di Marco Guastavigna
- Posizionamento dell’autore
Sono un ex insegnante in pensione, con pluridecennale esperienza di formazione del personale della scuola a proposito dell’impiego di dispositivi digitali. Mi definisco ricercatore inopportuno e libero dall’opportunismo, perché non faccio sconti a nessuno e perché la mia condizione anagrafica e socio-economica mi consente di non dover rispondere a una qualche struttura di potere relativa alla logistica della conoscenza, in particolare accademia ed enti analoghi. Ho una posizione politica radicale, fondata sull’ostinato riconoscimento delle ingiustizie e delle distruzioni implicate dal modello capitalistico e sulla caparbia convinzione che sia pertanto necessario (e sempre più urgente) collocarsi nell’area del conflitto esplicito con la situazione data, per modificarla profondamente. Affinché questa scelta possa aspirare ad avere dimensione collettiva, nel caso dell’istruzione e della scuola sono prioritarie da una parte la denuncia della colonizzazione messa in atto dall’oligopolio del capitalismo di piattaforma, che agisce in nome del valore economico, e dall’altra la ricerca di alleanze con tutti i soggetti che si pongano l’obiettivo di uno sviluppo umano equo, con particolare riferimento alla condivisione cooperativa e mutualistica della conoscenza. Questo contributo vuole andare in questa direzione e si articola perciò in una pars destruens, di decostruzione del contesto attuale, e in una pars costruens, che vuole orientare su possibili alternative tecno-economiche e culturali per andare oltre il torpore e l’opposizione devitalizzata.
- Pars de(co)struens
Il periodo del distanziamento delle pratiche didattiche, iniziato nel marzo 2020, ha definitivamente consegnato all’infrastruttura e alla cultura delle piattaforme del capitalismo digitale un’istruzione che già da tempo le aveva privilegiate sia sul piano dell’apprendimento, nella definizione dei canoni tematici STEM, sia con le proprie decisioni in merito alle opzioni logistiche. In gran parte del mondo occidentale i CEO di GAFAM sono stati poi i super-eroi virtuali che hanno permesso con la fornitura dei propri dispositivi il parziale salvataggio della scolarizzazione, ridotta in un angolo dall’emergenza sanitaria.
Non possiamo assolutamente permetterci di dimenticare la didattica a distanza e, successivamente, le linee guida per la didattica digitale integrata. Non possiamo perché la prima è rapidamente assurta addirittura ad acronimo assolutizzato e assolutizzante, con tanto di articolo determinativo – la “DAD” -, ad esemplificare in modo cristallino una delle caratteristiche di superficialità tipiche del lessico egemonico, ovvero le formulazioni-ombrello, slogan non ulteriormente declinati, destinati a diffondere un’idea fasulla di comprensione condivisa, capace di celare la mancanza di articolazione e le conseguenti, continue e profonde lesioni dell’autodeterminazione professionale, individuale e collettiva. La “DID”, invece, segue un altro paradigma tipico del processo di egemonia delegato dalle piattaforme del capitalismo digitale alle istituzioni: l’appello a trasformare la difficoltà in opportunità, l’emergenza in volontà innovativa.
Del resto, la centralità dell’innovazione è uno dei cardini della cultura neoliberista, uno degli ingredienti dell’auto-imprenditorialità. Si configura come auto-dichiarazione di inadeguatezza dell’approccio metodologico e strumentale, che richiede uno strappo e un riadattamento del contesto, delle risorse e della capacità: la distruzione creatrice (la schumpeteriana disruption), in salsa scolastica. Questo approccio è intervenuto a sancire il passaggio tra DAD e DID, ovvero tra (indiscutibile) emergenza e (di nuovo auto-dichiarata) governance della situazione e della transizione, con la prospettiva di plasmare il futuro.
Ed ecco rispuntare, più tronfia che mai, nonostante le gigantesche difficoltà, la locuzione “fare innovazione”, a cui seguirà il focus – che verrà ripreso dai finanziamenti nell’ambito del PNRR – sugli ambienti di apprendimento “innovativi”; non “rinnovati”, perché questa prospettiva richiederebbe di attribuire senso e significato non al modificare in sé ma alle ragioni e agli obiettivi del cambiamento. Come detto, queste scelte lessicali assegnano deterministicamente al “nuovo” – in particolare se “digitale” – il ruolo di fine anziché quello di mezzo. E la scuola si conforma a una visione tecnocratica, sostituendo all’idea di progresso e di miglioramento quella di rottura, epistemologica e ontologica.
Una vera e propria declinazione dei bisogni di apprendimento, del resto, è considerata una perdita di tempo, a fronte della dogmatizzazione delle potenzialità dei dispositivi digitali: si tratta solo di estendere l’uso di questi ultimi e il resto verrà da sé. Non è un caso, del resto, che molto spesso l’impostazione della formazione sia empirica e piramidale: da una parte l’accesso a vetrine di (presunte) buone pratiche, dall’altra l’auspicato e spesso agognato inserimento tra (presunte) avanguardie. Alla base della piramide è richiesto di imitare e riprodurre, oltre che di plaudire a convegni e iniziative analoghe.
A confermare la virtuosità di un’impostazione gerarchica – e sessista! – della professionalità “digitale” è arrivato del resto il quadro di riferimento europeo per le competenze digitali dei docenti, “DigCompEdu”, secondo cui la formazione dei docenti deve organizzarsi sulla base di sei grotteschi livelli di padronanza, gradienti di asservimento all’attualità bloccata dello scenario “digitale”: novizio, esploratore, sperimentatore, esperto, leader e pioniere.
Chi legge avrà notato che ho collocato l’aggettivo digitale tra virgolette. E avrà per altro frequentemente incontrato l’espressione “il digitale”, apparentemente compresa e comprensibile da chiunque, in realtà designante un oggetto confuso, non meglio identificato. Siamo infatti – di nuovo – nel campo della pseudo-condivisione. In origine “digitale” è stato coniato per definire ciò che è rappresentato con numeri o che manipola numeri. Ma in seguito è stato dotato di articolo e sostantivato e per ciò stesso progressivamente potenziato sul piano semantico, fino a assurgere nell’immaginario scolastico (e non solo) a un ruolo sciamanico e totalitario. L’accostamento dell’aggettivo a sostantivi diversi (scuola, didattica, educazione, competenza/e, apprendimento, futuro, e così via) ha poi prodotto binomi per lo più pseudo-scientifici, che, evocando in modo olistico la dimensione tecnologica e quella metodologica, giustificano per gli adepti del “digitalismo” una totale fiducia nell’efficacia formativa del proprio agire e compiaciute dogmatizzazioni di principi didattici e situazioni professionali.
Questo approccio abdica in partenza al ricorso in prima persona al pensiero analitico, a capacità e intenzione di assegnare senso e significato a obiettivi definiti e concepiti in rapporto a contesti precisi, adottando una visione ingenua, deterministicamente ottimista nei confronti dei dispositivi digitali in quanto tali.
A ciò si aggiunge – purtroppo – il fatto che le poche e sparute forme di opposizione all’egemonia tecno-liberista utilizzano il medesimo linguaggio e le medesime infrastrutture di coloro di cui si considerano fieri avversari. I documenti vengono collocati sulle piattaforme del capitalismo di sorveglianza, nascono gruppi di discussione sui business network e il campo di battaglia culturale è, appunto, “il digitale”: lessico e agenda dei resistenti sono del tutto subordinati alle iniziative del flusso mainstream e – al più – sono concepite “ripartenze” contro quanto deciso e diffuso dal MIM e dalle sue branche periferiche. Insomma, una strategia asfittica e strutturalmente perdente, come dimostra l’ultima contesa polarizzata sull’impiego dell’intelligenza artificiale.
Insomma, sembra proprio che al “digitale” non vi sia alternativa.
Pars costruens
A volerle vedere e volendo impegnarsi a praticarle, vi sono invece alternative in termini sia di prospettiva politico-culturale sia di dispositivi e di pratiche. Mi riferisco alle tecnologie conviviali, il cui scopo sono condivisione paritaria della conoscenza, sviluppo umano equo, cooperazione non competitiva, mutualismo, sostenibilità economica e ambientale, rinnovamento.
Questi dispositivi vanno dal free software, ai motori di ricerca non profilanti (per esempio DuckDuckGo e Qwant), ai fairphone. Si rifanno ai concetti di opensource, contenuti aperti, creative commons licenses, diritto all’anonimato, oltre che alla riservatezza, e si contrappongono in modo esplicito al modello tecno-liberista, fondato sul codice proprietario, sulla rendita da brevetti, sul segreto industriale, sull’obsolescenza tecnologica esasperata, sull’estrazione di valore dai dati personali degli utenti sottoposti a profilazione coatta.
La contrapposizione politicamente utile e significativa, quindi, non è “digitale sì” versus “digitale no”, ma quella tra dispositivi digitali a logistica estrattiva, tipici del modello tecno-liberista, e dispositivi digitali a vocazione aperta e decentralizzata, non profilanti. Se i primi indirizzano infatti verso l’accettazione e l’adattamento allo status quo, i secondi possono andare in una direzione emancipante. È quindi necessario che il personale della scuola li conosca, per prefigurare e collaborare a costruire condizioni professionali e didattiche molto diverse da quelle attuali.
Utilizzare e far conoscere (anche) le tecnologie conviviali nei continui corsi di formazione massivi per i docenti permetterebbe infatti di:
- cogliere opportunità collettive, operative, cognitive e culturali di inclusione e partecipazione e di estensione e prolungamento nel tempo delle capacità umane;
- contrastare l’impatto ambientale dei dispositivi a immaterialità mistificata;
- restituire, almeno parzialmente, Internet alla sua funzione di infrastruttura senza confini, pubblica, sede di intelligenza collettiva aperta e arcipelago di punti di enunciazione, senza gerarchie di potere epistemologico, economico e logistico;
- praticare una didattica autenticamente sperimentale, con ipotesi definite e impieghi in contesti i cui bisogni formativi siano stati rilevati con attenzione;
- scegliere di volta in volta i dispositivi più adatti alla situazione in cui si opera, analizzando con attenzione le alternative;
- indebolire la visione e le pratiche mainstream, utilizzando, costruendo e diffondendo invece un linguaggio autodeterminato, ovvero analitico, con significato davvero professionale e capace di demistificare l’approccio tecnocratico e il tecno-entusiasmo acritico;
- riaffermare, più in generale, il diritto all’autodeterminazione professionale, intellettuale e culturale, collettiva prima ancora che individuale.
- prestare specifica attenzione alla potenziale dequalificazione dell’agire cognitivo da parte dei dispositivi impiegati.
Tra queste potenziali dequalificazioni si colloca certamente la sostituzione – anche parziale – degli insegnanti con dispositivi di intelligenza artificiale, che si configurerebbe come impoverimento delle relazioni umane e della creatività. Più in generale, va colto che, avendo prodotto mega-macchine predittive fondate su modelli a correlazione statistica, l’approccio tecno-liberista magnifica l’efficacia della traduzione di processi complessi in materiale computabile, in nome dell’efficacia. È necessario invece avere come focus la decostruzione dell’IA, ovvero:
- chiarire che la riduzione statistica e la ricerca della computabilità sono vincoli, la cui accettazione acritica spinge a naturalizzare e perpetuare il modello socio-economico corrente, a immaginare il probabile anziché il possibile, il modificabile;
- denunciare l’agire oligopolistico delle corporation di settore, le cui capacità di elaborazione di BigData e di costruzione di BigCorpora dinamici dipendono da una potenza di calcolo e infrastrutturale completamente fuori dalla portata delle risorse di altri soggetti;
- abituarsi a porsi e a porre ogni volta domande in campo etico: non solo “cosa?” e “come?”, ma anche “perché (finale e causale)?” e “se”, inteso come vaglio delle potenziali conseguenze, senza dare nulla per scontato;
- praticare il dialogo, il confronto, la cooperazione e il mutualismo, scrollandosi di dosso ogni forma di gerarchizzazione professionale tecnocratica.
La costruzione di una “cultura tecnologica alternativa”, fondata sui dispositivi digitali a vocazione conviviale, può puntare a ulteriori sviluppi.
In primo luogo, possiamo immaginare una autorialità digitale sostenibile, individuale o, meglio!, collettiva, che:
- impiega prioritariamente software libero e contenuti aperti;
- controlla i flussi di dati messi in movimento dai dispositivi e privilegia quelli che non hanno vocazione profilante;
- cura la compatibilità dei propri elaborati con qualsiasi sistema operativo potenzialmente in possesso degli utenti;
- preferisce e valorizza tempi di elaborazione brevi;
- ricerca, costruisce, tesaurizza e diffonde schemi operativi rapidamente comprensibili, altamente replicabili proprio perché il loro riconoscimento immediato è un valore aggiunto per autori e fruitori.
L’autorialità digitale sostenibile può essere ulteriormente articolata in due ideal-tipi:
- diretta;
- di secondo livello.
Con autorialità diretta intendo la progettazione e la realizzazione in prima persona– individuale e collettiva e quindi mutualistica (collegiale) – di materiali multimediali; questa modalità richiede la piena consapevolezza di alcuni aspetti fondativi del rapporto operativo e cognitivo con i materiali su supporto digitale:
- l’elasticità e la malleabilità (ad esempio: cancellazione del testo, inserimento del testo, taglia-e-incolla e tutte le operazioni di rifinitura, correzione, integrazione, riduzione e così via) dei dati e delle informazioni su base digitale permettono (ovviamente nel rispetto del diritto d’autore) di manipolarli con semplicità ed efficacia; in particolare, sottolineo la possibilità di procedere per perfezionamenti successivi ed eventuali riadattamenti;
- la convergenza su supporto digitale di informazioni di tipo diverso (testi, audio, immagini, filmati, animazioni e così via) e la loro gestione mediante l’interoperabilità con dispositivi diversi per vocazione ergonomica (smartphone, tablet, PC) e sistema operativo facilitano la produzione di materiali multimediali e multimodali (per esempio: lo stesso file può essere stampato su carta e in braille, essere letto da sintesi vocale; essere letto su ebook reader e così via);
- sono richiesti un approccio crossmediale (adattamento dei contenuti al canale scelto) e un’impostazione transmediale (traduzione dei contenuti in tutti i canali possibili); a questo aspetto possono contribuire i dispositivi di intelligenza artificiale generativa text2image, text2video e quelli di riempimento generativo (integrazione di immagini esistenti) e di produzione di sommari testuali di flussi audio-video mediante elaborazione delle trascrizioni automatiche);
- la riproducibilità a costi marginali prossimi a zero consente – oltre ovviamente alla distribuzione – di concepire ed elaborare più versioni dei medesimi materiali, per esempio con differenti gradienti di difficoltà;
- l’illimitata estendibilità ipermediale di quanto realizzato ne consente l’integrazione, in particolare mediante l’accesso a dati e informazioni residenti in rete con i link, anche mediante QRcode, ponte tra contenuti digitali e materiali analogici;
- molti ambienti digitali mettono a disposizione degli utenti ampi repertori a cui attingere per strutturare, articolare, comporre e stimolare il proprio lavoro; in parecchi casi è possibile incrementare le collezioni date mediante la produzione di propri template (modelli); l’intelligenza artificiale generativa può aggiungere altre risorse;
- molti ambienti digitali si caratterizzano per la taskificazione (scomposizione, evidenziazione, proceduralizzazione) dell’operatività necessaria per produrre prodotti complessi, facilitando l’empowerment degli utenti; caso tipico è il word processing: struttura, bozza, layout di stampa, focus sono, per esempio, visualizzazioni diverse del testo, a cui corrispondono fasi diverse del processo di scrittura
- come già accennato, contenuti aperti e free software mettono a disposizione una gamma di funzionalità molto ampia sul piano operativo e qualificata sul piano etico e professionale, anche in termini di consumo culturale consapevole ed emancipato.
L’autorialità di secondo livello costituisce un’altra articolazione delle possibilità di mediazione culturale e didattica; probabilmente più frequente, frequentata e frequentabile della produzione in prima persona, questa modalità prevede scelte consapevoli e ragionate a proposito di contenuti digitali raggiungibili via rete, oltre che autoprodotti, secondo 4 assi fondamentali:
- selezione dei materiali più convincenti perché attendibili, comprensibili, completi, significativi;
- strutturazione dei materiali selezionati con modalità e forme di rappresentazione utili ed efficaci rispetto a contesto e intenzione didattica;
- adattamento dei materiali mediante segmentazione, integrazione, commento, estensione ipermediale;
- associazione ai materiali di percorsi di rielaborazione attiva.
Insomma, una dimensione professionale auto-determinata, democratica, emancipatoria e inclusiva è possibile.
Non credo sarà possibile, il mondo dei docenti è disgregato, i luoghi per compattarsi mancano e la pensione tardiva mette insieme persone con età lontanissime e situazioni contrattuali diverse, non ci riconosce…certo sarebbe un fine ottimale da raggiungere.