Analizzare il capitalismo 4.0. Le analisi di Ricardo Antunes e di Into the black box

  1. Introduzione

Il privilegio della servitù. Il nuovo proletariato dei servizi nell’era digitale di Ricardo Antunes è uno strumento molto importante per analizzare le trasformazioni del lavoro a seguito dell’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC). Il sociologo brasiliano critica il mito del lavoro digitale come lavoro che apre al regno della felicità. La sua origine si trova nelle miniere dove vengono estratti i minerali, nelle imprese dove vengono raffinate queste materie prime o in cui vengono assemblati gli strumenti digitali. Sono tutte realtà che si trovano prevalentemente nel Sud globale e dove sono assenti i più basilari diritti dei lavoratori. Questi processi di supersfruttamento non sono circoscritti nel vecchio Terzo mondo perché grazie alla globalizzazione si sono espansi anche nei paesi a capitalismo avanzato. Per questo assistiamo ad una costante erosione del lavoro tutelato e del proliferare di forme di lavoro intermittenti, precarie e informali. Questo produce una nuova morfologia del lavoro che occorre indagare.

L’introduzione delle TIC non ha fatto scomparire il lavoro grazie al macchinario digitale ma ha generato un nuovo proletariato digitale, con lavori più o meno intermittenti. Parliamo, ad esempio, dell’operaio cinese di Foxconn che assembla gli iphone, figlio di esternalizzazioni su scala globale che mette i fornitori di elettronica nelle condizioni di competere “gli uni contro gli altri puntando a rispettare sia le rigorose specificazioni di prezzo, sia la qualità del prodotto e il tempo di produzione, il che finisce per generare pressioni salariali e rischi per la salute dei lavoratori”1.

Se ci spostiamo nei paesi a capitalismo avanzato, Antunes cita i lavoratori giapponesi sottoccupati o disoccupati che passano le notti nei cybercafé per riposare, interagire virtualmente o cercare lavoro. In Occidente abbiamo l’esempio dei lavoratori di Walmart che combina taylorismo e toyotismo. Da un lato punta all’aumento della produttività mediante l’utilizzo di nuove tecnologie e la parzializzazione delle tariffe lavorative mentre dall’altro usa il just in time con i propri fornitori. Antunes sostiene che la nuova divisione del lavoro combina questi processi di precarizzazione del lavoro e l’intellettualizzazione delle TIC ma tutte queste trasformazioni non rendono obsoleta la legge del valore, anzi, viene rafforzano il suo funzionamento, integrando nuove forme di generazione di lavoro eccedente. Una nuova formulazione del concetto di proletariato dovrà includere tutti coloro che per vivere devono vendere la propria forza-lavoro in cambio di un salario, indipendentemente dalla materialità o immaterialità del lavoro o la sua regolamentazione. Antunes parla di classe che vive di lavoro.

In questa fase del capitalismo, lavoro produttivo e improduttivo entrano in forte simbiosi. Questo significa che è possibile svolgere attività produttive e subito dopo improduttive, come dare qualità al prodotto. La teoria del valore è rafforzata dalle esternalizzazioni per aumentare l’estrazione del plusvalore, distruggendo i diritti dei lavoratori. Anche le imprese pubbliche partecipano, direttamente o meno, al suo aumento. Questi processi finiscono per toccare anche la circolazione del capitale e delle informazioni che sono legati all’espansione del settore dei servizi. I servizi producono nuove forme produttive di lavoro che generarono più valore nascosto da non valore. Il capitale si valorizza nell’interazione tra lavoro vivo e morto che viene rafforzato per aumentare la produttività del primo. Questo porta al macchinario tecno-informatico che rende, potenzialmente, tutti gli spazi generatori di plusvalore. A riprova di ciò, Antunes porta gli esempi dei contratti zero hours inglesi o di Uber. Nel primo caso, sono forme contrattuali che non hanno una determinazione a monte delle ore da svolgere. I lavoratori sono a disposizione per ogni necessità, in attesa di una chiamata. Quando lavorano, vengono pagati unicamente per ciò che fanno e nei tempi di attesa tra un impiego e l’altro non ricevono alcun compenso.

Per quanto riguarda Uber, i lavoratori svolgono la loro mansione con la propria macchina, facendosi carico di tutte le spese di sicurezza, manutenzione o pulizia. L’imprese globale che si cela dietro l’app si appropria del plusvalore senza dover assolvere ai doveri che tradizionalmente ha un datore di lavoro nei confronti di un dipendente che assume.

“Nell’impresa ‘moderna’, il lavoro che i capitali esigono è quello più flessibile possibile: senza giornate pre-determinate, senza spazio lavorativo definito, senza remunerazione fissa, senza diritti, neanche quelli di organizzazione sindacale. Finanche il sistema di ‘obiettivi’ è flessibile: quelle del giorno seguente devono essere sempre maggiori di quelle ottenute nel giorno precedente”2.

Questa situazione è peggiorata dai progetti di industria 4.0, ovvero l’uso delle TIC nella produzione industriale per automatizzare i processi produttivi in una catena generatrice di valore controllata tramite algoritmi e strumenti digitali. Antunes prevede uno scenario di sussunzione reale del lavoro al capitale che implica una grande espansione del lavoro morto e una riduzione del lavoro vivo.

Ricardo Antunes

2. L’ascesa del cybertariato

Nell’attuale fase del capitalismo assistiamo anche ad una forte espansione dei servizi che intersecano sempre di più agricoltura e industrie. Bisogna capire, però, sé i servizi producono plusvalore. Antunes riprende in mano Il Capitale di Marx, in particolare la conversione dei trasporti in ramo produttivo dell’industria per colmare il limite della deperibilità delle merci. Marx aveva intuito che questo ramo produttivo aumentava il valore senza produrre qualcosa e riuscì ad avere questa intuizione perché aveva una visione ampia dell’industria. Questo settore è caratterizzato come un processo produttivo dentro un processo di circolazione che coincide con il trasporto di merci. Si tratta di una sfera particolare d’impiego del capitale produttivo che, all’interno del processo di circolazione, dà continuità al processo produttivo e senza la sua azione sarebbe impossibile consumare merci deperibili, dimostrandosi un’industria differenziata e generatrice di valore. Questa caratteristica è riscontrabile anche nei servizi con la loro produzione immateriale.

Inoltre “Marx afferma che, dato che il tempo di rotazione del capitale è uguale al tempo di produzione (che include il tempo di lavoro) più il tempo di circolazione, quanto più vicino allo zero è il tempo di circolazione del capitale, tanto più grandi diventano la produttività e la produzione di plusvalore, una volta che il tempo di circolazione del capitale può limitare o velocizzare il tempo di produzione e, pertanto, aumentare o diminuire il processo di produzione del plusvalore”3.

Questo conferma come un tipo di produzione immateriale come i trasporti sia imprescindibile per concretizzare la produzione materiale e di plusvalore. Nei servizi, invece, stiamo assistendo alla nascita di nuove forme di estrazione del plusvalore.

“La nostra ipotesi, quindi, è che stiamo assistendo su scala globale alla crescita di nuove forme di realizzazione della legge del valore, configurando meccanismi complessi di estrazione del plusvalore, tanto nelle sfere della produzione materiale quanto delle attività immateriali, anche queste crescentemente costitutive delle catene globali di produzione di valore. E ancora, anche non essendo l’elemento dominante, è necessario riconoscere che il lavoro immateriale va assumendo un ruolo di rilievo nella conformazione del valore, non solo per essere parte dell’articolazione relazionale tra distinte modalità di lavoro vivo in interazione con il lavoro morto, come anche per essere partecipe del processo di valorizzazione, riducendo il tempo di circolazione del capitale e, di conseguenza, anche del suo tempo totale di rotazione”4.

Antunes si ricollega ai lavori di Ursula Huws, secondo cui concetti come lavoro immateriale o società della conoscenza sono il risultato di una complessificazione della divisione del lavoro. Le TIC si espandono in tutte le attività lavorative, non solo quelle svolte online. Questo consente di analizzare la produzione di valore a partire dal modo particolare in cui i lavoratori legati alle TIC sono presenti nei diversi processi produttivi, ad esempio la gestione dei ritmi di lavoro tramite algoritmi, la gestione delle buste paga o del marketing. Alcuni di questi lavori sono direttamente implicati nella produzione di merci ed è più facile prendere coscienza della loro capacità di produrre valore.

Attività come logistica, marketing, distribuzione o servizi al consumatore sono ormai lavori produttivi ma Huws vi include anche il lavoro gratuito svolto da chi utilizza le piattaforme online ma solamente nel momento in cui entrano direttamente nel processo di valorizzazione. Queste trasformazioni non stanno portando alla scomparsa del lavoro materiale e molte di queste professioni sono strettamente legate al lavoro manuale e alla produzione materiale.

“Senza la produzione di energia, cavi, computer, cellulari e un’infinità di prodotti materiali, senza la fornitura delle materie prime per la produzione delle merci, senza il lancio di satelliti nello spazio per caricare i loro segnali, senza la costruzione di edifici dove tutto questo è prodotto e venduto, senza la produzione e la conduzione di veicoli che rendono viabile la sua distribuzione, senza tutta quella infrastruttura materiale, l’internet non potrebbe neppure essere connesso”5.

Per quanto riguarda l’impossibilità di misurare il valore, Antunes sostiene che: “il valore è sempre più risultante del lavoro sociale e collettivo, complesso e combinato, predominante materiale, più crescente nei suoi tratti di immaterialità, entrambi presenti nelle nuove catene produttive globali, sempre più correlate e inter-relazionate. Così è necessario enfatizzare che il lavoro immateriale è diventato anche parte integrante e vitale che trova vigenza nel capitalismo finanziario, informatico e digitale del nostro tempo. La sua misurazione ha smesso di essere, da molto tempo, individualizzata, essendo una media sociale, una volta che il valore risulta dal lavoro sociale, collettivo, complesso e combinato”6.

Nelle trasformazioni della produzione nel capitalismo, dobbiamo tenere in considerazione le esternalizzazioni che colpiscono tutti i rami della produzione che espandono le aree di incidenza del valore e dove viene intensificata l’estrazione del plusvalore. Questo è ben visibile nei servizi pubblici esternalizzati.

Antunes prosegue la sua analisi domandandosi sé questi lavoratori dei servizi sono parte integrante della classe media.

La classe media è composta da coloro che svolgono attività non manuali e che cercano di distinguersi dalla classe operaia nella sfera dei consumi e nei valori simbolici. Spesso è influenzata dai valori della borghesia ma senza averne i mezzi materiali e simbolici. In questa fase storica, tuttavia, i lavori della classe media stanno subendo un forte processo di proletarizzazione, in particolare la fascia bassa della classe media che oggettivamente si avvicina alla classe lavoratrice mentre quella alta si avvicina alla borghesia. Per questo motivo la classe media possiede la coscienza di una non-classe.

Nei servizi, i lavoratori svolgono mansioni diverse dal classico lavoro intellettuale e finiscono per caratterizzare un nuovo proletario. Si tratta di un segmento della classe lavoratrice espansa o di una nuova classe sociale?

Antunes critica tesi come quelle di Guy Standing che scambia la parte del proletariato soggetta a maggiore precarietà per una classe a sé stante, disorganizzata e attratta da fascismo e populismo. Per Antunes non si tratta di una classe pericolosa ma rientra in quella che chiama nuova morfologia della classe lavoratrice, dotata di due distinti poli: i precari e la classe lavoratrice sindacalizzata.

Quest’ultima lotta per non vedere avanzare la precarietà, la cui incidenza dipende dalla capacità dei lavoratori di resistere. Questi due poli “sembrano avere il loro futuro indelebilmente legato: nelle loro lotte, il giovane precariato, apparentemente più ‘disorganizzato’, vuole la fine della precarizzazione completa che lo opprime e sogna un mondo migliore. A loro volta, i lavoratori più tradizionali, più organizzati sindacalmente e politicamente vogliono evitare la loro degradazione ancora più grande e rifiutano la loro conversione nei nuovi precarizzati del mondo. Dato che la logica distruttiva del capitale è molteplice nella sua apparenza, ma una nella sua essenza, se questi poli vitali del mondo del lavoro, che vivono tante situazioni di eterogeneità come di omogeneizzazione, non riusciranno a connettersi solidariamente e organicamente, soffriranno una precarizzazione ancora più grande”7.

L’inserimento di nuovi meccanismi di estrazione del plusvalore è accompagnato dall’espulsione di lavoratori dall’occupazione e l’intensificazione della precarizzazione del lavoro. Abbiamo già parlato della tendenza di convertire tutti gli spazi di lavoro in potenziali generatori di plusvalore ma ora dobbiamo ribadire che questo processo include lavoratori formali, contrattualizzati, e informali, non importa sé sono lavoratori manuali o intellettualizzati. Nel processo di sussunzione del lavoro al mondo delle macchine, il lavoro stabile tende ad essere sostituito dal lavoro più informale.

“Questa nuova morfologia del lavoro abbraccia i più distinti modi di essere della informalità, amplia l’universo del lavoro reso invisibile, nello stesso tempo in cui potenzia nuovi meccanismi generatori di valore, seppure sotto l’apparenza del non-valore, utilizzando nuovi e vecchi meccanismi di intensificazione (anche di auto-sfruttamento) del lavoro”8.

L’informalità si esprime nella sua versione tradizionale, più o meno stabile. I più stabili sono, ad esempio, i venditori ambulanti, i sarti, i muratori. Quelli meno stabili sono i lavoratori remunerati a pezzo o servizio prestato. Troviamo anche lavoratori che finiscono nell’informalità nei momenti di disoccupazione mentre attendono un nuovo impiego.

La seconda espressione dell’informalità è formata dai lavoratori informali senza contratto e diritti, come i lavoratori in nero.

La terza espressione dell’informalità è legata al lavoratore autonomo informale.

L’informalità non necessariamente significa precarietà ma spesso è legata a forme di lavoro prive di diritti e funzionali all’intensificazione dei ritmi di lavoro e dei suoi movimenti, rientrando in un processo più generale di riduzione del contingente di lavoro stabile e qualificato.

Nei servi questo processo ha portato alla creazione del cosiddetto cybertariato, ovvero lavoratori salariati che non hanno la possibilità di gestire e controllare il proprio lavoro. A dimostrazione di ciò, Antunes porta l’esempio di coloro che sono impiegati nel telemarketing, dove il processo produttivo dipende, in maniera contradditoria, dall’articolazione di tecnologie del XXI secolo e del XX secolo, dall’impiego di strategie di emulazione dei teleoperatori, di tecniche di gestione tayloriste e flessibilità toyotista, di sfruttamento della cooperazione dei lavoratori mentre si alimenta la competizione tra colleghi.

“Se il sistema taylorista-fordista aveva una concezione nella quale la gestione scientifica elaborava e il lavoratore manuale eseguiva, il toyotismo e le forme della flessibilità liofilizzata incorporano l’idea che era necessario lasciare che il sapere intellettuale del lavoro fiorisse e la soggettività operaia fosse anche appropriata dal capitale. È evidente che, in questo processo che si espande e diventa più complesso nei settori di punta del processo produttivo (il che non può essere generalizzato in nessun ipotesi oggi), risultano macchine ‘più intelligenti’, che, a loro volta, hanno bisogno di lavoratori più ‘qualificati’, più adatti ad usarle. E, nel processo scatenato, nuove macchine, ‘più intelligenti’, passano a produrre attività, un tempo fatte per l’attività esclusivamente umana, scatenando un processo di interazione tra lavoro vivo differenziato e lavoro morto più informatizzato”9.

Queste nuove forme di interazione tra lavoro vivo e lavoro morto, non eliminano però il lavoro vivo nella generazione di valore. Non rendono la scienza la principale forza produttiva del capitalismo. Proprio per questo è importante studiare questa nuova morfologia del lavoro per provare ad organizzarlo.

3. La lettura di Into the black box del capitalismo 4.0

Nell’introduzione al libro collettivo Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale di Into the black box, troviamo una precisa ricostruzione storica delle rivoluzioni industriali dalle prime fabbriche inglesi del Settecento alla quarta rivoluzione industriale. Per farlo adottano una prospettiva globale che non si limita ad analizzare le innovazioni tecniche europee ma anche il contesto globale senza il quale non ci sarebbe stato questo sviluppo. Pensiamo solamente allo schiavismo nelle piantagioni di cotone nelle Americhe. Un secondo aspetto tenuto in considerazione è la capacità di mettere a valore figure eterogenee del lavoro da cui estrarre plusvalore che è ben visibile al giorno d’oggi con l’estensione globale delle catene del valore e con le sue diverse forme di lavoro con lo scopo di massimizzare i profitti e indebolire la classe operaia. In questo modo la rivoluzione della logistica, con il disfacimento della grande fabbrica fordista, è una contro-rivoluzione per indebolire gli operai, disarticolando la loro forza.

L’analisi di Into the black box rifiuta una visione stadiale del capitalismo. Non esiste una successione che dall’accumulazione originale arriva al capitalismo del general intellect. Piuttosto coesistono, formando assemblaggi e relativi conflitti nel quadro di una nuova divisone globale del lavoro.

“Pensiamo, infatti, che nel 4.0 si diano effetti di accumulazione originaria sulle metropoli e sul campo del sapere, forme di sussunzione formale laddove il capitale “succhia” attività di cooperazione a esso pre-esistenti, sussunzione reale nel ricorso sempre più pervasivo a tecniche di industrializzazione, mentre si aprano soglie di sussunzione totale nella messa a lavoro di sempre maggior di tempo individuale, riproduttivo e sociale”10.

Questo salto tecnologico finisce per assorbire alcune funzioni macchiniche alla forza lavoro e certe attività umane sono macchinizzate. In Marx ogni macchina è una ri-territorializzazione di relazioni di potere. Le macchine e lo sviluppo sono, come nella famosi tesi trontiana di Operai e Capitale, influenzati dal conflitto.

“Da questo punto di vista le piattaforme digitali sono un utile caleidoscopio. Procedono per concatenamenti di macchine fisiche e astratte, si diffondono nelle metropoli, nascono catturando forme di cooperazione pre-esistenti che sussumono e potenziano capitalisticamente. Ma al contempo, co-evolvono di continuo innovandosi grazie ai costanti comportamenti di sottrazione, resistenza, rifiuto, ma anche uso “altro” della forza lavoro delle piattaforme stesse. Sono insomma macchine che incarnano il diagramma delle relazioni di potere tra classi. L’innovazione procede in una dialettica tra il lavoro vivo che muove, forma e istruisce le nuove generazioni di macchine e il dispositivo-macchina che utilizza il lavoro vivo per modificarsi in continuazione”11.

Into the black box si domanda sé il capitalismo 4.0 succhi dinamiche di cooperazione autonome dal capitale. Stiamo parlando del famoso general intellect irriducibile al comando capitalista ma fanno notare che il capitale ha la forza per depredarlo e manipolarlo. La razionalità collettiva è macchinizzata negli algoritmi e ruba le conoscenze di lavoratori sul processo produttivo.

Il lavoro salariato è radicalmente cambiato, assieme a tutte le altre forme di lavoro. Il lavoro salariato di epoca fordista non esiste più.

“Questa fase ha lasciato il posto a una frammentazione degli spazi e dei tempi di lavoro, a un’interiorizzazione delle forme di disciplinamento, a una organizzazione logistica del lavoro tramite filiere ed esternalizzazioni, a una privatizzazione del welfare e a una individualizzazione delle relazioni industriali”12.

Le trasformazioni di cui parla Into the black box hanno moltiplicato le forme di lavoro e di assemblaggio che integrano nel capitalismo delle piattaforme forme di lavoro periferiche. La piattaforma è quindi un campo di battaglia tra capitale e lavoro. Possiamo mettere in campo atti di sabotaggio oppure puntare alla riappropriazione del sapere algoritmico che possa portare ad un socialismo digitale. C’é anche una terza opzione: “L’algoritmo, infatti, se considerato non come un semplice artificio matematico o un oggetto autonomo, ma come la configurazione dinamica di forze sociali che lo plasmano, non si definisce come un’astrazione tecnica. Piuttosto, esso emana una soggettività “fisica” ben oltre sé stesso, interagendo e mutando di continuo a partire dalle interazioni sociali che costruisce e nelle quali è inserito. Chiaramente software e codici digitali funzionano oggi principalmente come macchine per aumentare e accumulare il plusvalore, ma ci pare che oltre alle dimensioni del sabotaggio e del “controllo operaio” dell’algoritmo sia necessario considerare anche un’ipotesi contro-algoritmica, appunto di formazione di soggettività algoritmiche di rottura all’interno della metropoli planetaria integrata che sta emergendo”13.

  1. Ricardo Antunes, Il privilegio della servitù. Il nuovo proletariato dei servizi nell’era digitale, Punto Rosso, Milano 2020, p.23 ↩︎
  2. Ivi, p.31 ↩︎
  3. Ivi, p.38 ↩︎
  4. Ivi, p.42 ↩︎
  5. Ivi, p.45 ↩︎
  6. Ivi, p.46 ↩︎
  7. Ivi, pp.53-54 ↩︎
  8. Ivi, p.62 ↩︎
  9. Ivi, pp.85-86 ↩︎
  10. AA.VV., Capitalismo 4.0. Genealogia della rivoluzione digitale, Meltemi, Milano 2021, p.21 ↩︎
  11. Ivi, pp.24-25 ↩︎
  12. Ivi, p.30 ↩︎
  13. Ivi, pp.36-37 ↩︎

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