L’ascesa del cognitariato nel pensiero di Franco Berardi Bifo

In questo nostro scritto proviamo a delineare l’analisi del lavoro cognitivo nel pensiero di Franco Berardi Bifo con l’intento di mostrarne l’evoluzione e gli snodi essenziali. Siamo convinti che possa essere un contributo importante per analizzare successivamente le trasformazioni del cosiddetto capitalismo cognitivo, un tema la cui discussione è stata aperta sul nostro sito dall’analisi del funzionamento dell’università neoliberale

  1. Il  lavoro cognitivo in Bifo

Il nostro punto di partenza è il libro Neuromagma. Lavoro Cognitivo e Infoproduzione che risale 1995. All’epoca Franco Berardi Bifo stava portando avanti una ricerca intellettuale non ancora ben definita, a cavallo tra lotta di classe ed estetica. Si tratta di due ambiti di ricerca tenuti in alta considerazione dal filosofo italiano sin dalla sua formazione universitaria. Non a caso nel 1971 mentre stava preparando la sua tesi con Luciano Anceschi sulle poetiche dello sperimentalismo era ricercato dalla polizia per una manifestazione non autorizzata. Questo legame tra politica e produzione culturale è vivo anche nei suoi primi libri, ovvero Contro il lavoro del 1970 e Scrittura e movimento del 1974, e ci porta ai due assi centrali della sua produzione teorica: il rapporto tra tecnologia e liberazione dal lavoro e il rapporto tra comunicazione sociale e forme della sensibilità. A livello politico questi interessi trovano un loro espressione nella militanza all’interno di Potere Operaio, un partito dell’estrema sinistra totalmente disinteressato alla costruzione di una società socialista e molto attento al fenomeno del rifiuto del lavoro. Questo concetto non è una semplice posizione teorica ma un comportamento sociale e culturale di liberazione, un modo per sviluppare l’innovazione tecnologica e un tentativo di creazione di un’alleanza tra classe operaia e lavoro intellettuale tecnico-scientifico. Potere Operaio, dice Bifo, riesce così a sovvertire il tradizionale rapporto tra tecnologia e lavoro. Non era più la tecnologia a determinare le trasformazioni sociali bensì il conflitto sociale grazie al rifiuto della subordinazione che spinge il capitale verso l’innovazione e la riduzione della necessità del lavoro umano. Sul piano degli studi culturali, parallelamente a questa esperienza politica, ha iniziato ad interessarsi di schizoanalisi, ponendo attenzione al tema della sensibilità e del modo in cui si determina dentro specifiche condizioni comunicative e tecnologiche. Questi due interessi si ritrovano negli studi di Bifo delle subculture intese come luoghi di sperimentazione, produzione estetica, sensibilità sociale e trasformazione mediatiche. Al loro interno si sviluppa anche la tematica del lavoro grazie all’azione diretta contro il sistema salariato intrecciata ad una dimensione estetica-subculturale. Un simile legame per Bifo è sempre più forte e si è tradotto in una trasformazione pratica della società e nella sua mutazione neurocognitiva. Il contatto tra la sfera economica e cognitiva ha comportato un effetto di sovraeccitazione che investe il sistema produttivo e anche la dimensione della sensibilità erotica ed estetica. L’accelerazione tecnologica ed economica ha portato la mente sociale in una condizione di sovraccarico rispetto ai quali gli schemi cognitivi del neolitico non sono più adeguati per poter elaborare gli stimoli proveniente dall’infosfera mentre la dimensione sensoriale è sottoposta ad un’intensificazione dell’eccitazione che spinge l’organismo ai limiti della sua capacità di elaborazione erotica ed estetica. L’iperstimolazione, chiamata neuromagma da Bifo, nasce dall’interconnessione tra sfera della produzione e dell’informazione capace di ridefinire la produzione e di sconvolgere la menta sociale trasformando le forme politiche, artistiche e culturali. Questo mutamento è reso evidente analizzando l’argomento del lavoro. L’idea di una liberazione dal lavoro ripetitivo ha rappresentato un punto fermo della riflessione di Bifo sin dall’inizio. Nel 1969, mentre si trovava in carcere dopo essere stato colpito da una manganellata durante una manifestazione di solidarietà con gli operai di una fabbrica bolognese, scrisse Contro il lavoro, un testo in cui sosteneva che la vera potenza operaia non consisteva nella conquista dello Stato o nella costruzione di un’economia socialista ma nell’autonomia dal lavoro salariato e nel sabotaggio che costringe il capitale a sostituire il lavoro con l’intelligenza. Bifo sostiene che sabotare il lavoro salariato significava aprire la strada alla liberazione dell’attività umana, intesa come creazione libera e autonoma dalla ripetizione imposta. Questo lavoro anticipava alcuni degli sviluppi delle lotte operaie dei decenni successivi, segnate da forme di resistenza come il sabotaggio, l’assenteismo e il rifiuto del lavoro di fabbrica. Fu proprio questo rifiuto a spingere il capitale a investire massicciamente nelle tecnologie elettroniche, cercando una soluzione alla pressione politica operaia attraverso l’automazione. La rivoluzione microelettronica ha ridotto il peso del lavoro umano nei processi produttivi, aprendo alla possibilità, dice Bifo, di una completa sostituzione del lavoro con le macchine. La riduzione del tempo di lavoro necessario non ha però portato automaticamente alla liberazione dell’umanità dal lavoro. Di fronte alla possibilità concreta di un mondo in cui il lavoro umano sarebbe stato ridotto a una funzione marginale, la società si è trovata paralizzata da una paura profonda. Le contraddizioni storiche della modernità sono emerse con una violenza senza precedenti, rendendo evidente l’incapacità di immaginare un paradigma antropologico nuovo. Il modello antropologico ereditato dal Neolitico, basato sulla centralità del lavoro e sull’organizzazione sociale in funzione della produzione, si è rivelato inadatto a rispondere alle sfide aperte dall’innovazione tecnologica. Di fronte alla possibilità di una liberazione dal lavoro, l’umanità è rimasta impigliata nei nodi irrisolti della civiltà industriale, incapace di compiere il salto necessario per ridefinire il senso della propria esistenza al di fuori della logica del lavoro salariato. Nel corso della modernità, il concetto di tempo di vita è stato progressivamente legato al lavoro, inteso come scambio di tempo per salario, che ha finito per determinare il diritto alla sopravvivenza. Questo legame tra vita e lavoro ha costituito il fondamento dell’intero sistema economico, giuridico e psicologico della società moderna. L’esistenza è stata ridotta alla prestazione lavorativa, con il salario come unico mezzo per garantirsi i beni necessari alla vita. Con l’avvento delle tecnologie produttive avanzate, il tempo necessario per la manipolazione materiale della società ha iniziato a diminuire, mettendo in luce una contraddizione centrale. Se la sopravvivenza dell’individuo è ancora legata al lavoro, cosa accade quando il lavoro stesso diventa obsoleto? Il risultato di questa contraddizione è che il sistema salariale e l’intero impianto economico sociale vincolano l’intelligenza e le potenzialità umane all’interno di una gabbia economica e psicologica che ne inibisce, spreca o distorce i benefici. Franco Berardi riflette su questi temi in Lavoro zero, un libro in cui analizza la critica al lavoro salariato dove però non ha compreso adeguatamente la mutazione in corso, in particolare l’integrazione tra infoproduzione e neuromagma. La sua riflessione si concentra su due processi dominanti nella società contemporanea. Il primo è la deterritorializzazione tecnologica, ovvero il passaggio dal lavoro materiale e fisico a un sistema di produzione, comunicazione e esperienza immateriale. La crescente digitalizzazione trasforma la società in un neuromagma modulare, dove frammenti di conoscenza digitale e comunicativa sono in continua ricombinazione. Il cyberspazio, che si espande a ritmi accelerati, rende il tempo di elaborazione cosciente e le capacità di attenzione dell’individuo incapaci di stare al passo con l’evoluzione tecnologica. L’espansione dell’infosfera aumenta l’indecidibilità e l’ansia degli individui, i quali si trovano a fronteggiare un flusso di informazioni crescente senza avere strumenti per affrontarlo efficacemente. Il secondo processo è una reazione alla deterritorializzazione e riguarda la riterritorializzazione, ovvero il tentativo di ancorarsi a certezze primitive e identitarie, come l’appartenenza a un popolo, una terra, una fede o ideologie nazionalistiche. Si tratta di un movimento disperato, in cui il cervello umano, incapace di affrontare l’iperstimolazione dell’infosfera, si aggrappa a valori antichi che danno un senso di sicurezza, seppur illusoria. Questi due processi, uno che frammenta e l’altro che cerca di ricomporre, coesistono nella contemporaneità ma la loro interazione produce inevitabilmente un effetto catastrofico che si traduce in una crisi sociale ed economica planetaria. La metamacchina, il sistema tecnologico ed economico globale capace di modificare in profondità la realtà sociale e psichica, porta a conflitti, guerre e violenze che esplodono in tutto il mondo, in particolare nelle zone dove il panico esistenziale cresce a causa dell’irriconoscibilità dei paesaggi urbani e psichici. Allora la società mondiale si frammenta in due realtà distinte. In alcune zone si assiste a un dominio del lavoro cognitivo digitale disciplinato, dove milioni di lavoratori, soprattutto asiatici, sono immersi in un processo di produzione globale che coinvolge le loro capacità cognitive e la loro sensibilità fisica e mentale. In altre, l’inadeguatezza a questo nuovo mondo digitale porta a reazioni violente, da guerre tribali a conflitti fra bande, che cercano di rispondere al risentimento verso il sistema tecnologico-economico globale. Questi conflitti esprimono il rancore contro la metamacchina. Siamo davanti ad un’azione subordinata alla ricerca di risarcimenti nei confronti di una realtà che diventa incomprensibile e alienante. Il risultato complessivo di questi processi è un’epoca caratterizzata dall’ingovernabilità. La società sembra incapace di districarsi dai nodi ideologici e strutturali del passato. La possibilità di un’azione collettiva cosciente sembra sospesa, intrappolata tra la crisi del vecchio paradigma e l’incertezza di come sviluppare il nuovo. Sebbene si intraveda la formazione di un cyberspazio dove infosfera e psicochimica possano integrarsi, il fenomeno che domina la scena sociale contemporanea è la disoccupazione vista dalla società principalmente come un problema economico. Berardi invece sostiene che non si tratti di una disgrazia perché rappresenta una condizione capace di liberare il tempo dal lavoro, aprendo alla possibilità di dedicarsi ad attività non capitalizzabili come la ricerca, l’assistenza, la cura, l’educazione e il piacere. Questo tempo liberato è visto come una risorsa per creare una nuova organizzazione sociale non basata sulla produzione e il consumo ma sull’utilità collettiva. Bifo afferma che il sistema economico attuale, ancora ancorato alla logica del lavoro salariato, non è in grado di cogliere questa potenzialità e continua a focalizzarsi esclusivamente sugli aspetti economici e produttivi della disoccupazione. Essa deriva da un modello di crescita economica basata sull’automazione, l’integrazione globale della produzione e tecniche di labor-saving che riducono la necessità di forza lavoro umana. La tecnologia sostituisce il lavoro manuale mentre la globalizzazione permette di delocalizzare la produzione in paesi con costi di manodopera più bassi, riducendo ulteriormente la domanda di lavoro nei paesi sviluppati. La trasformazione non si limita alla sfera economica. La produzione stessa diventa un veicolo per la comunicazione e l’informazione. La ricerca, l’espressione e la comunicazione si integrano nel ciclo economico, dando origine a un nuovo modello produttivo chiamato infoproduzione che si fonda sull’uso di risorse cognitive e sul lavoro immateriale. In questo contesto il lavoro fisico perde importanza a favore delle funzioni cerebrali e intellettuali che diventano centrali nel processo produttivo. Grazie a simili trasformazioni il concetto tradizionale di classi sociali diventa obsoleto. La composizione sociale è dominata dal cervello collettivo, un sistema di funzioni e interazioni cognitive che includono lavoro intellettuale, informazione e comunicazione. Il focus si sposta quindi sull’analisi delle interazioni tra questi ambiti, piuttosto che sulla divisione in classi tradizionali che subiscono notevoli trasformazioni. Ad esempio è rilevante l’affermazione di una rete di lavoratori autonomi che combinano caratteristiche del lavoro dipendente e dell’imprenditorialità dentro la classe media tradizionale. Questo nuovo gruppo non è più vincolato alla distinzione tradizionale tra impresa e lavoro salariato. Parallelamente, la classe operaia, pur non essendo scomparsa del tutto, ha subito una drastica riduzione numerica e politica in Occidente. La centralità politica che gli operai industriali avevano nel Novecento, come cuore e cervello del movimento sociale, è stata sostituita dalla produzione nootropica, ovvero la produzione di beni immateriali legati alle risorse cognitive e all’informazione. L’infoproduzione ha ridisegnato le forme di organizzazione economica e sociale, sostituendo i settori tradizionali della produzione materiale. La borghesia, che in passato accumulava ricchezza attraverso il lavoro dei proletari, è stata sostituita da una rete di funzioni eterogenee. Non c’è più una netta separazione tra impresa e lavoro produttivo perché tutto si fonde nel contesto dell’infoproduttivo, dove l’impresa e il lavoro sono parte dello stesso processo di produzione mentale e immateriale. Il lavoro intellettuale nel nuovo ciclo produttivo assume forme diverse. Una parte mantiene caratteristiche tradizionali, come il lavoro salariato, ma una parte crescente si svolge come autoimpiego, in forma di piccola imprenditorialità o lavoro precario. Questi cambiamenti si ripercuotono nel ruolo e nella funzione del lavoro intellettuale. Bifo afferma che durante tutto il ventesimo secolo, questi lavoratori si sono interrogati sulla loro effettualità pratica e sulla loro funzione sociale, cercando di trovare un ruolo organico all’interno del processo di trasformazione politica della società. Questo dibattito ha coinvolto sia le avanguardie artistiche che il movimento operaio, ciascuno con approcci diversi ma convergenti nel tentativo di superare la separazione tra attività intellettuale e pratica sociale. Le avanguardie artistiche, ad esempio, hanno proclamato la rottura e il superamento della divisione tra arte e movimento reale della società, invocando l’immaginazione come forza di cambiamento e chiamandola simbolicamente al potere. Il movimento operaio ha affrontato la questione attraverso due contributi teorici fondamentali: la teorizzazione leninista del partito come intellettuale collettivo, strumento al servizio dell’emancipazione della classe operaia, e la teoria gramsciana dell’intellettuale organico, figura integrata nel processo decisionale produttivo e politico guidato dalla classe operaia. L’aspirazione a un’effettualità del lavoro intellettuale si è realizzata compiutamente solo con l’avvento dell’informatica che ha permesso al capitale di mettere al lavoro i frammenti separati dell’attività cognitiva sociale. Questo processo ha comportato una frammentazione e una specializzazione dell’attività conoscitiva, subordinandola alle modalità logiche e operative delle macchine informatiche. Il lavoro intellettuale, in questo contesto, è stato espropriato della sua capacità di produrre senso e ridotto a mera produzione di merce, e di conseguenza è stato integrato nel processo produttivo complessivo. Con questo passaggio si è dissolta la problematica novecentesca relativa al ruolo degli intellettuali insieme al pathos culturale ed estetico che caratterizzava i movimenti rivoluzionari e le avanguardie, espressione dell’ansia degli intellettuali di trovare una funzione storico-sociale. La mentalizzazione del processo produttivo segna un’uscita dall’era neolitica, dominata dalla trasformazione fisica della materia attraverso il lavoro manuale, e introduce una nuova fase, definita da Bifo come noolitica, in cui la produzione si basa sempre più su processi di elaborazione dell’informazione. In questa nuova civiltà, l’applicazione delle facoltà cognitive sostituisce lo sforzo fisico, trasformando radicalmente il ciclo del lavoro produttivo e integrando al suo interno il lavoro intellettuale. Questa integrazione non è neutra poiché il lavoro intellettuale introietta la disciplina produttiva ereditata dall’epoca industriale, perdendo gran parte della sua creatività e duttilità. Il rifiuto del lavoro industriale, emerso attraverso le lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, ha portato allo sviluppo del Noo-lavoro, ovvero del lavoro mentale che per dispiegare appieno la sua potenza deve fare proprio il codice semiotico del capitale, incorporando la disciplina della ripetizione e dell’uniformità. Questo processo trasforma il rapporto tra lavoro vivo e lavoro morto, tipico del sistema industriale, in un rapporto tra attività conoscitiva e conoscenza accumulata in forma di sapere codificato. La conoscenza diventa così una funzione del sapere preesistente, perdendo quell’aura di singolarità che caratterizzava il lavoro intellettuale nell’epoca borghese. Parallelamente, il processo di produzione e circolazione del capitale si trasforma, incorporando l’attività cognitiva come forza primaria della sua autoriproduzione. La funzione di comando e progettazione, separata dal processo lavorativo nell’industria classica dove il padrone decideva unilateralmente le modalità della produzione, viene progressivamente integrata nel lavoro stesso. Nel ciclo produttivo immateriale, dove progettazione e invenzione sono momenti essenziali, diventa sempre più difficile distinguere tra lavoro dipendente e funzioni imprenditoriali. Il lavoro mentale, una volta sussunto nel processo produttivo, unifica funzioni ideative e esecutive, lavoro e impresa. La nuova composizione tecnica e sociale del lavoro produttivo trasforma radicalmente anche il campo della politica, dell’organizzazione e del governo. Questo cambiamento è legato al concetto di mentalizzazione del processo produttivo che indica come le funzioni di governo e coordinamento dei processi sociali siano ormai integrate direttamente nel processo produttivo stesso. Non esiste più una distinzione netta tra le attività produttive della società e il momento di governo e coordinamento complessivo. Nella società dell’informazione, il governo è inseparabile dalla produzione e circolazione dell’informazione, diventando parte integrante del ciclo produttivo. Per questo motivo il general intellect, ovvero l’intellettualità di massa e le forze sociali della produzione mentale, dovrebbe emergere come attore politico diretto nella trasformazione sociale. Questo potenziale al momento non si è realizzato pienamente poiché tali forze hanno riprodotto le modalità di organizzazione ereditate dal movimento operaio del Novecento, senza riuscire a esprimere la specificità del lavoro mentale come ambito di determinazione politica autonoma. I movimenti studenteschi, a partire dal Sessantotto, hanno rappresentato l’emergere del lavoro intellettuale di massa come forza sociale. Questi movimenti hanno messo in luce il ruolo crescente del lavoro mentale nella società pur rimanendo generalmente subordinati alla prospettiva del movimento operaio e quindi senza sviluppare una consapevolezza autonoma del loro potenziale politico. Solo marginalmente è emersa la consapevolezza della necessità di ridefinire il rapporto tra il sapere accumulato nel macchinario e nel sistema scientifico, da un lato, e l’intelligenza creativa, dall’altro. Oggi, tuttavia, comincia a manifestarsi una maggiore consapevolezza del ruolo direttamente politico che può svolgere l’attività mentale organizzata. Per realizzare questo potenziale è necessario abbandonare l’idea tradizionale della politica come governo totalizzante della società e ripensarla come attività di proiezione e programmazione (in senso informatico) di segmenti specifici e indipendenti della vita sociale. La politica, in questa prospettiva, diventa produzione di interfacce tecno-sociali, ovvero di strumenti che mediano tra l’informazione e il suo uso sociale, ridefinendo le modalità di interazione e comunicazione. La programmazione informatica è al centro di questa trasformazione. L’elaborazione di programmi che analizzano, semplificano, sistematizzano e automatizzano sequenze operative del lavoro umano rappresenta un nodo cruciale poiché in essa si manifestano le alternative d’uso della tecnologia. A seconda delle interfacce progettate, la tecnologia può diventare uno strumento di controllo o di liberazione dal lavoro, un mezzo per dominare le menti o per favorire l’espressione creativa degli individui e dei collettivi. Il lavoro del programmatore è un’attività ambivalente perché rischia sempre di ridursi a mera esecuzione di compiti predefiniti ma potenzialmente può assumere un carattere creativo, diventando invenzione di interfacce originali e ridefinizione delle finalità stesse della produzione. Il programmatore, in questo senso, non si limita a eseguire, ma può contribuire a creare l’ambiente stesso in cui opera, concatenando architetture di senso e componendo l’ecologia cognitiva e comunicativa dei gruppi umani. Il lavoro del programmatore ha anche una dimensione artistica e culturale, poiché consiste nel progettare ambienti di comunicazione e interazione che influenzano direttamente la vita sociale. Questa visione del lavoro di programmazione come attività artistica e culturale ha implicazioni politiche profonde. Il problema della politica non si colloca più a livello macropolitico, nelle decisioni globali prese dall’alto dello Stato, ma a un livello nanopolitico, legato alle scelte microsociali e tecniche delle interfacce. La politica diventa parte integrante dell’attività stessa del lavoratore mentale, in particolare del programmatore, che attraverso le sue scelte tecniche può determinare usi sociali alternativi della tecnologia. Di conseguenza l’organizzazione politica non è più separata dal luogo della produzione, come avveniva nel movimento operaio tradizionale, dove il partito rappresentava un’avanguardia esterna al processo lavorativo. Nel lavoro mentale il luogo dell’organizzazione politica coincide con il luogo della produzione poiché l’attività creativa e la scelta politica sono intrinseche al processo stesso di conoscenza, invenzione e programmazione. Nell’epoca della mentalizzazione del lavoro, il problema dell’organizzazione politica si dissolve nella misura in cui la politica stessa diventa parte integrante dell’operatività produttiva. Non c’è più bisogno di un partito del lavoro intellettuale, poiché l’impegno politico degli intellettuali coincide con le scelte che compiono nel loro lavoro quotidiano di programmazione e creazione di interfacce. La politica, in questo senso, non è più una sfera separata ma una funzione interiorizzata della produzione sociale che si esprime attraverso scelte puntuali e alternative d’uso del sapere. La programmazione diventa così un’attività politica in sé, in quanto crea le condizioni per la proiezione di mondi funzionali a progetti, intenzioni e bisogni sociali. Il programmatore assume il ruolo di architetto dell’ecologia cognitiva, definendo le condizioni dell’interazione sociale e della comunicazione. Simili temi sono strettamente legati alla storia dell’Autonomia Operaia che rappresenta un tentativo di autorganizzazione del lavoro mentale collettivo. Questo movimento esprimeva la consapevolezza che il modello industriale si stava esaurendo e il lavoro industriale stava diventando socialmente inutile, riducendosi a una mera costrizione. Il rifiuto del lavoro era legato alla convinzione che le regole della valorizzazione capitalistica avessero perso il loro carattere di necessità produttiva, trasformandosi in regole politiche di controllo sul tempo di vita, arbitrarie rispetto alle reali necessità sociali. In altre parole, il capitalismo non era più visto come un sistema necessario per la produzione ma come un meccanismo di dominio e di comando sulla vita delle persone. L’incorporazione dell’intelligenza nel macchinario rendeva superflue ampie sezioni di lavoro manuale, evidenziando la necessità di trovare forme di attività umana più libere rispetto alla forma-lavoro tradizionale, legata allo scambio tra tempo di vita e salario. Nonostante questa trasformazione la forma del salario rimaneva il pilastro dell’edificio economico, anche se sempre più inadeguata a rappresentare la complessità e la frammentazione delle prestazioni di tempo, intelligenza, attenzione e creatività richieste dal nuovo modello produttivo. Con il passaggio del lavoro sociale a processo di comunicazione sociale allargata, le distinzioni tipiche dell’epoca industriale tra impresa e lavoro, tra tempo di lavoro e tempo libero, cominciavano a sgretolarsi senza che emergesse nuovo modello di organizzazione sociale dell’attività. Non a caso la forma salariale continuò a regolare l’erogazione di tempo e attività anche se la sua quantificazione diventava sempre più aleatoria e indefinibile. I movimenti creativi degli anni Settanta, in particolare il movimento italiano del ‘77, prefigurarono questa trasformazione, anticipando l’emergere di forme di lavoro creativo di massa e l’integrazione tra produzione e comunicazione. Il movimento del ’77 rappresentava una rottura rispetto al modello industriale tradizionale, proponendo nuove forme di attività basate sulla creatività e sulla comunicazione. Il movimento, però, non riuscì a sviluppare una prospettiva politica adeguata alla trasformazione sociale e tecnocomunicativa in corso. Limitato dalla tradizione comunista novecentesca, il movimento si esaurì in una prospettiva puramente negativa e oppositiva, senza riuscire a mettere in moto un processo di autorganizzazione produttiva e comunicativa ma una delle sue componenti centrali, cioè il movimento del non lavoro, ha avviato il trasferimento delle funzioni produttive dalla sfera della manipolazione fisica della materia a quella dell’elaborazione cognitiva. Il processo così innescato non venne governato dal movimento e di conseguenza non riuscì ad andare oltre la costrizione del salario e della disciplina economica. La trasformazione del processo lavorativo, con l’immaterializzazione delle procedure e dei prodotti, la virtualizzazione degli scambi e lo sviluppo di settori il cui prodotto è immaginario, ha sconvolto le categorie della scienza economica classica. Il predominio del lavoro cognitivo nel ciclo produttivo ha messo in moto un processo che ridefinisce completamente le regole del sistema economico e le categorie dell’appartenenza sociale. Questo cambiamento ha reso obsolete molte delle categorie tradizionali dell’economia politica, come il valore, il tempo di lavoro e la proprietà privata. L’economia capitalistica ha vinto la partita del ventesimo secolo ma per farlo ha dovuto integrare l’attività intellettuale nel processo produttivo, mutando il proprio codice per adattarsi a modelli di attività incompatibili con i principi di determinazione meccanica e quantitativa del valore. Il capitale si è liberato dalla forma industriale, riducendosi a un codice astratto capace di modellare i processi di elaborazione e produzione. I fattori decisivi dell’economia non sono più la terra, il lavoro e il capitale, come nell’economia classica, ma processi di elaborazione formale e attività semiotica. Il lavoro cognitivo non può essere quantificato in termini di tempo sequenziale e la sfera del cyberspazio, a differenza di quella delle merci materiali, è in espansione illimitata, rendendo impossibile calcolare il valore complessivo e relativo dei suoi frammenti. Ad esempio, il tempo di lavoro necessario per riprodurre un segno merce può essere irrisorio (come nel caso della copia di un programma informatico) o enorme (come nel caso della produzione di un programma informatico), ma il valore del programma non dipende da questi fattori. Concetti come proprietà privata, valore e tempo di lavoro perdono consistenza nel contesto del lavoro digitale, dove la riproducibilità illimitata e perfetta senza impiego di lavoro umano rende il principio di proprietà inutile. Un bene immateriale, come un programma informatico, può essere goduto simultaneamente da più persone in luoghi diversi, senza costi di riproduzione. La scienza economica, fondata su un paradigma quantitativo e meccanicista, si rivela inadeguata a spiegare e regolare un sistema in cui la forza produttiva principale è l’imprevedibile lavoro della mente e l’informazione autoreplicante è la merce universale.

  1. Il tema del cognitariato

Il concetto di cognitariato appare per la prima volta nelle opere di Franco Berardi Bifo nel libro La fabbrica dell’infelicità. New economy e movimento del cognitariato dove viene esplorata la crisi della new economy e le sue implicazioni sociali, economiche e ideologiche. Questo lavoro è stato scritto nella primavera del 2000, quando i primi segni di crisi si stavano manifestando. La crisi si è aggravata fino a portare a una recessione globale nel 2001, accelerata tragicamente dall’attacco terroristico dell’11 settembre che ha distrutto le Torri Gemelle del World Trade Center, simbolo del potere economico occidentale. L’evento ha segnato un punto di svolta, non solo per la sua portata simbolica ma anche perché ha rivelato la vulnerabilità fisica e sociale di quella fascia di lavoratori cognitivi e creativi che aveva prosperato durante l’espansione della new economy. La loro ascesa arriva al termine di dieci anni in cui per Bifo si sono susseguite tre fasi distinte. La prima fase è stata caratterizzata dall’emergere di una classe sociale legata alla virtualizzazione che ha trovato il suo trionfo nell’impressionante crescita delle azioni tecnologiche in Borsa. Questa classe, composta da giovani lavoratori altamente qualificati, ha abbracciato l’ideologia della new economy, basata su una promessa di felicità individuale, successo garantito e ampliamento degli orizzonti di esperienza e conoscenza. La promessa si è rivelata falsa, simile a un messaggio pubblicitario ingannevole. Milioni di giovani hanno accettato condizioni di lavoro stressanti e di sfruttamento, attratti dall’idea di diventare imprenditori di se stessi in un mondo dove la competizione era elevata a regola universale. La seconda fase è quella della crisi ideologica, psichica, economica e sociale del modello della new economy. Il crollo delle azioni tecnologiche in Borsa e la successiva crisi economica hanno fatto emergere un malessere che era stato fino ad allora nascosto da massicce dosi di sostanze finanziarie e psicotrope. La crisi ha rivelato che l’infoproduzione non era il regno della felicità e dell’autorealizzazione che l’ideologia della new economy aveva promesso. Al contrario, il lavoro nella new economy si è rivelato stressante, precario e spesso mal retribuito, nonostante l’alto livello di formazione e competenza richiesto. La terza fase è quella della precipitazione della crisi in forme di violenza, guerra e militarizzazione dell’economia. L’attacco dell’11 settembre ha rappresentato un momento di rottura, in cui la classe virtuale ha scoperto di non essere più uno spirito puro ma di avere un corpo fisico, sociale ed erotico, soggetto a sofferenza, povertà e violenza. La classe virtuale ha così scoperto di essere, in realtà, un cognitariato. Questo passaggio ha segnato la fine dell’illusione di una vita al di fuori delle leggi della materialità e della sofferenza. Bifo afferma che la crisi della new economy ha messo in discussione l’ideologia libertaria e liberale alla guida della cibercultura degli anni Novanta. Questa ideologia, rappresentata dalla rivista Wired, idealizzava il mercato come un luogo puro di competizione, dove il lavoro poteva autovalorizzarsi e trasformarsi in impresa. La realtà ha dimostrato che il mercato non è affatto libero perché è dominato da monopoli e grandi gruppi di potere poi diventate le imprese del capitalismo delle piattaforme. A noi interessa tornare alla definizione del concetto di cognitariato. Il termine coniato da Bifo mira a definire la condizione sociale e corporea del lavoro cognitivo nella produzione del semiocapitale, ovvero il capitale legato alla produzione di segni, informazioni e conoscenza. A differenza della classe virtuale che rappresenta un’astrazione del lavoro mentale svincolato dalle necessità fisiche e sociali, il cognitariato incarna la materialità e la socialità del lavoro cognitivo, evidenziando le sue esigenze, le sue sofferenze e le sue potenzialità collettive. Mentre la classe virtuale è un’entità disincarnata, priva di bisogni e di stress psichico, il cognitariato è un flusso di lavoro semiotico socialmente diffuso e frammentato, visto attraverso la lente della sua corporeità sociale. Questo concetto è fondamentale perché permette di riconoscere il lavoro cognitivo non solo come attività intellettuale ma anche come esperienza fisica e sociale, caratterizzata da tensioni, fatica e possibilità di organizzazione collettiva. La nozione di cognitariato si inserisce in una riflessione più ampia sulla trasformazione produttiva, tecnologica e sociale della tarda modernità che parte dal concetto marxiano di general intellect. Marx usa questa espressione per descrivere la forma generale dell’intelligenza umana che diventa forza produttiva all’interno del lavoro sociale globale e del processo di valorizzazione capitalista. Il general intellect rappresenta la potenza della scienza e della tecnologia messa al servizio della cooperazione sociale, con l’obiettivo di intensificare la produttività e aumentare il plusvalore. Marx si concentrava sulla riduzione del tempo di lavoro materiale grazie alla macchinazione ma oggi è evidente che l’aumento del lavoro cognitivo richiede un maggiore impiego di tempo e risorse intellettuali per la produzione di valore. Il lavoro cognitivo, in questo contesto, non è semplicemente un’attività intellettuale perché diventa un processo socialmente coordinato della mente orientato alla produzione di semiocapitale. Questo tipo di lavoro esclude la manipolazione fisica diretta della materia, concentrandosi esclusivamente sull’uso dell’intelligenza. Bifo però sottolinea che il lavoro è sempre, in qualche misura, cognitivo. Perfino le attività più ripetitive, come quelle della catena di montaggio, richiedono una coordinazione intellettuale. Ciò che distingue il lavoro cognitivo è il suo carattere esclusivamente mentale che lo rende una forma di produzione peculiare nell’era del semiocapitale. Il termine cognitariato unisce due concetti. Il primo è quello di lavoro cognitivo, il secondo è quello di proletariato. Questa fusione non è casuale perché vuole evidenziare la dimensione sociale e corporea del lavoro cognitivo, spesso trascurata nelle analisi tradizionali. Il cognitariato non è solo una forza produttiva astratta essendo costituito da corpi concreti, con bisogni fisici, emotivi e sociali. Questi corpi sono sottoposti a uno stress costante, derivante dallo sfruttamento dell’attenzione e dalla pressione della produttività. Inoltre, il cognitariato ha la potenzialità di riconoscersi come una comunità consapevole, capace di dar vita a processi collettivi che vanno oltre la semplice intelligenza collettiva, ovvero la collaborazione delle menti nella produzione di conoscenza. Queste riflessioni vengono affinate nel libro Precarious Rhapsody. Semiocapitalism and the pathologies of the post-alpha generation dove troviamo un capitolo intitolato The warrior the merchant the sage che si occupa specificatamente del cognitariato. La riflessione di Bifo ripercorre la storia del XX secolo attraverso le figure del sapiente, del mercante e del guerriero che rappresentano rispettivamente il sapere, il potere economico e il potere militare. Il sapiente è colui che eredita il lavoro umano e l’intelligenza accumulata attraverso la storia e colui che rifiuta il lavoro, spingendo l’evoluzione dell’intelligenza. Questo rifiuto del lavoro, trasformato in una forma socialmente utile, ha permesso di sostituire il lavoro umano con le macchine e di sviluppare la scienza. Il mercante e il guerriero rispondono cercando di sottomettere il sapiente, trasformando il sapere in uno strumento di potere. Questo processo non avviene facilmente, poiché il sapere non tollera la dominazione e infatti il mercante e il guerriero ricorrono a inganni e trappole per sottomettere il potere del pensiero al potere del denaro e della violenza. Un esempio emblematico di questa sottomissione è il progetto Manhattan. Durante la Seconda Guerra Mondiale un gruppo di scienziati fu ricattato con la minaccia della possibilità da parte di Hitler di poter costruire una bomba atomica. Un simile timore spinse gli scienziati a collaborare con il governo statunitense. Nonostante avessero l’opportunità di fermare la costruzione della bomba, gli scienziati non riuscirono a opporsi, dimostrando una mancanza di fiducia nelle tradizioni della loro professione e nella possibilità di organizzarsi come un corpo internazionale con poteri disciplinari. Il risultato di questa resa fu Hiroshima, un evento che segnò l’inizio della lotta per liberare il sapiente dal controllo del guerriero. Questa lotta raggiunse il suo apice nel 1968, quando il sapiente rifiutò di mettere il proprio sapere al servizio del guerriero, decidendo invece di dedicarlo alla società. Il mercante rispose a questa sfida intervenendo per sedurre il sapiente, sottomettendo il sapere agli automatismi tecnico-economici. La verità del sapere fu valutata in base a criteri di competitività, efficienza economica e massimizzazione del profitto. Negli anni di Thatcher e Reagan il sapere fu messo al servizio del capitale in condizioni di assoluta dipendenza, privato della possibilità di cambiare le finalità che guidano il suo funzionamento. L’applicazione intensiva del sapere alla produzione ha portato alla creazione della tecnosfera digitale che emana un potere straordinario ed è vincolata agli automatismi tecnici e alle logiche del profitto. Questo ha aumentato la produttività del lavoro moltiplicando la miseria, la sottomissione al lavoro salariato, la solitudine, l’infelicità e la psicopatologia. La tecnologia, invece di liberare l’umanità, è diventata uno strumento di oppressione, aumentando il divario tra ricchi e poveri e creando nuove forme di alienazione. La riflessione di Bifo prosegue affrontando la necessità di ridefinire radicalmente la direzione del progresso umano, sostenendo che né il guerriero né il mercante possono decidere il corso della storia. Solo il sapiente ha il diritto e la capacità di stabilire le regole della produzione e dello scambio, guidando il mondo verso una direzione eticamente motivata. Questa idea è emersa con forza nel movimento globale che è esploso a Seattle nel 1999, dove si è affermata la consapevolezza che la globalizzazione non può essere lasciata nelle mani di una minoranza di potenti. Essa deve essere guidata da una conoscenza autonoma e democratica, al servizio di tutti gli esseri umani. Il movimento di Seattle ha rappresentato una svolta, rifiutando il diritto dei mercanti di decidere le sorti di milioni di persone in base al profitto economico e rivendicando il ruolo centrale del lavoro cognitivo organizzato in modo autonomo per contrastare la dittatura delle corporazioni finanziarie. A partire da Seattle, è emerso un movimento che mira alla ricomposizione sociale, epistemica e tecnologica del lavoro cognitivo. Questo movimento rivendica l’autonomia della ricerca scientifica dagli interessi del mercante, cioè del capitale, e promuove la liberazione del sapere dalle logiche del profitto. In vari settori, come l’informatica, la biotecnologia e la farmacologia, si sono diffuse pratiche di open source e di accesso libero ai prodotti dell’innovazione intellettuale mentre nel ciclo dell’informazione si è affermato il mediattivismo. Queste esperienze dimostrano che il lavoro cognitivo, quando è organizzato in modo autonomo, può sfidare il dominio delle grandi corporazioni finanziarie e ridisegnare le regole della produzione e dello scambio. Milioni di persone in tutto il mondo hanno iniziato a reclamare l’autonomia del proprio cervello dal profitto, riconoscendo che il sapere non può essere ridotto a merce. Il capitale ha reagito a questa spinta emancipatrice seguendo i dettami dell’ideologia liberista, imponendo la privatizzazione coercitiva dei prodotti della conoscenza collettiva e sottomettendo la sperimentazione scientifica alla competizione economica. La privatizzazione del sapere ha incontrato resistenza ovunque, poiché i lavoratori cognitivi hanno iniziato a rendersi conto che il loro potenziale è superiore al potere del mercante. Nel contesto del semiocapitale e del lavoro cognitivo, i beni più preziosi sono immateriali e riproducibili, il che rende insensata la loro appropriazione privata. Al contrario, il valore di questi beni aumenta quanto più il loro uso è condiviso, contraddicendo il principio stesso della proprietà privata su cui si fonda il capitalismo industriale. Questo cambiamento ha messo in discussione le basi stesse del sistema capitalistico, poiché la logica della rete e della condivisione si scontra con la logica dell’accumulazione privata. Nonostante questa consapevolezza, il guerriero è tornato in scena, alleandosi con il mercante per sottomettere nuovamente il sapiente. Figure come Bill Gates e George Bush rappresentano questa alleanza tra il mercante, che saccheggia l’intelligenza collettiva, e il guerriero, che impone la logica del potere e della violenza. Insieme cercano di soffocare ogni barlume di saggezza, riducendo il sapere a mero strumento di profitto e dominio. Questo processo è stato favorito dall’apertura del mercato azionario alle masse negli anni ’90, permettendo una partecipazione diffusa al profitto del capitale e dando vita alla cosiddetta dotcom economy. Una simile fase di crescita ha anche creato le condizioni per un’ampia autorganizzazione dei lavoratori cognitivi che hanno investito le loro competenze e creatività nel mercato finanziario, dando vita a una nuova forma di impresa basata sull’autonomia del lavoro e sulla dipendenza dal mercato.

Questa alleanza tra lavoro cognitivo e capitale si è però spezzata con la crisi del mercato azionario iniziata nell’aprile 2000. La caduta delle azioni ha segnato l’inizio di una crisi politica nel rapporto tra capitale e lavoro cognitivo, alimentata da diversi fattori. Da un lato, il collasso delle energie psichiche e sociali dei lavoratori cognitivi, causato dallo sfruttamento eccessivo, dall’accelerazione dei ritmi di vita, dalla depressione e dall’uso smodato di farmaci stimolanti per sostenere il ritmo del lavoro. Dall’altro, l’attacco monopolistico contro l’esercito delle dotcom e la limitazione della sperimentazione che hanno soffocato l’economia diffusa e creato le condizioni per il passaggio dall’economia di rete all’economia di guerra della guerra al terrorismo successiva all’11 settembre. In questo contesto è emersa una lumpenborghesia predatoria che ha approfittato della crisi delle regole capitaliste tradizionali per appropriarsi di enormi quote di capitale sociale. Il neoliberismo, nel lungo periodo, non ha favorito il libero mercato ma il monopolio, consolidando il potere di pochi a discapito dei molti. La domanda che Bifo si pone allora è: possiamo pensare ad un’autorganizzazione degli scienziati e dei lavoratori cognitivi fondata sull’autonomia della scienza dal potere? Questa domanda non riguarda più solo un piccolo gruppo di fisici nucleari bensì milioni di lavoratori in ambito scientifico, tecnologico, amministrativo, educativo e terapeutico. L’esercito del cognitariato detiene la chiave per decostruire la catena di automatismi attraverso cui il capitalismo si rafforza. Solo un movimento autonomo e organizzato di ricercatori e lavoratori cognitivi può fermare la dittatura delle corporazioni finanziarie e guidare il mondo verso una globalizzazione etica, in cui il sapere sia al servizio di tutti e non di una minoranza. La sfida è quella di costruire una nuova forma di organizzazione sociale che ponga al centro la conoscenza come bene comune, liberandola dalle catene del profitto e della violenza. Questo inevitabilmente pone all’ordine del giorno il tema dell’organizzazione. Per Bifo il che fare del nostro tempo non può più essere definito attraverso modelli tradizionali, come quello leninista della costruzione di un’avanguardia rivoluzionaria. Occorre infatti concentrarsi sulla funzione sociale del lavoro cognitivo e sulla sua capacità di trasformare l’intero ciclo del lavoro sociale. Questo passaggio richiede una ridefinizione radicale del ruolo degli intellettuali e dei lavoratori cognitivi che non sono più figure separate dal processo produttivo generale essendo agenti trasversali operanti all’interno di un sistema di produzione sempre più complesso, interconnesso e intellettualizzato. Il lavoro cognitivo non è più una funzione sociale separata dal lavoro generale attraversando ormai l’intero processo sociale. Questo cambiamento è reso possibile dalla creazione di interfacce tecnico-linguistiche che permettono fluidità e potere ricombinante al processo produttivo. La ricombinazione non implica una sovversione o un rovesciamento del sistema ma porta ad un riassemblaggio degli elementi del sapere secondo criteri che sono quelli dell’utilità sociale. Il compito diventa dare forma a processi di conoscenza e di concatenazione tecnico-produttiva basati su modelli epistemologici autonomi dal profitto e orientati verso il bene comune. Gli intellettuali e i lavoratori cognitivi si trovano immersi nelle connessioni trasversali tra conoscenza e pratiche sociali e questo significa che il programmatore, il medico, il bioingegnere e l’architetto non devono più essere rivoluzionari per vocazione esterna, come nel modello leninista, ma devono riorientare la loro azione cognitiva all’interno dei loro specifici campi di conoscenza e di azione produttiva. La rivoluzione non viene più dall’esterno perché nasce dalla trasformazione interna dei processi di produzione e di conoscenza. La separazione analitica tra sfera economica e coscienza, che aveva un fondamento reale quando il lavoro produttivo era strutturalmente separato dal lavoro intellettuale, perde significato nel momento in cui il lavoro cognitivo viene assorbito dal più ampio processo di produzione. La produzione non può più essere considerata un processo puramente economico governato dalle leggi dello scambio. Alcuni fattori extraeconomici, come la cultura sociale, le aspettative, le delusioni e le emozioni, entrano nel processo produttivo e ne modificano il ritmo e la fluidità. La produttività sociale è sempre più condizionata dalle sfere emotive, ideologiche e linguistiche, che diventano decisive nel processo di produzione del valore. Questa integrazione tra lavoro cognitivo e processo produttivo generale ha portato a una socializzazione del lavoro che non tollera più le forme di oggettivazione imposte dal capitale. La combinazione sociale della produzione le conferisce un carattere sempre più scientifico e allo stesso tempo riduce la capacità lavorativa individuale a un semplice momento del processo produttivo. L’applicazione della scienza e della tecnica al processo produttivo ha raggiunto un livello di sviluppo tale da minacciare di far crollare il sistema poiché ha indotto una nuova qualità della socializzazione del lavoro che non può più essere contenuta nelle forme tradizionali del capitalismo. Il modello leninista e la pianificazione politica del movimento operaio del XX secolo sono inadeguati alla condizione metropolitana contemporanea. Il leninismo si basava su una separazione tra processo lavorativo e attività cognitiva superiore (la coscienza), una separazione che aveva un fondamento nella forma proto-industriale del lavoro, in cui il lavoratore possedeva conoscenze specifiche del proprio mestiere ma non aveva accesso al sistema di conoscenza che strutturava la società. Questa separazione diventa sempre più fragile con l’emergere dell’operaio-massa, costretto a un’attività lavorativa frammentata e ripetitiva che sviluppa però una socialità immediatamente sovversiva e anticapitalista. La separazione perde ogni fondamento quando si tratta di lavoro mentale, in cui i singoli lavoratori intellettualizzati diventano portatori di una coscienza specifica e di una consapevolezza, seppur frammentaria, del sistema sociale di conoscenza che attraversa l’intero ciclo produttivo. L’esperienza della dotcom-mania degli anni ’90 è analizzata da Bifo come un momento cruciale per comprendere le trasformazioni del lavoro cognitivo. Durante questo periodo si è verificato un vasto processo di auto-organizzazione dei produttori cognitivi che hanno investito le proprie competenze, conoscenze e creatività, trovando nel mercato azionario i mezzi per finanziare i propri progetti. Questa fase è stata dominata da un’ideologia liberale ottimista che ha subordinato i lavoratori cognitivi al dominio del capitale finanziario. Nonostante ciò, il processo reale che si è svolto negli anni delle dotcom ha contenuto elementi di innovazione sia sociale che tecnologica. Si è verificata una vera e propria lotta di classe all’interno dei circuiti produttivi dell’alta tecnologia che ha segnato la formazione della rete. Alla fine, però, i monopoli nel software, nelle telecomunicazioni, nell’intrattenimento e nella pubblicità hanno sfruttato il lavoro dell’intelligenza collettiva e hanno cercato di privarla dei suoi strumenti di auto-organizzazione, costringendola in una condizione di precarietà e flessibilità. La dotcom-mania è stata un laboratorio per la formazione di un modello produttivo e di un mercato e alla fine il mercato è stato catturato e soffocato dai monopoli, segnando l’inizio di una nuova fase caratterizzata dall’alleanza tra i gruppi monopolistici dell’economia della rete e i poteri tradizionali della vecchia economia. Questo ha portato a un blocco del progetto di globalizzazione neoliberale e alla negazione di se stesso: il dominio monopolistico e la dittatura militare-statale. La promessa implicita nell’ideologia della new economy era quella di alte retribuzioni e partecipazione alle fortune economiche del sistema. Con il crollo della bolla delle dotcom nel 2000 è iniziata una crisi della classe virtuale. L’energia psichica investita nell’economia si è dissipata e le possibilità di ottenere alte retribuzioni o persino un lavoro significativo nei settori innovativi sono diminuite, generando insicurezza e rischio di panico. La classe virtuale, un tempo sicura di sé e chiusa nei circuiti di un’economia che si credeva immune alle crisi, è stata costretta a riconoscersi come cognitariato, cioè un proletariato dotato di mezzi intellettuali straordinari ma sfruttato e precario. Questa trasformazione rappresenta la condizione per un processo di auto-organizzazione del lavoro cognitivo. La figura dell’intellettuale emerge completamente ridefinita dalle evoluzioni verificatesi nella produzione negli ultimi decenni. Il lavoratore cognitivo, una volta entusiasta sostenitore dell’ideologia liberale, diventa consapevole della propria condizione di sfruttamento e, in questa consapevolezza, trova le basi per una nuova forma di lotta e di organizzazione. Il futuro del lavoro cognitivo e della trasformazione sociale dipende dalla capacità di ricombinare le conoscenze e le pratiche in modo autonomo dal profitto, orientandole verso un’utilità sociale condivisa. 

  1. L’anima al lavoro 

La nostra ricostruzione prosegue analizzando il ruolo del lavoro nel libro L’anima al lavoro dove prevale l’impostazione del composizionismo, un approccio teorico che si è sviluppato in due fasi distinte, corrispondenti a due generazioni di pensatori operaisti diversi. La prima generazione, emersa negli anni Sessanta e Settanta, si è concentrata sulla composizione sociale della classe operaia, analizzando come i lavoratori potessero ricomporsi come forza politica e produttiva in risposta alle dinamiche del capitalismo industriale. Autori come Mario Tronti, Antonio Negri e Sergio Bologna hanno esplorato le implicazioni politiche del rifiuto del lavoro e dell’alienazione operaia ponendo l’accento sulla centralità del conflitto di classe e sulla capacità dei lavoratori di destabilizzare il sistema capitalistico attraverso la loro forza collettiva. Questa fase è stata caratterizzata da un’analisi del lavoro industriale e della fabbrica come luoghi privilegiati della lotta di classe, dove la classe operaia poteva esercitare un potere contrattuale e politico. L’innovazione tecnologica e la trasformazione delle strutture produttive hanno eroso la centralità della fabbrica e del lavoro manuale. La seconda generazione di pensatori, definita talvolta post-operaista e rappresentata da figure come Paolo Virno, Christian Marazzi e Maurizio Lazzarato, ha spostato l’attenzione verso le nuove forme di lavoro emerse nell’era postindustriale, caratterizzate dalla centralità del sapere, del linguaggio e della comunicazione. Questi pensatori hanno assistito alla decomposizione della classe operaia tradizionale, causata dalla globalizzazione, dalla precarizzazione del lavoro e dalla frammentazione delle identità collettive. Un simile contesto ha spinto gli operaisti a porsi delle domande sulla possibilità di ricomporre un’anima per il corpo sociale del lavoro, ovvero come ridare un senso politico e culturale a una forza lavoro sempre più dispersa e precaria. Il concetto di composizione sociale è centrale in questa riflessione perché si riferisce alla capacità del lavoro di passare da una condizione passiva di sfruttamento a una condizione attiva di agente storico trasformatore. Questo passaggio non avviene attraverso l’adesione ideologica a un partito, come nella tradizione leninista, ma attraverso un processo culturale e sociale che coinvolge le forme di vita, le narrazioni comuni e le condizioni materiali e territoriali dei lavoratori. La composizione sociale si basa su tre elementi fondamentali: un interesse comune (la condivisione delle condizioni di lavoro e di sfruttamento), una potenza comune (la capacità di esercitare una forza collettiva) e una narrazione comune (la condivisione di un immaginario collettivo e di un orizzonte di speranza). Questi tre elementi sono essenziali affinché un gruppo sociale possa agire come soggetto trasformatore e come classe rivoluzionaria consapevole.

La borghesia, ad esempio, è riuscita a sviluppare una potenza economica e una narrazione basata sui diritti universali e sulla proprietà privata, diventando così una classe rivoluzionaria e trasformatrice. Allo stesso modo, la classe operaia ha sviluppato un interesse comune (riduzione dell’orario di lavoro e aumento dei salari) e una narrazione comune (socialismo e comunismo), ma la sua potenza si è espressa principalmente in forma negativa, attraverso la lotta contro altre classi sociali, senza riuscire a realizzare un potere politico autonomo. La classe operaia ha infatti faticato a tradurre la sua forza produttiva in un progetto politico autonomo, rimanendo spesso dipendente da alleanze con altre classi sociali. La classe sociale emersa dalle trasformazioni produttive del tardo Novecento, il già noto cognitariato, sembra priva delle tre caratteristiche necessarie per diventare un agente trasformatore autonomo. Il lavoro cognitivo, basato sulla conoscenza e sulla rete di telecomunicazioni, si svolge in condizioni di estrema frammentazione e precarietà che rendono difficile la formazione di un interesse comune, di una potenza collettiva e di un immaginario condiviso. La globalizzazione e l’esercito industriale di riserva hanno ulteriormente complicato la creazione di una forza politica comune mentre l’esplosione dell’immaginario collettivo ha reso quasi impossibile la formazione di un universo narrativo condiviso. Il cognitariato, pur essendo portatore di sapere produttivo, si trova in una condizione di estrema dispersione, sia territoriale che temporale, capace di ostacolare la costruzione di una comunità politica. Ne consegue che quello definito da Bifo come composizionismo debole si trova a operare in un panorama in cui la ricomposizione sociale della classe lavoratrice appare estremamente difficile. Emerge allora la sfida di trovare nuove forme di resistenza e di azione collettiva in un mondo in cui il lavoro è sempre più immateriale, precario e disperso, e in cui le condizioni per una ricomposizione sociale appaiono sempre più remote. Gli operaisti non si limitano a descrivere la decomposizione della classe operaia tradizionale perché cercano di individuare nuove possibilità di ricomposizione, anche se in forme diverse e più fragili rispetto al passato. Questa operazione è possibile solo analizzando cosa significa oggi lavorare in un’epoca di digitalizzazione e automazione. Bifo sostiene che il lavoro è diventato al tempo stesso più uniforme dal punto di vista fisico ed ergonomico ma anche più differenziato e specializzato nei contenuti. Se un tempo la distinzione tra diverse professioni si rifletteva in gesti e attività fisiche differenti, oggi architetti, avvocati, programmatori e agenti di viaggio compiono le stesse azioni fisiche, seduti davanti a una tastiera, digitando su un computer, pur essendo coinvolti in processi di elaborazione del tutto distinti e intrasferibili. Questo cambiamento segna una cesura rispetto alla percezione tradizionale del lavoro che nella fase industriale era caratterizzato dalla netta separazione tra concezione ed esecuzione. Nell’industria fordista il lavoro manuale era prevalentemente esecutivo mentre la progettazione era riservata a un’élite tecnica o manageriale. La digitalizzazione ha invece modificato questa struttura, spostando il valore economico dal lavoro fisico al lavoro cognitivo, il cui prodotto si manifesta attraverso simulazioni, sequenze digitali e processi informatici che poi vengono tradotti in trasformazioni materiali. Il lavoro produttivo, cioè quello che genera valore, è quindi diventato sempre più intellettuale mentre il lavoro manuale è delegato a macchine e processi automatizzati. Questa trasformazione impone una riflessione sulla nozione di lavoro astratto, un concetto centrale nel marxismo. Il lavoro industriale era astratto nella misura in cui il valore della merce non dipendeva dalla qualità concreta del lavoro ma esclusivamente dalla quantità di tempo speso per la sua produzione. Con l’avvento del lavoro digitale, questa astrazione si radicalizza: il lavoro non produce più oggetti materiali perché manipola segni, informazioni, flussi simbolici. Il risultato è che, da un lato, i lavoratori svolgono attività fisicamente simili e uniformi, premere tasti, elaborare dati su schermi, ma, dall’altro, i loro compiti sono sempre più specializzati e insostituibili, a differenza del lavoro industriale tradizionale che poteva essere facilmente appreso e scambiato tra operai con una breve formazione. La digitalizzazione quindi produce un paradosso essendo il lavoro più uniforme nei gesti e più astratto nella sua essenza e allo stesso tempo più segmentato e meno intercambiabile, poiché dipende da conoscenze specifiche difficilmente trasferibili. Un’altra conseguenza di questo processo è il mutamento del rapporto tra impresa e lavoratore. Storicamente, nel capitalismo industriale l’impresa rappresentava l’elemento attivo e creativo, l’investimento di capitale volto alla valorizzazione, mentre il lavoro era una prestazione subordinata, ripetitiva ed esecutiva. Questa contrapposizione si sta attenuando nella società contemporanea, soprattutto per i lavoratori cognitivi, i quali tendono a identificarsi con la propria attività lavorativa e a percepirla come un’impresa personale, indipendentemente dalla struttura giuridica del rapporto di lavoro. Ciò significa che anche il lavoro dipendente, se di alto contenuto cognitivo, viene vissuto come un’attività a cui dedicare le proprie migliori energie, non solo per necessità economica, ma per un investimento psichico e identitario. Questo spiega la riduzione del conflitto tra capitale e lavoro in certi settori avanzati e il progressivo superamento dell’opposizione tra il tempo del lavoro e il tempo della vita. Se per il lavoratore industriale la fabbrica rappresentava un’esperienza alienante, una sorta di morte temporanea da cui si risvegliava solo alla fine del turno, per il lavoratore cognitivo il lavoro diventa il centro della propria esistenza, un ambito in cui esprimere creatività e identità personale. Questo cambiamento culturale ha radici profonde e non può essere spiegato solo con la sconfitta politica della classe operaia negli anni Settanta, la ristrutturazione tecnologica o la delocalizzazione della produzione industriale. La chiave per comprenderlo risiede nel mutamento del tessuto sociale e affettivo. La progressiva dissoluzione delle comunità e delle relazioni interpersonali ha reso il lavoro l’unico spazio in cui l’individuo può ricercare un riconoscimento e un’affermazione di sé. Le relazioni umane al di fuori del lavoro sono state svuotate di significato, sostituite da dinamiche standardizzate e commercializzate, mentre la sfera affettiva è stata impoverita dalla precarietà sociale e dalla crescente ossessione per la sicurezza. In un mondo in cui la socialità è diventata frammentata e il piacere è sostituito dalla necessità di costruire un’identità competitiva, il lavoro diventa l’unico ambito in cui l’individuo può sentirsi valorizzato e significativo. Il risultato è una crescente adesione spontanea alle logiche del mercato che si manifesta anche nell’aumento delle ore lavorative. Se nel capitalismo industriale il tempo di lavoro era percepito come una costrizione da cui emanciparsi attraverso lotte sindacali e rivendicazioni, oggi molti lavoratori, soprattutto nei settori cognitivi e tecnologici, tendono ad autoimporsi ritmi di lavoro più intensi perché vedono nel lavoro il luogo principale della propria autorealizzazione. Inoltre mentre il tempo necessario alla produzione industriale si è effettivamente ridotto, il lavoro si è trasferito nel cyberspazio, in una dimensione immateriale e illimitata in cui il confine tra tempo libero e tempo di lavoro si fa sempre più labile. Queste dinamiche producono effetti anche sulla percezione dell’altro. Se nella società industriale il conflitto sociale era chiaramente delineato tra lavoratori e padronato, oggi il predominio della logica competitiva ha trasformato ogni relazione in una potenziale rivalità. La competizione, un tempo confinata alla sfera economica, è diventata il principio regolatore dell’intera esistenza, penetrando nella cultura, nella comunicazione e nei rapporti interpersonali. Il risultato è una società caratterizzata da una diffusa mancanza di solidarietà, in cui l’altro non è più visto come un possibile alleato o una fonte di arricchimento reciproco bensì come un ostacolo da superare o un rivale da battere. Questo clima di competizione perenne ha effetti profondi sul benessere psicologico e sulla qualità della vita, contribuendo alla crescente centralità del lavoro come unica dimensione di realizzazione personale. Possiamo quindi affermare che la digitalizzazione ha ridefinito il ruolo sociale ed esistenziale del lavoro dissolvendo la distinzione tra alienazione e desiderio, rendendolo una componente ineludibile dell’identità contemporanea. Dopo un periodo in cui l’autonomia e la solidarietà erano riuscite a contrastare l’egemonia della logica lavorativa, il capitalismo ha riconquistato il controllo delle vite attraverso una doppia strategia. Da un lato, la precarizzazione e la distruzione delle protezioni sociali hanno reso il lavoro una necessità ineludibile per la sopravvivenza mentre dall’altro si è affermato un modello antropologico che identifica la ricchezza esclusivamente con l’accumulazione economica. In questo modo, la ricerca del denaro è diventata una condizione esistenziale, assorbendo il tempo mentale e riducendo lo spazio per altre forme di esperienza. Bifo nel suo lavoro distingue due concezioni di ricchezza quella quantitativa, basata sull’accumulo di denaro e beni materiali, e quella qualitativa, fondata sulla capacità di vivere esperienze significative. Il capitalismo impone la prima, rendendo il lavoro non solo un obbligo economico ma anche un imperativo esistenziale. L’ossessione per l’accumulazione genera una condizione di stress e ansia costanti. Il tempo sottratto all’esperienza viene riempito dalla ricerca incessante di denaro, creando una dinamica di scarsità artificiale che spinge a un consumo compulsivo senza reale soddisfazione. Il godimento viene così spostato sempre nel futuro mentre il presente è dominato dall’ansia di produrre e guadagnare. Questa dinamica si manifesta in modo evidente nel contesto metropolitano, dove la desocializzazione e l’impoverimento delle relazioni rendono il lavoro un rifugio paradossale. Si lavora, oltre ovviamente che per necessità economica, anche perché fuori dal lavoro esistono sempre meno alternative soddisfacenti di vita. L’ambiente urbano è strutturato per favorire l’isolamento e la competizione, disincentivando forme di socialità libera e autonoma. Il lavoro diventa l’unico spazio di appartenenza e riconoscimento sociale, anche se tale appartenenza è basata sulla subordinazione e sullo sfruttamento. L’evoluzione del concetto di impresa riflette questa trasformazione. Se in passato l’impresa era semplicemente l’organizzazione del capitale per la produzione, oggi è diventata un luogo di iniziativa umana e di investimento affettivo. Questa apparente autonomia è ovviamente solo illusoria poiché l’impresa continua a essere soggetta alle logiche del profitto e della produttività. La sua apparente apertura alla creatività dei lavoratori serve in realtà a sfruttarne il desiderio e l’energia psichica. Il capitalismo contemporaneo trasforma il lavoro in un’esperienza totalizzante, assorbendo anche le dimensioni affettive e immaginative della vita. Nel modello fordista, la fabbrica imponeva un ambiente di alienazione e sofferenza fisica, spingendo i lavoratori a creare comunità antagoniste e forme di resistenza collettiva. Il comunismo operaio, nato da questa esperienza, forniva ai lavoratori un’identità e una coscienza di classe basata sulla solidarietà e sulla lotta contro il capitale. Con la globalizzazione il lavoro industriale si è progressivamente spostato verso le periferie del pianeta mentre nei centri del capitalismo avanzato si è affermato il lavoro cognitivo, caratterizzato dalla flessibilità, dalla precarietà e dall’uso delle tecnologie digitali. L’accelerazione dei processi produttivi ha reso impossibile la costruzione di comunità stabili tra i lavoratori, spezzando i legami di solidarietà e impedendo la formazione di un’identità collettiva antagonista. La precarietà ha frammentato il lavoro in una serie di esperienze individualizzate, rendendo più difficile la costruzione di movimenti di resistenza. Il lavoro cognitivo si distingue dal lavoro industriale perché coinvolge direttamente il desiderio e l’immaginazione dei lavoratori. Se nel fordismo il lavoro era un’attività imposta e separata dalla vita, nel capitalismo contemporaneo il lavoro tende a coincidere con la vita stessa. La mobilità, la capacità di adattarsi a contesti mutevoli e la deterritorializzazione sono diventate condizioni imprescindibili, generando però ansia e insicurezza. La subordinazione si manifesta attraverso il coinvolgimento affettivo e identitario dei lavoratori nella produzione. Dentro queste trasformazioni c’è spazio anche per una ridefinizione della comunicazione in funzione economica. In passato la comunicazione era uno strumento di relazione e costruzione di comunità mentre oggi è diventata parte integrante della produzione, svuotando di significato il rapporto tra le persone. Il linguaggio diventa un dispositivo di valorizzazione economica e anche la creatività, che un tempo era una forma di libertà, è stata inglobata nei processi produttivi, trasformando il desiderio in un elemento funzionale al capitale. All’interno di questo lavoro intellettualizzato, tuttavia, è necessario distinguere tra il lavoro propriamente cognitivo, dove le energie intellettuali si manifestano come una costante deterritorializzazione creativa, e il lavoro mentale di tipo esecutivo che rimane prevalentemente legato a logiche quantitative. Si possono così differenziare i brain workers e i chain workers all’interno del ciclo del lavoro intellettuale. Bifo sostiene che la nostra attenzione debba concentrarsi sulle forme più innovative e specifiche, poiché è in esse che si trova la tendenza in grado di trasformare l’intera produzione sociale. Bifo prosegue le sue riflessione affrontando come la percezione sociale del lavoro è cambiata negli ultimi decenni focalizzandosi su come la trasformazione digitale abbia modificato la natura della subordinazione dei lavoratori che da una forma gerarchica visibile si è trasformata in una dipendenza diffusa e automatizzata. Questo esito è figlio di due distinti processi. Il primo è la messa in rete del lavoro, ovvero la possibilità di coordinare diversi frammenti produttivi in un unico flusso informativo grazie alle infrastrutture digitali.     Il secondo è la dispersione della produzione in un arcipelago di unità autonome solo in apparenza perché in realtà dipendono da un sistema centralizzato di regolazione del lavoro. Questa trasformazione ha prodotto un mutamento radicale nella funzione direttiva del capitale. Il controllo non si esercita più attraverso una catena di comando gerarchica, come nella fabbrica tradizionale, essendoci un sistema di automazione che permea ogni segmento di tempo lavorativo, rendendo superflua la presenza di un’autorità esplicita. Il potere capitalistico si manifesta in modo diffuso, senza essere identificabile in un luogo fisico, in una persona o in un’azienda specifica. Il lavoro autonomo diventa così la formula giuridica dominante, diffondendosi sia nei settori digitalizzati che si basano sulla manipolazione delle informazioni quanto nei settori produttivi tradizionali, dove sempre più lavoratori formalmente indipendenti dipendono da un’infrastruttura informativa comune e da una serie di automatismi produttivi. Per Bifo l’autonomia del lavoratore è in gran parte una costruzione ideologica. Sebbene il lavoratore cognitivo venga spinto a considerarsi un imprenditore di sé stesso, nella realtà la sua autonomia è puramente formale. Egli non ha il controllo sui piani di sviluppo della propria attività, non determina le strategie di crescita e non possiede una reale capacità di autodeterminazione economica. Questa struttura pseudo-imprenditoriale ha conseguenze profonde sia dal punto di vista economico che culturale. Sul piano economico, la diffusione del lavoro autonomo consente una ridefinizione del salario totale. Il lavoratore salariato tradizionale riceveva un reddito comprensivo di contributi pensionistici, ferie pagate e copertura sanitaria, il lavoratore autonomo deve occuparsi di questi costi da solo, trasferendo di fatto le spese indirette del lavoro sulle sue spalle. Il capitale riesce così a ridurre il costo del lavoro e a massimizzare il profitto, senza la necessità di garantire protezioni sociali. Sul piano culturale e psicologico, il lavoratore autonomo è spinto a identificarsi con la propria attività, fino al punto da considerarla il centro della propria esistenza. A differenza del lavoratore salariato della fabbrica che poteva manifestare il proprio disagio rispetto alle condizioni di lavoro e percepire la propria subordinazione come una costrizione imposta dall’esterno, il lavoratore autonomo tende a interiorizzare la responsabilità del proprio successo o fallimento. Il malessere non si traduce in conflitto sociale essendo una questione individuale, legata alla capacità personale di adattarsi alle richieste del mercato. Questa dinamica riprende alcune caratteristiche delle culture creative nate dalle proteste anti-industriali degli anni Sessanta e Settanta che esaltavano l’autonomia e la realizzazione personale attraverso il lavoro. Simili movimenti creativi miravano a sottrarre il lavoro alla logica produttivista mentre la nuova economia digitale ha riassorbito queste istanze, trasformandole in un modello di subordinazione camuffata da libertà. Il lavoro autonomo non va confuso con il lavoro creativo. Il primo implica la necessità di vendere direttamente il proprio prodotto e di assumere funzioni aziendali e finanziarie, il secondo dovrebbe fondarsi sulla libera espressione del soggetto. Nella realtà, la maggior parte degli infolavoratori lavora secondo modalità simili a quelle del salariato classico senza i diritti e le tutele del lavoro subordinato. Il datore di lavoro tendenzialmente è una struttura anonima che sostituisce il classico padrone ben identificabile ed è spesso rappresentata da società impersonali e algoritmi che determinano in modo inappellabile le condizioni di lavoro. Questo modello si fonda sulla cooperazione sociale che trova nella rete digitale il proprio ambiente naturale. Il lavoro cognitivo si manifesta come un continuo processo di rielaborazione e circolazione di informazioni, che si combinano in un flusso produttivo ininterrotto. L’illusione di indipendenza viene rafforzata dal carattere non gerarchico della rete che sembra garantire maggiore libertà ai lavoratori. Nella realtà il lavoratore è vincolato da un processo di interdipendenza, in cui ogni frammento produttivo è separato ma al tempo stesso subordinato a un meccanismo di regolazione automatica. L’infolavoratore, così come il manager o il lavoratore esecutivo, percepisce con crescente intensità la propria dipendenza dal flusso produttivo, senza possibilità di sottrarsi senza subire conseguenze economiche e sociali. Il controllo del lavoro si manifesta attraverso il flusso stesso della produzione. Il telefono cellulare rappresenta l’esempio più emblematico di questa nuova forma di subordinazione. Esso consente di localizzare costantemente il lavoratore e di richiamarlo al lavoro in qualsiasi momento. Anche quando non è ufficialmente in orario di lavoro, il lavoratore rimane connesso e disponibile, pronto a essere reinserito nel ciclo produttivo globale. Questa forma di controllo rappresenta la realizzazione del sogno del capitale: assorbire ogni frammento di tempo produttivo disponibile, utilizzando il lavoratore solo nei momenti in cui è necessario, senza pagarlo per il tempo in cui è in attesa. L’infoproduzione si fonda su questa continua ottimizzazione del tempo che diventa una risorsa gestita in modo algoritmico. Il lavoratore è così costretto a mantenere il proprio sistema nervoso in uno stato di costante attivazione, pronto a rispondere agli stimoli della produzione in ogni momento della giornata. L’intero arco della vita diventa potenzialmente produttivo, anche se solo alcuni momenti vengono effettivamente retribuiti. Questa condizione genera un nuovo tipo di alienazione che non riguarda più solo il corpo, come accadeva nel lavoro industriale, ma investe direttamente la mente, le emozioni e la psiche del lavoratore.

  1. La fabbrica dell’infelicità

Bifo a questo punto affronta il concetto di felicità come costruzione ideologica e il suo ruolo nei processi economici e sociali. Sottolinea che, pur non essendo un oggetto scientificamente studiabile in modo coerente, la felicità è un elemento fondamentale del discorso pubblico, dove circolano rappresentazioni e richiami che, pur privi di solide basi logiche, risultano estremamente efficaci. Durante gli anni Novanta, con la progressiva smaterializzazione della produzione, si è affermata una retorica secondo cui non solo la felicità è possibile ma è addirittura un dovere e per raggiungerla è necessario conformarsi a determinati modelli di comportamento. Nel discorso economico del XX secolo, tanto i regimi totalitari quanto le democrazie hanno collocato la felicità al centro dell’azione collettiva. Nel primo caso attraverso l’imposizione coercitiva di procedure che i cittadini dovevano accettare con entusiasmo, pena la marginalizzazione o la persecuzione. Nel secondo caso concependola come un orizzonte di ricerca individuale e collettiva all’interno di un modus vivendi pluralistico. Il capitalismo, spesso associato senza fondamento alla democrazia, non si dimostra altrettanto tollerante poiché impone la partecipazione alla competizione universale che richiede un investimento totale di energie per risultare vincente. I regimi totalitari del Novecento hanno sacrificato la libertà individuale in nome di una felicità collettiva imposta, generando un’enorme infelicità. Anche l’economia liberale, fondata sul culto del successo e della competizione, produce insoddisfazione attraverso il senso di sconfitta e di colpa. La retorica della new economy, esplosa negli anni Novanta, sosteneva che il mercato garantisse la massima felicità possibile all’umanità, generando una fusione tra discorso ideologico ed economico-pubblicitario, al punto che la pubblicità stessa si è trasformata in un paradigma di pensiero e azione politica. La pubblicità, creando modelli immaginari di felicità ai quali i consumatori devono aderire, è una fabbrica di illusioni e, di conseguenza, di delusioni. Il suo meccanismo si basa sulla produzione di un senso di insufficienza che spinge a consumare per colmare un vuoto sempre rinnovato. Il punto cruciale del discorso di Bifo è che nel semiocapitalismo il tema della felicità ha trasceso la pubblicità per diventare un elemento chiave del discorso economico. Negli anni Sessanta e Settanta, all’apice del modello industriale fordista, la classe operaia ha espresso un forte rifiuto del lavoro, interpretando la propria condizione in termini di alienazione, concetto che filosofi idealisti ed esistenzialisti avevano elaborato per denunciare la perdita di autenticità umana causata dalla mercificazione della vita. Questa critica ha spinto i movimenti di protesta a concepire l’emancipazione come coincidenza tra lavoro e autorealizzazione. A questa visione si sono affiancati i movimenti femministi e giovanili che hanno rilanciato la politicizzazione della vita quotidiana, sostenendo come il desiderio e la realizzazione individuale fossero centrali nella lotta sociale. Il movimento del ’77, con la sua versione italiana creativa e quella inglese punk e cupa, ha colto l’intuizione che ogni trasformazione sociale parte dal desiderio e che il rifiuto del lavoro salariato, l’assenteismo e il sabotaggio fossero espressioni di un’opposizione alla subordinazione alla fabbrica fordista e ai suoi dispositivi disciplinari. Nei decenni successivi si è verificata una trasformazione radicale del sistema produttivo grazie alla diffusione della tecnologia digitale capace di ristrutturare il lavoro, smantellando le gerarchie e integrando l’aspirazione all’autorealizzazione nelle nuove forme di produzione. Questo mutamento ha creato un’interazione ambivalente tra il rifiuto del lavoro salariato e la riorganizzazione capitalistica, dato che sia i lavoratori sia il capitale erano interessati alla riduzione del tempo di lavoro attraverso l’automazione. Marx aveva previsto nei Grundrisse che l’introduzione delle macchine avrebbe ridotto la necessità di lavoro umano e in effetti l’informatizzazione e la digitalizzazione hanno trasformato il lavoro da attività manuale a processo cognitivo. La tradizione operaista aveva sempre considerato il lavoro intellettuale come una funzione separata dalla produzione di merci, legata al controllo politico o ideologico, mentre il lavoro manuale era visto come la base della produzione materiale. Già con l’avvento dell’automazione industriale avanzata molte funzioni operaie erano state trasferite alle macchine e con l’informatizzazione degli anni Ottanta si è verificata una completa ristrutturazione del lavoro, riducendolo sempre più a elaborazione e scambio di informazioni. La digitalizzazione ha permesso di sostituire oggetti e processi materiali con il loro equivalente informatico, creando un mondo simulato perfettamente integrato con quello fisico. Il risultato è stato un mutamento culturale e psicologico. Se nel sistema industriale il lavoratore si sentiva espropriato della propria intellettualità e creatività, nella produzione digitale le capacità cognitive sono direttamente valorizzate. Questo processo ha generato un paradosso visto che la ribellione alla gerarchia e alla ripetitività del lavoro industriale, che aveva spinto gli operai a sottrarsi alla disciplina di fabbrica, è stata assorbita dal capitalismo digitale, trasformandosi in spinta all’autoimprenditorialità e alla produttività autonoma. La richiesta di autonomia sociale, presente nei movimenti antiautoritari degli anni Settanta in contrapposizione allo Stato e al potere centralizzato, ha finito per saldarsi con l’ideologia neoliberale che esige la deregolamentazione totale del mercato. Non è un caso se molti imprenditori innovativi degli anni Ottanta e Novanta provenissero da ambienti post-socialisti e antiautoritari. Per Bifo non si tratta di un tradimento bensì di una convergenza di interessi tra l’individualismo libertario e la logica capitalistica. L’intellettualizzazione del lavoro, resa possibile dall’evoluzione tecnologica e organizzativa, ha aperto spazi inediti per l’autorealizzazione e al contempo ha fornito nuova linfa al capitale. Negli anni Settanta il desiderio era esterno al capitale e si opponeva alla sua logica, con la new economy esso è stato interamente assorbito dal sistema imprenditoriale, al punto che al di fuori del lavoro produttivo e del business sembra non esserci più alcun desiderio vitale. Il capitale ha così ritrovato la propria energia psichica e ideologica proprio attraverso l’assimilazione della creatività, del desiderio di autonomia e dell’impulso individualista nato nelle lotte dei decenni precedenti. 

  1. Prospettive future

Chiudiamo questa rassegna sul concetto di lavoro cognitivo nel pensiero di Franco Berardi Bifo facendo riferimento al libro Futurabilità scritto qualche anno dopo i precedenti. Siamo arrivati al secondo decennio del XXI secolo dove due processi in particolar modo stanno trasformando il mondo profondamente. Il primo è la guerra civile globale, iniziata nel 2001 ed entrata in una fase più acuta dal 2016. Il secondo è l’automazione dell’attività cognitiva, con l’ascesa dell’intelligenza artificiale che penetra sempre più nella vita quotidiana e nell’ambiente urbano creando le condizioni per un sistema di potere neurototalitario. Questi due fenomeni stanno ridefinendo le dinamiche sociali, politiche ed economiche a livello globale. La Brexit e l’elezione di Donald Trump nel 2016 hanno segnato una svolta significativa nella storia del globalismo neoliberale. Nel XX secolo, si credeva che la democrazia e il socialismo avessero sconfitto il nazionalismo ma quest’ultimo è tornato in auge, alimentato dalla rabbia e dal desiderio di vendetta della classe operaia bianca, umiliata dalle politiche neoliberali e tradita dai partiti di centrosinistra, spesso percepiti come funzionari del potere finanziario. Questa rivolta operaia ha scatenato un’ondata di razzismo bianco che si scontra con la rabbia delle popolazioni dei paesi ex colonizzati, con il fondamentalismo islamico e con l’autoritarismo cinese. Il risultato è un trauma globale i cui effetti sono ancora difficili da valutare e che potrebbe portare a una diffusione della barbarie e della violenza, mettendo a rischio la civiltà stessa. Questo trauma non si limita a un crollo culturale. Potrebbe anche aprire la strada a una neuromorfogenesi, ovvero l’emergere di nuove capacità cognitive. La sfida è modellare questa evoluzione attraverso un’azione che sia terapeutica ed estetica, cercando di districare il possibile dalla trappola dell’automazione. La via d’uscita dalla guerra civile globale potrebbe essere trovata dai lavoratori cognitivi di tutto il mondo. Tuttavia questa possibilità sembra remota in questo momento poiché questi lavoratori sono intrappolati in un sistema neurototalitario che impedisce loro di autorganizzarsi. Il trauma potrebbe alterare il rapporto tra dimensione cognitiva ed emozionale ma la direzione di questo cambiamento è incerta e rappresenta la posta in gioco per il futuro. L’interpretazione del presente è quindi cruciale per comprendere e plasmare l’avvenire. Bifo però avverte come non possiamo cambiare il mondo seguendo le strade tracciate dalle rivoluzioni politiche del passato. Dobbiamo creare concetti e forme estetiche che permettano l’autodispiegamento delle possibilità. Interpretare il presente significa tradurre le possibilità materiali in concetti condivisi potenzialmente trasformabili in vita quotidiana, produzione e scambio. Il futuro non è inevitabile, poiché ciò che è inscritto nel presente è ambivalente e può evolvere in molte direzioni diverse. La linea di fuga dall’inevitabile è l’inconcepibile, ovvero ciò che non riusciamo ancora a immaginare o vedere. Il compito dei prossimi decenni è smantellare e riprogrammare la metamacchina del potere tecnocratico, creando una piattaforma comune per i lavoratori cognitivi di tutto il mondo. Questi neuroproletari devono sviluppare una coscienza comune e una solidarietà che permetta loro di sfuggire al controllo della tecno-élite e di costruire un futuro alternativo. La Silicon Valley Globale, intesa come la sfera di produzione in cui cooperano milioni di semio-operai, è il luogo in cui si gioca la partita per il futuro. Dobbiamo guardare a questa sfera con lo stesso sguardo critico con cui si guardava alle fabbriche nel passato, riconoscendo che è lì che il livello più alto di sfruttamento incontra la più alta potenza di trasformazione. Il risveglio etico di milioni di ingegneri, artisti e scienziati è l’unica speranza per evitare una regressione spaventosa. Occorre costruire una piattaforma culturale e tecnologica che permetta ai lavoratori cognitivi di tutto il mondo di cooperare in condizioni di autonomia dall’accumulazione di capitale. Solo così potremo sfuggire alla trappola del neurototalitarismo e costruire un futuro in cui la conoscenza e la tecnologia siano al servizio del bene comune.

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