che vorrebbero migliorare la propria posizione a danno degli altri. Così diventa facile sostenere che l’inflazione non nasce nemmeno dalle rivendicazioni globali della classe lavoratrice, bensì dall’agitarsi di singole categorie, gli impiegati, i bancari, i ferrovieri, e via dicendo, ciascuna delle quali pretende una fetta maggiore del reddito nazionale. Non è quindi la lotta di classe a suscitare inflazione, bensì il meschino egoismo corporativo. (…) Quella che era un’analisi dell’accumulazione del capitale, con uno statuto teorico e dottrinario preciso, diventa una denuncia di microconflittualità, basata sulla teoria della stratificazione sociale7.

Per gli autori, pur sostenendo politiche come il controllo dei prezzi o la scala mobile, la risposta a questa inflazione, come per Saraceno, deve essere pensata soprattutto sul terreno della struttura produttiva e della sua trasformazione. L’esempio è sempre il Next Generation EU, cioè spesa pubblica in disavanzo ma qualificata per ricostruire catene di produzione e distribuzione più snelle e resilienti.

2. La risposta

Gli autori del libro L’inflazione: falsi miti e conflitto distributivo rispondono a Bellofiore e Coveri criticando i loro riferimenti a Lavoie che lega l’inflazione da profitto solo alla crescita del mark up. Lo ritengono qualcosa di fuorviante perché alle imprese e a coloro che percepiscono reddito da capitale interessa il profitto realizzato, non il mark up applicato. Mark up costanti e aumenti dei costi di produzione significano scaricare quest’ultimi sui consumatori, producendo inflazione e aumentando profitto unitario, massa dei profitti e quota profitti sul valore aggiunto se non vengono aumentati i salari. Il mark up non si è ridotto e non è possibile negare l’esistenza dell’inflazione da profitto. Nella loro critica proseguono affermando che se Bellofiore e Coveri sostengono che l’inflazione sia un fenomeno settoriale, proprio per questo non può che essere ritenuto un fenomeno macroeconomico e non microeconomico, come affermano i due recensori.

C’è concordia nel definire le imprese come price maker ma proprio per questo riescono a determinare la dinamica dei prezzi.

Tornando a Lavoie, gli autori sottolineano come le sue analisi non abbiano una base empirica, diversamente dalle loro. Criticano la preponderanza di argomenti teorici senza prove empiriche nelle critiche ricevute e nella loro risposta si dilungano nel dimostrate come molte istituzioni europee, nelle loro analisi, finiscono per dare ragione ai loro calcoli.

Troviamo anche una difesa della loro attenzione al monetarismo. Criticano la ricostruzione storica di Bellofiore e Coveri e sottolineano come la maggior parte delle critiche alle politiche economiche europee non convenzionali, come il QE, dipinte come bombe ad orologeria pronte ad esplodere con una ripresa della crescita della domanda aggregata, propongono come soluzione delle ricette monetariste. Pensiamo al modello delle tre equazioni che comporta l’aumento del tasso d’interesse che raffredda la domanda aggregata disincentivando gli investimenti privati e il consumo a debito. Si creerebbe disoccupazione fino all’allineamento della domanda al livello dell’offerta per fermare l’accelerazione dei prezzi. Questa è una classica lettura monetarista che viene contrapposta al keynesismo cambiato di segno proposto dai recensori.

Infine sul piano politico viene attaccato il tentativo di mettere al centro dell’agenda della sinistra europea la lotta per riconquistare le istituzioni dell’UE.

  1. Zwischen den zeiten. Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell’inflazione, https://www.officinaprimomaggio.eu/zwischen-der-zeiten-problemi-e-contraddizioni-del-capitalismo-negli-anni-del-ritorno-dell-inflazione/, Officine Primo Maggio, Dicembre 2023, pp. 16-17 ↩︎
  2. Marazzi: «Le banche centrali hanno paura del contagio delle lotte operaie e sociali», https://ilmanifesto.it/marazzi-le-banche-centrali-hanno-paura-del-contagio-delle-lotte-operaie-e-sociali, Il Manifesto 17/03/2023 ↩︎
  3. Zwischen den zeiten. Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell’inflazione, https://www.officinaprimomaggio.eu/zwischen-der-zeiten-problemi-e-contraddizioni-del-capitalismo-negli-anni-del-ritorno-dell-inflazione/, Officine Primo Maggio, Dicembre 2023, p. 26 ↩︎
  4. Ivi, pp. 26-27 ↩︎
  5. Ivi, p. 28 ↩︎
  6. Ivi, pp. 32-33 ↩︎
  7. Augusto Graziani, “L’inflazione capitalistica.” In AA.VV., Crisi delle politiche e
    politiche nella crisi, Pironti, Napoli 1981, pp. 56-57 ↩︎

2 Replies to “Inflazione da profitto: come procede il dibattito?”

  1. Ottima analisi. Tuttavia secondo me occorre sviluppare l’importanza della moneta a debito, basata su una fiducia imposta dalla propaganda sui mass media controllati da banche, assicurazioni e holding che pilotano il mercato borsistico, in particolare quello finanziario, che determina il valore del denaro.

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