L’inchiesta operaia per analizzare Industria 4.0. La lezione di Matteo Gaddi

  1. Fare il punto su Industria 4.0

Industria 4.0 è un termine che viene dalla Germania e nasce all’interno dei progetti sviluppati da questo paese per mantenere e rafforzare la competitività del suo sistema produttivo. Queste iniziative sono state adottate inizialmente nel novembre 2011 con il Piano di Azione della strategia High Tech 2020. Tuttavia è dal 2006 che la Germania prova a costruire e portare avanti una strategia sull’High Tech per difendere la competitività della sua industria. Il progetto si regge, dice Matteo Gaddi nel suo Sfruttamento 4.0. Nuove tecnologie e lavoro, su una strategia duale, ovvero, da una parte l’utilizzo delle nuove tecnologie nelle fabbriche tedesche per rafforzare l’efficienza della produzione domestica e dall’altra la produzione per la vendita e l’esportazione di queste nuove tecnologie. Il primo obiettivo è raggiungibile unicamente mettendo a rete le diverse fasi della stessa catena produttiva per mezzo dell’integrazione digitale. Questo spiega le strategie di ingegnerizzazione digitale dell’intera catena del valore, di sviluppo di catene e reti tra diverse aziende attraverso l’integrazione in maniera orizzontale e l’integrazione verticale di sistemi manifatturieri flessibili e riconfigurabili. Il secondo obiettivo riguarda il tentativo tedesco di diventare leader mondiale nella fornitura di soluzioni Industria 4.0 attraverso gli sforzi dei costruttori di macchinari e impiantistica che dovranno combinare le nuove tecnologie ICT con le tradizionali strategie nell’high tech. Le tecnologie ICT svelano nuove dettagli su cos’è Industria 4.0. Si tratta di un’organizzazione dei processi produttivi a partire da tecnologie e dispositivi che comunicano gli uni con gli altri tramite computer o modelli virtuali lungo tutta la catena del valore. Emerge, quindi, una fabbrica “intelligente” con sistemi guidati da computer capaci di monitorare i processi produttivi con cui creare riproduzioni virtuali del mondo reale e decentrare le decisioni sulla base di meccanismi di autoregolazione. Tutto ciò è pensabile perché nell’industria gli oggetti fisici sono sempre più integrati con le reti di informazione e comunicazione, dice Matteo Gaddi. Nelle fabbriche troviamo tre modalità di integrazione. La prima è di tipo verticale, ovvero all’interno della stessa impresa o stabilimento dove le diverse fasi e funzioni vengono strettamente integrate e comunicano in tempo reale. La seconda è orizzontale e prevede la connessione di reti produttive spazialmente disperse e che possono essere gestite in tempo reale. Infine abbiamo l’integrazione di prodotto, dove salta la distinzione tra industria e servizi grazie alla connessione delle tecnologie digitali con il prodotto industriale e i suoi servizi. Da queste informazioni Gaddi trae la conclusione che Industria 4.0 punta a connettere le fabbriche intelligenti con tutte le parti della catena di produzione e a sfruttare l’automazione di nuova generazione. Una delle conseguenze di ciò è la possibilità di connettere elementi della catena di produzione che prima erano isolati tramite RFID, cioè radio frequenze di identificazione, chip o mini-transponder. Ogni componente incorpora informazioni digitali condivisibili tramite segnali radio ogni volta che si sposta lungo la catena produttiva. Questi componenti possono anche comunicare tra loro senza l’intervento umano e le informazioni così prodotte possono essere raccolte e analizzate con le tecnologie del cloud e dei big data. Gaddi sostiene che il sempre maggiore impiego delle ICT abbia iniziato a far sfumare il confine tra mondo reale e virtuale tramite i Sistemi Cyber-Fisici (CPS), ovvero reti online di macchine organizzate in maniera simile ai social network. Dentro un CPS le componenti meccaniche ed elettroniche comunicano tra di loro tramite RFID o protocolli internet (Ipv6) che permettono alle macchine di ricevere un indirizzo IP individuale. Ciò produce sistemi intelligenti in grado di scambiarsi informazioni sui livelli delle scorte, su problemi o difetti, sulle variazioni della domanda contribuendo così al coordinamento dei processi e al miglioramento dell’efficienza. Tutte queste tecnologie non sono una vera novità perché, come dice un report del 2015 del Boston Consulting Group, sono utilizzate da tempo nell’industria manifatturiera. La novità introdotta da Industria 4.0 risiede nell’integrazione di tutte queste tecnologie con la relativa trasformazione del processo produttivo fatto da postazioni isolate messe insieme grazie ad un flusso produttivo ottimizzato, automatizzato e integrato che genera una maggiore efficienza e una modificazione del rapporto tra produttori, fornitori e clienti. Per Roland Berger, invece, Industria 4.0 ha come scopo creare dei processi produttivi rimodulati in tempo reale grazie ai big data generati da fornitori, clienti e imprese che verranno raccolti, analizzati e valutati prima di poter essere impiegati nella produzione reale, la quale, di conseguenza, farà un sempre maggior uso di sensoristica e robotica di nuova generazione. Industria 4.0, inoltre, ha come scopo aumentare la redditività tramite una riduzione dei costi del lavoro e un maggiore tasso di utilizzo degli impianti. In poche parole, dice Gaddi, siamo davanti ad un’intensificazione dell’estrazione di plusvalore e ad un aumento del tasso di sfruttamento del lavoro. L’adozione delle tecnologie di Industria 4.0 ha delle ripercussioni su tutta la catena del valore coinvolta. Se questo mutamento prende il via dalla grande industria su cui fa perno l’intera catena, anche le PMI che lavorano per lei dovranno adottare tecnologie manifatturiere e metodi di lavoro di carattere avanzato, adattarsi ai nuovi standard e metodi in vigore nei rispettivi settori con lo scopo di rimanere competitive e legate alle reti e alle catene produttive esistenti. Queste dinamiche aumenteranno la dipendenza delle PMI dalle grandi multinazionali e la concorrenza tra di esse basata sui costi e le condizioni di lavoro. Un altro risultato è l’aumento dell’autorità esercitata sui fornitori da parte dell’impresa alla testa della catena che si esprime in pianificazione della produzione, del suo ritmo, della sua velocità e dell’organizzazione del lavoro. Questo produce un elevato grado di integrazione all’interno della rete portando ad una sfumatura dei confini tra le diverse imprese. L’integrazione raggiunta richiede omogeneità anche al livello dell’organizzazione interna e delle relazioni di fornitura. Tutti i programmi di produzione, inoltre, sono determinati dalla domanda di mercato che finisce per influire sulla modulazione dei carichi di lavoro di ogni singolo impianto incaricato di realizzare ciascuna fase. Questo indipendentemente dal fatto che si tratti di fornitori esterni o di reparti dello stesso gruppo. Industria 4.0 consente una piena sintonizzazione di tutti questi aspetti. L’obiettivo principale è la creazione di smart chains tramite l’integrazione orizzontale, l’integrazione digitale dell’ingegneria lungo tutta la catena e l’integrazione verticale. Ciò è possibile tramite l’internet delle cose, ovvero dispositivi incorporati, dotati di protocollo internet, che rendono possibile l’interazione e la comunicazione tra macchinari, esseri umani, prodotti, parti e componenti come M2M, M2H, M2P e H2P. Queste sono le basi per creare un CPS in cui la realtà fisica e virtuale si fondono e macchine, esseri umani e prodotti finiscono per comunicare come se fossero in un social network. Il CPS è prodotto da componenti fisiche come sensori, RFDI, macchine smart e scanner di codici a barre e software capaci di programmare e implementare la gestione delle risorse e i processi produttivi. I CPS producono molti dati utilizzati in tempo reale per monitorare i singoli passaggi della produzione e ottenere dei feedback sul funzionamento del processo produttivo. In questo modo emerge l’integrazione orizzontale digitale indispensabile per avere un sistema manifatturiero flessibile e riconfigurabile. Tramite questo modello di integrazione è possibile connettere impianti appartenenti allo stesso gruppo ma collocati in diverse aree geografiche, anche diversi paesi, oppure tra aziende e fornitori che possono anche essere all’estero. Le imprese coordinano le varie fasi della produzione tramite sistemi informatici centralizzati. Viene utilizzato un software chiamato APS per la pianificazione di breve-medio periodo per utilizzare la capacità produttiva dei vari impianti. MRP invece è un altro software impiegato nella gestione del magazzino che è capace di individuare e notificare gli input necessari per uno specifico ordine e che di conseguenza vanno prodotti o acquistati. Per gestire l’intera catena di produzione, imponendo la logica kanban ai fornitori esterni, viene utilizzato il software ERP. Tutto ciò determina un alto grado di coordinazione ed integrazione visto che i fornitori condividono lo stesso sistema gestionale informatico. Le imprese al vertice della catena del valore possono inoltrare i loro ordini semplicemente premendo un pulsante nei loro uffici logistici e in questo modo espandono a tutti i loro fornitori la stessa logica kanban. Un esempio di questa integrazione orizzontale viene offerto da Gaddi analizzando il decalogo definito da CNH, del gruppo dell’ex FCA, per i suoi fornitori. Essi sono obbligati ad avere ordini aperti e modificabili anche all’ultimo momento. I fornitori sono tenuti a comunicare i loro tempi, cioè vacanze, chiusure o cambi turno, e la loro organizzazione del lavoro. Sono inoltre previste delle penali sia per le forniture in ritardo che in anticipo. Un altro esempio viene dal modello just-in-sequence che è un’evoluzione di quello just-in-time. In questo caso le parti e le componenti devono essere fornite in una sequenza specifica e definita dal piano di produzione. Il tutto è ovviamente coordinato a livello informatico. 

Sul fronte occupazionale Gaddi sostiene un approccio prudente sulla relazione tra automazione, industria 4.0 e perdita di posti di lavoro perché l’uso di metodologie diverse danno risultati diversi per quanto riguarda le previsioni sulla scomparsa di posti di lavoro a causa dell’innovazione tecnologica. Gaddi infatti preferisce concentrare l’attenzione su come queste trasformazioni influenzano le condizioni di lavoro e le forme di occupazione. Molti compiti di routine saranno probabilmente automatizzati e i relativi posti di lavoro scompariranno. Le mansioni che richiedono competenze di medio livello potrebbero fortemente ridursi e questo produrrà una forte polarizzazione tra mansioni altamente specializzate e a bassa specializzazione. Questo potrebbe avere dei riflessi anche in una polarizzazione geografica tra centro e periferia del capitalismo dice Gaddi. Cambieranno anche i tempi di lavoro, resi più flessibili, e la tradizionale divisione del lavoro potrebbe scomparire mentre le prestazioni lavorative diventeranno più dense e controllate. Al momento, però, Industria 4.0 non ha grandi impatti occupazionali e le strategie delle imprese sembrano più orientate verso un incremento della produzione e della produttività senza procedere a nuove assunzioni. Questo dato è in linea con gli ultimi progressi tecnologici del capitalismo che sono quasi sempre labour saving, cioè a risparmio di manodopera. In molti casi l’automazione porterà semplicemente allo spostamento dei lavoratori verso reparti e mansioni differenti. Un’altra conseguenza evidenziata da Gaddi è legata all’introduzione di macchine di nuova generazione. Un simile mutamento porta i lavoratori ad essere costretti a gestire più di una macchina contemporaneamente. Le imprese si aspettano di avere, inoltre, sempre meno operai impiegati in attività manuali ma la questione dice Gaddi è ancora troppo generica per essere affrontata seriamente e lo stesso discorso vale per le competenze richieste nel futuro, tema importante vista l’età media avanzata dei lavoratori italiani. La principale fonte di disoccupazione legata ad Industria 4.0 resta la semplificazione che essa consente per quanto riguarda la lean production e il coordinamento della supply chain, anche quando è dispersa geograficamente. In questo modo viene resa più semplice l’esternalizzazione della produzione e in particolare la delocalizzazione. In ogni caso Industria 4.0 non è sinonimo di fabbrica pienamente automatizzata. Anzi, in molte situazioni l’automazione è posta al servizio del lavoro e molte RSU hanno accolto positivamente alcune di queste tecnologie introdotte con Industria 4.0. Un altro aspetto che viene favorito è l’integrazione verticale, ovvero la connessione di diverse funzioni all’interno del singolo stabilimento. Gli strumenti utilizzati per raggiungere questo scopo sono principalmente informatici. Gaddi fa vari esempi in tal senso. Pensiamo ad un software per la connessione machine-to-machine (M2M) che dentro una singola fabbrica o in più impianti della stessa impresa è in grado di connettere l’intero sistema ad un server dove sono raccolte le informazione e che è in grado di gestire i processi produttivi. Il software è in grado di garantire lo svolgimento dell’intero processo e di governarlo collegandosi a tutte le linee. Ogni mutamento nei parametri di produzione di una singola macchina viene immediatamente comunicato a tutte le altre macchine della linea o a quelle in funzione in altri impianti, sia in Italia che all’estero. Un altro esempio viene dai sistemi ERP che hanno la funzione di registrare e gestire i dati relativi a parti e componenti, ordini di produzione, problemi, fermi macchina fino ad arrivare alla produzione finale. L’ERP lavora in combinazione con il MES che si occupa di consegnare gli ordini di lavoro alle linee e alle postazioni. Il MES, in particolare, permette di identificare in qualsiasi momento la fase produttiva in corso e la singola operazione svolta. In questo modo può individuare eventuali problemi. Il sistema è in grado di tracciare qualsiasi cosa che il lavoratore fa in qualsiasi momento per mezzo di dispositivi come scanner ottici, codici a barre, PC, tablet, computer a bordo macchina… Questi dispositivi sono in grado di registrare i dati relativi alle operazioni, i tempi o i componenti utilizzati. 

Industria 4.0, dice Gaddi, viene utilizzata in sinergia con la lean production. La connessione non è casuale perché le innovazioni tecnologiche sono legate alle innovazioni organizzative; la filosofia che guida la lean production è la stessa di Industria 4.0 e le sue tecnologie consentono di superare alcune limitazioni tecniche contro cui si scontrava precedentemente la lean production. Infatti le tecnologie 4.0 aiutano a comprimere i tempi delle prestazioni lavorative e quindi a ridurre le attese, cosa che si traduce in una pesante intensificazione del lavoro. Per quanto riguarda i macchinari, invece, vengono ridotti i tempi di risettaggio con relativo aumento della produttività aumentando, anche in questo caso, i ritmi di lavoro per mezzo della cancellazione o drastica riduzione delle porosità del tempo di lavoro. 

La lean production si basa sul just-in-time, cioè un processo produttivo tirato dalla domanda del cliente capace di attivare l’intero ciclo produttivo. Questo significa che a monte non deve essere mai prodotto ciò che non è richiesto a valle. Tutto deve essere prodotto in tempo ogni volta che un reparto o una postazione a valle ne faccia richiesta tramite il suo kanban e per raggiungere un simile scopo è necessaria una sincronizzazione da ottenere tramite le nuove tecnologie digitali che gestiscono in tempo reale le richieste e le forniture. Il kanban, lo strumento che governa il just-in-time, viene reso da Industria 4.0 un segnale elettronico che ne rende più facile la visione e la velocità di gestione. Tramite ERP e MES il kanban elettronico viene estratto sotto forma di ordine da inviare a monitor e tablet di postazione. Una volta recepito, i sistemi di registrazione permettono di monitorare l’intero processo consentendo alla direzione dell’impresa di monitorare la produzione in tempo reale e di intervenire con eventuali aggiustamenti della sincronizzazione. Il processo produttivo, essendo tirato dal cliente, deve funzionare secondo la logica one-piece-flow. In breve, la produzione deve avvenire un pezzo alla volta per consentire sia di cambiare modello di prodotto ad ogni passaggio senza sprecare tempo per il risettaggio che di contabilizzare ogni pezzo appena prodotto. Per raggiungere simili risultati è vitale la gestione dei tempi assegnati che vanno rigorosamente rispettati. Qui emerge il task time, ovvero il tempo entro il quale deve essere realizzata un’unità di prodotto e definisce, in questo modo, il ritmo della produzione. Le tecnologie 4.0 permettono il controllo in tempo reale del task time per mezzo di dispositivi che registrano la produzione realizzata in ogni istante. In seguito viene scaricata nei sistemi informativi aziendali e confrontata con la programmazione. Il task time, quindi, finisce per fissare il tempo di lavoro in tutte le linee e in ogni postazione impone ritmi e sistemi di lavoro per raggiungere gli standard fissati dall’impresa. Industria 4.0 influisce anche sui carichi di lavoro da distribuire tra le varie postazioni che, una volta definito il task time, viene calcolato dai sistemi gestionali informatici tenendo in considerazione la disponibilità degli impianti e le risorse umane. Il risultato è che l’attribuzione dei carichi di lavoro tra le varie stazioni può essere ridotta ad una questione tecnica o scientifica grazie all’utilizzo di programmi informatici. Una conseguenza di ciò è la progressiva scomparsa della negoziazione, compresa quella informale, sui carichi di lavoro assegnati durante il turno di lavoro che si vede messa in difficoltà dal carattere asettico e scientifico degli strumenti di calcolo utilizzati. Il rigido rispetto del task time, unita all’ossessione dei sistemi lean per la riduzione del led time, ovvero gli sprechi di tempo di lavoro, rende strumenti pensati per aiutare i lavoratori dei modi con cui intensificare la prestazione lavorativa. Questa ossessione giustifica i tentativi di guidare passo passo il lavoratore nella sua attività eliminando ogni spreco. Lo possiamo notare con il sistema MES che guida l’operaio, grazie alla connessione tra macchine e sistema informatico, nello svolgimento di diverse operazioni e lo guida nelle componenti da lavorare e nelle sequenze delle operazioni da svolgere. Un altro esempio riguarda la classificazione delle attività da svolgere in alto e basso valore aggiunto, con le prime che sono le uniche a determinare progressive trasformazioni del prodotto, aggiungendo valore, mentre le seconde sono da comprimere il più possibile anche se alcune di esse sono necessarie per il processo produttivo. Tra di esse troviamo attività come pulire, camminare, cercare o sistemare ma anche tutti quei momenti che permettono all’operaio di “tirare il fiato”. Alcune di esse non sono eliminabili e finiscono per essere comunque svolte dagli operai tramite i loro dispositivi tecnologici. 

L’evoluzione della lean production è il WCM, contraddistinto da molti elementi provenienti da Industria 4.0. In questo sistema tutte le attività operative e di supporto alla produzione devono essere soggette ad un continuo miglioramento con l’obiettivo di creare un flusso di valore aggiunto senza sprechi e con il minor numero possibile di perdite. Bisogna, perciò, realizzare un flusso di lavoro svolto alla massima velocità e al minimo costo. Per il WCM lo spreco è una perdita di valore dovuta ad una forma di sovrapproduzione ed è un’opportunità non sfruttata per produrre valore aggiunto. Di conseguenza un lavoratore in attesa è uno spreco e una perdita di valore dovuta al suo mancato utilizzo. Un ruolo chiave nel WCM lo svolge il TPM, ovvero la manutenzione preventiva totale. In breve gli operai hanno il compito di ispezionare giornalmente le macchine, fare la loro manutenzione, pulire e tenere in ordine la propria postazione e controllare la propria attrezzatura. L’obiettivo è raggiungere la saturazione massima degli operai e garantire il corretto e continuo funzionamento degli impianti nella logica del flusso teso. 

Il risultato di tutte queste innovazioni è negativo per i lavoratori perché si trovano davanti ad un’intensificazione del ritmo di lavoro e una riduzione dei tempi di ciascuna operazione. Tutto ciò è ovviamente imposto in maniera unilaterale dalle imprese senza contrattare con i sindacati. Andando più nel dettaglio, i tempi ciclo sono definiti unilateralmente dalle imprese. Le operazioni manuali vengono analizzate dal reparto Tempi e Metodi per poi essere tradotte nella pianificazione dell’intero processo produttivo e degli ordini di lavoro. Nei casi in cui le operazioni coinvolgono una macchina, i tempi ciclo dipendono da quest’ultima e i lavoratori si devono adattare. Le macchine, inoltre, incorporano software di programmi di produzione che definiscono i tempi di lavoro e gli operai, di conseguenza, sono costretti ad agire come delle sue mere appendici. La registrazione dei tempi non riguarda solo le singole operazioni ma l’intero ciclo produttivo ed è essenziale per il coordinamento delle diverse fasi di produzione. Si tratta di una condizione imprescindibile per rispettare le condizioni contrattate con i clienti. Per questo motivo ERP e MES vengono utilizzati come strumenti di tracciamento e monitoraggio per registrare in tempo reale il progresso di ogni fase e del ciclo produttivo nel suo insieme. Ciò implica, ovviamente, il monitoraggio di quello che ogni singolo operaio fa in ogni momento. I tempi ciclo, dice Gaddi, sono incorporati nei codici a barre allegati agli ordini di lavoro e dipendono dal tempo necessario alle macchine per completare ogni singola operazione. Gaddi sostiene che l’intensificazione dei tempi di lavoro ha tre cause. La prima è che le operazioni svolte dai lavoratori sono complementari a quelle svolte dalle macchine, soprattutto il carico e scarico. La seconda causa riguarda la necessità per i lavoratori, con il  pretesto dell’automatizzazione, di dover manovrare più di una macchina contemporaneamente mentre prima ne dovevano gestire solo una. L’ultima causa riguarda tutti quei compiti di controllo qualità, burocrazia e self-check che un tempo erano di responsabilità di altri lavoratori. L’intensificazione del lavoro è associata al controllo delle prestazioni del lavoro. Le imprese hanno introdotto dei dispositivi di controllo da remoto di stabilimenti e impianti e di conseguenza delle prestazioni dei lavoratori. Il controllo viene realizzato incrociando i codici a barre associati ai lavoratori, come gli ID badge, alle macchine che manovrano, al lotto di produzione e alle specifiche componenti in fase di lavorazione. Le macchine producono anche dei dati relativi ai volumi prodotti e ai tempi di inattività. In questo modo le aziende raggiungono alcuni obiettivi chiave: calcolare i costi di produzione, calcolare il costo di ciascun lavoratore e decidere se esternalizzare o meno una determinata fase produttiva.  

  1. Tornare a Panzieri

Gaddi sostiene che sia necessario partire da una critica netta di ogni idea di neutralità della tecnologia o di un suo presunto carattere progressivo. Tuttavia si tratta di una posizione minoritaria nelle analisi di Industria 4.0 perché la maggior parte degli analisti del settore ha una visione apologetica del tema. Non sono solo autori vicini al mondo dell’impresa per ragioni di classe, professionali o culturali. I motivi che Gaddi rintraccia dietro questo posizionamento sono due. In primo luogo c’è l’accettazione del pensiero dominante anche negli ambienti che si vorrebbero critici. Ciò si traduce nella piena assunzione del punto di vista del capitale. In secondo luogo, Gaddi sostiene che è venuta meno la capacità o la volontà di fare inchiesta sul campo con l’intento di far emergere i caratteri reali di Industria 4.0 e delle sue conseguenze sul lavoro e i lavoratori. L’inchiesta sul campo per Gaddi è centrale per evitare di scrivere articoli apparentemente critici ma senza basi nella realtà quotidiana dei lavoratori, producendo in questo modo una critica “libresca” e superficiale a Industria 4.0, senza cogliere i suoi caratteri centrali e concreti. L’antidoto ad una simile deriva è Raniero Panzieri. Prendiamo, ad esempio, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo. Lo abbiamo già analizzato altrove ma è bene riprendere questo suo fondamentale saggio per affrontare il tema della tecnologia. I problemi legati ad essa non si collocano unicamente nell’utilizzo concreto che ne viene fatto, come la sua implementazione nei processi produttivi, ma risiede nella stessa concezione, ideazione e progettazione della tecnologia. Il suo utilizzo concreto viene da sé. Per Panzieri l’uso capitalistico delle macchine non è una semplice deviazione o distorsione di uno sviluppo oggettivo e di per sé razionale, infatti è l’uso capitalistico che determina lo sviluppo tecnologico, nel senso, dice Gaddi, che lo decide, lo pensa e lo progetta per come deve essere. Panzieri critica in maniera feroce le ideologie oggettivistiche del progresso tecnologico a cui bisogna contrapporre la tendenza dello sviluppo capitalistico della tecnologia ad aumentare costantemente il controllo capitalistico. Questo è esattamente ciò che succede con Industria 4.0 e di ciò bisogna tenere conto quando si pensa ad un uso alternativo delle tecnologie 4.0 che, pur essendo possibile, rischia di essere limitato se si parte da una critica circoscritta alle loro modalità di utilizzo senza intaccare la loro concezione e progettazione che sono dettate dal capitale. Quindi le trasformazioni tecnologiche non devono essere rappresentate in una forma pura ma devono essere messe sempre in connessione con gli elementi determinanti dell’organizzazione capitalistica. Gaddi vi include anche gli aspetti relativi all’organizzazione della produzione in senso generale, come le filiere di produzione, e l’organizzazione concreta del lavoro, come i modelli di organizzazione del lavoro di derivazione giapponese. Un altro elemento da trarre dai lavori di Panzieri è la critica all’idea che l’organizzazione della produzione e del lavoro possa essere intesa come sublimazione della struttura tecnologica. Dice Gaddi che oggi non ci si domanda neanche più sé il capitalismo possa utilizzare le nuove basi tecniche offerte dal passaggio verso la meccanizzazione spinta e all’automazione per perpetuare e consolidare la struttura autoritaria dell’organizzazione della fabbrica. Questo punto è assolutamente evidente nel rapporto tra tecnologie 4.0 e sistemi di organizzazione del lavoro finalizzato ad aumentare la produttività attraverso l’inasprimento dello sfruttamento, pensiamo alla riduzione dei tempi, l’intensificazione dei ritmi o alla riduzione delle porosità del tempo attraverso la cancellazione delle attività a non valore aggiunto. Le narrazioni apologetiche di Industria 4.0 possono essere colpite anche utilizzando le critiche di Panzieri alle deformazioni del carattere stesso della prestazione lavorativa, ovvero la qualità e i contenuti del lavoro. Se ci fermiano a come Industria 4.0 viene presentata da manuali tecnici, studiosi e manager sembra che la prestazione lavorativa degli operai venga migliorata, sia in termini ergonomici e di fatica, sia in termini di professionalità, contenuti, partecipazione attiva e competenze. Le inchieste operaie hanno totalmente smontato queste idee e ciò è stato possibile perché si tratta di uno strumento con cui viene costruito il punto di vista autonomo e indipendente della classe e del movimento operaio rispetto alle trasformazioni tecnologiche e organizzative. 

Senza l’inchiesta sul campo si finisce per assorbire le letture proposte del capitale sull’innovazione e il risultato finale è assumere anche il suo punto di vista generale. L’inchiesta operaia, quindi, finisce per diventare il principale strumento di indagine e di comprensione dei fenomeni, a partire dalle condizioni concrete e della loro oggettiva descrizione per costruire una capacità di lettura di classe. Questo aspetto si lega all’iniziativa operaia a partire dalla piena autonomia di classe dal capitale. Senza questo elemento il capitale avrebbe facilmente buon gioco nello sfruttare pienamente i suoi strumenti di integrazione subalterna dei lavoratori limitando l’azione operaia ad interventi tampone o di contrattazione delle conseguenze delle trasformazioni tecnologico-organizzative imposte dall’impresa. Per Gaddi, come per tutti gli operaisti, bisogna nettamente rifiutare di trarre dall’analisi del capitale l’analisi del livello della classe operaia, altrimenti non avrebbe alcun senso parlare di controllo operaio. 

Matteo Gaddi non si limita a riprendere Panzieri ma ci propone anche degli esempi di utilizzo del pensiero operaista per analizzare la fabbrica di Industria 4.0. Ad esempio vengono sottoposti ad un’analisi di classe ERP e MES. I due strumenti, come abbiamo già visto, funzionano in maniera molto intrecciata. Il MES permette alle imprese di svolgere le attività di schedulazione e di assegnare a ogni singola fase e postazione i carichi di lavoro della programmazione/pianificazione complessiva realizzata da ERP. MES permette alle imprese di monitorare in tempo reale le attività dei lavoratori in maniera integrata rispetto alla schedulazione, controllando in questo modo costi, tempi e qualità oltre al flusso, dove bisogna eliminare tutti i tempi morti e gli sprechi. MES non si occupa solo di schedulazione ma anche di gestione delle risorse, trasmissione di ordini, raccolta dati, trasmissione di documenti come istruzioni, ricette, programmi alle stazioni di lavoro e analisi delle performance. Per quanto riguarda la schedulazione, MES consente di definire e fornire per ogni stazione di lavoro le sequenze di lavoro in base alle priorità e individua i programmi necessari al funzionamento della fabbrica. In questo modo si crea un’associazione con i vari ordini di produzione e i calcoli nel dettaglio dei tempi macchina e di carico e resettaggio. Il MES è anche uno strumento di gestione dei flussi che trasmette nella giusta sequenza gli ordini di lavoro alle varie unità e per ogni singola postazione. I dati raccolti da ogni postazione in tempo reale sono resi subito disponibili alle direzioni aziendali. Un simile sistema di controllo in tempo reale e in remoto coinvolge, ovviamente, anche i lavoratori. Infatti il MES è in grado di realizzare in automatico dei report sui tempi impiegati nelle singole operazioni, sulle presenze, consente di tracciare le attività dirette, come le operazioni manifatturiere, e indirette, come la preparazione dei materiali o l’attrezzaggio. Il risultato è la possibilità di tracciare tutta la produzione in tempo reale e la visibilità del processo è garantita in ogni sua fase. In ogni momento è possibile sapere chi sta lavorando con cosa, lo stato dei componenti dei fornitori, lo stato dei lotti, monitorare ogni segnalazione, anomalia, problema o rework. Dietro questo aspetto superficiale che fa leva sull’uso della tracciabilità in tempo reale per garantire una maggiore qualità del prodotto finale c’è un pervasivo strumento di controllo del lavoro, continuo e in tempo reale. L’analisi della performance e la reportistica aggiornata ogni minuto, dice Gaddi, consente di fare comparazioni tra i risultati ottenuti e le prestazioni del passato e quelli stabiliti al momento della pianificazione. Queste misurazioni riguardano l’utilizzo delle risorse, pensiamo al livello di saturazione, la disponibilità delle risorse o i tempi impiegati. Tutto ciò deve risultare conforme alla schedulazione e agli standard e parametri definiti dalla direzione aziendale. La schedulazione del MES rende i carichi di lavoro assegnati alle postazioni un dato oggettivo e scientifico, non contrattabile dal sindacato. In precedenza era possibile, in presenza di carichi di lavoro gravosi, per l’operaio contrattare tramite il delegato sindacale o informalmente con il capo-linea/reparto. Il MES è il tentativo padronale di impedire o espellere questa forma di difesa operaia dalla fabbrica. La trasmissione degli ordini di lavoro ad ogni postazione avviene dal MES tramite ICT e la loro lettura è possibile tramite PC, tablet e scanner ottico. Questo sistema danneggia il lavoratore anche dal punto di vista della compressione degli ambiti di autonomia. Gaddi fa l’esempio della STMicroeletronics Italia di Agrate Brianza dove il flusso di processo è guidato da scripts che uniti finiscono per formare un flusso di processo complessivo chiamato Workstream. Si tratta di un’infrastruttura basata su MES che consente ai lavoratori di ricevere ordini ed informazioni nella loro postazione. Il flusso delle ricette, cioè programmi macchina, guida i lavoratori in ogni fase e in ogni macchina, tenendo traccia di tutto il processo produttivo. Con Workstream l’operaio svolge due mansioni. La prima è seguire attentamente lo script durante il suo lavoro mentre la seconda è tenere traccia del processo di lavoro. Gli script forniscono al lavoratore solo le informazioni elementari, limitate, ad esempio, al percorso che il lotto deve compiere, mentre le indicazione degli script compaiono sul computer a bordo macchina. Per ogni lotto sono previsti degli step e in ogni macchina vengono scaricate le ricette che contengono le lavorazioni da compiere. I protocolli di comunicazione FTP, ovvero di trasmissione dei dati, che sono installati sulle macchine permettono di accedere ad un server da cui Workstream ricava la ricetta necessaria su quel particolare tipo di macchina e per quel particolare tipo di prodotto. Questo porta ad intensificare la prestazione e a saturare maggiormente il tempo di lavoro ma un altro effetto è quello di una dequalificazione professionale. Prima gli operai, dice Gaddi, creavano le ricette ed erano a conoscenza di tutto il processo produttivo. Ora si limitano a fare il carico e scarico del lotto che procede per le varie fasi grazie al processamento di Workstream che, quindi, permette di tracciare e processare i lotti grazie alle informazioni contenute nel codice a barre che consentono di richiamare le ricette del server. Macchina e computer di bordo comunicano con Workstream che è collegato al server. Simili modalità di trasmissione degli ordini di lavoro e di indicazione delle operazioni da compiere consente di fare piazza pulita del presunto carattere progressivo delle scelte organizzative e tecnologiche delle imprese. Una simile operazione di critica viene svolta da Gaddi su strumenti del modello Lean come il Poka Yoke che è descritto come un supporto ai lavoratori. Questo sistema ha come scopo guidare l’operaio operazione per operazione evitando che possa commettere errori. Viene presentato, quindi, come un aiuto al lavoratore ma nella realtà vincola in profondità la sua prestazione impedendogli di fare ricorso alla sua esperienza e alla sua professionalità per gestire il lavoro sia per quanto concerne l’ordine delle sequenze che per quanto riguarda la loro esecuzione. Il sistema Poka Yoke, pensato come un modo per ridurre l’ansia da errore, in realtà comprime i tempi di realizzazione delle operazioni e riduce o elimina il tempo dedicato a pensare come realizzare un determinato intervento. Un ultimo esempio è il Cobot, ovvero un robot collaborativo progettato per realizzare compiti con i lavoratori dell’industria. Una delle sue principali caratteristiche è l’abbattimento della separazione tra attività umana e della macchina. Il robot e l’essere umano finiscono per lavorare in uno spazio condiviso. Per i padroni robot come i Cobot potrebbero svolgere i compiti più noiosi e non ergonomici come spostare carichi pesanti o fare compiti ripetitivi. In questo modo gli operai sono sollevati dai compiti più gravosi e sono aiutati dalla macchine nelle loro attività. Inoltre, dice Gaddi, nelle fabbrica 4.0 i dati vengono raccolti in ogni fase della produzione per mezzo dei sensori presenti nelle macchine o nelle interfacce digitali per poi essere analizzati per ottimizzare i processi attraverso l’utilizzo del Cloud. Tutto ciò consente di programmare e aggiornare i software dei robot da remoto senza alcuna possibilità di controllo da parte degli operai che li utilizzano. Per le imprese si realizza una situazione in cui i compiti routinari, pesanti e ripetitivi, anche fonti di malattie, sono svolti dai robot mentre l’operaio si occuperà della gestione dei flussi di produzione, della supervisione o della soluzione dei problemi. In breve, questo operaio sarà altamente professionalizzato, con competenze elevate, sarà molto autonomo e avrà salari molto elevati. La realtà è decisamente diversa. La cooperazione con i robot espone l’operaio a molti rischi fisici come urti, collisioni, schiacciamenti, lesioni e impigliamenti ma soprattutto c’è il rischio di un’intensificazione della prestazione lavorativa. Il Cobot lavora a partire da un programma informatico che incorpora i tempi ciclo delle operazioni. Il Cobot finisce per dare il ritmo delle operazioni e il lavoratore non può che adeguarsi. Questo vale anche se l’operaio può intervenire sull’interfaccia uomo-macchina perché non può toccare le informazioni dietro il governo del robot. Collaborare con il robot, quindi, significa subire la pressione per mantenere la sua stessa velocità e rispettare i tempi assegnati. A partire dalle inchieste condotte per la CGIL da Gaddi, l’autore può affermare che queste innovazioni tecnologiche ed organizzative non sono state concepite, progettate ed implementate per migliorare le condizioni di lavoro. 

  1. La contrattazione nelle fabbrica 4.0

Cosa bisogna fare a livello sindacale per affrontare queste novità nel lavoro operaio? Gaddi sostiene che formule come “contrattare l’algoritmo” molto di moda a livello sindacale non possano essere prese alla lettera. L’algoritmo è semplicemente una sequenza di istruzioni impartite ad uno strumento software per guidarlo da una serie di input all’output. Gli input e soprattutto gli output, ovvero l’obiettivo da raggiungere, sono esogeni rispetto all’algoritmo. Essi vengono decisi da qualcuno e per questo si tratta di un problema sociale e non tecnico. Al concetto di algoritmo è associato quello di informatica, ovvero la disciplina che si occupa delle tecnologie alla base dei processi di automatizzazione dei procedimenti risolutivi di problemi e dei metodi utilizzabili per rendere l’uso delle tecnologie più efficiente e affidabile. Alla base, dice Gaddi, c’è una decisione sociale, ovvero gli algoritmi e l’informatica sono strumenti che consentono di raggiungere rapidamente l’obiettivo stabilito. Il raggiungimento dell’obiettivo, sempre una scelta politica e sociale, dipende sempre di più da algoritmi processati dall’informatica. L’automatizzazione di simili processi significa delegare a strumenti automatici la soluzione di problemi che, partendo da una serie di informazioni a disposizione, richiedono la produzione di una nuova informazione. L’algoritmo è rappresentabile come un diagramma di flusso dove, partendo da una serie di dati e informazioni, per mezzo di una sequenza di operazioni da svolgere, è possibile arrivare ad un risultato. Dice Gaddi, se utilizziamo un algoritmo per definire i carichi di lavoro da assegnare ai lavoratori con l’intento di saturarli il più possibile, è ovvio che sarà strutturato utilizzando una serie di informazioni di partenza, come volumi di produzione da realizzare, termini temporali entro cui realizzare il tutto e personale a disposizione, prevederà una serie di condizioni, ad esempio la necessità di saturare il più possibile il tempo di lavoro, e definirà i carichi di lavoro che rispondono a quella finalità politico-sociale. Un esempio simile è il tentativo di un’azienda di esternalizzare o meno una fase produttiva. In questo caso l’obiettivo politico-sociale è l’abbassamento dei costi di produzione. In definitiva gli elementi che ci mette a disposizione Gaddi sono i dati di partenza, quindi gli input come i volumi di produzione o i tempi di consegna e i vincoli e gli obiettivi come la saturazione del tempo di lavoro e la riduzione dei costi di produzione. L’algoritmo che viene applicato a questi casi concreti ci dirà come è organizzato il lavoro con la massima saturazione possibile e quali fasi del ciclo esternalizzare per abbassare i costi di produzione. I linguaggi utilizzati dagli informatici per scrivere gli algoritmi e farli eseguire dai computer sono linguaggi di programmazione, Dentro questi linguaggi troviamo i linguaggi di alto livello che sono quelli più vicini al linguaggio naturale e devono essere tradotti in linguaggio macchina, ovvero un insieme di istruzioni che consentono al computer di eseguire tutte le operazioni di cui si compone l’algoritmo. Possiamo concludere che la definizione di un algoritmo e del programma di esecuzione sono aspetti puramente tecnici diversamente dagli obiettivi stabiliti che invece devono essere oggetto di contrattazione. Tuttavia per Gaddi software e algoritmi mostrano un segno di classe che deve essere analizzato. L’utilizzo di simili strumenti consente alle direzioni aziendali di spacciare come scientifiche ed oggettive le scelte che assumono. In questo modo vengono presentate ai lavoratori come il massimo della razionalità possibile e come tali non negoziabili e indiscutibili. Gaddi sostiene che più della contrattazione dell’algoritmo sia essenziale intervenire su altri aspetti. Per esempio la redistribuzione della ricchezza prodotta, il ruolo dei lavoratori nelle scelte di investimento, l’organizzazione della produzione e del lavoro. Per fare ciò è possibile fare leva sulla contrattazione di secondo livello ma una precondizione per contrattare bene è conoscere. Molti CCNL consentono di acquisire una serie di informazioni sulle trasformazioni del sistema produttivo, le tecnologie adottate e l’organizzazione del lavoro. Queste informazioni essenziali devono essere acquisite dai sindacati e dai delegati prima della loro applicazione in modo da contrattare tutto ciò invece di limitarsi a contenere gli effetti negativi di scelte già assunte dall’impresa. Un altro aspetto che dobbiamo tenere d’occhio è la facilitazione dei processi di esternalizzazione grazie alle tecnologie 4.0. Questo dato si innesta su un sistema produttivo già caratterizzato da catene del valore transnazionali in cui le imprese italiane sono ramificazioni di una struttura produttiva che spesso fa perno sulla Germania. Gaddi sostiene che sia necessario procedere con una contrattazione di filiera per garantire a tutti i lavoratori condizioni di lavoro comuni per contrastare i processi di decentramento e disarticolazione che si giocano unicamente sulle differenze retributive, contrattuali e di condizioni di lavoro. Inoltre si potrebbe iniziare a lavorare sulla formazione di un’unità di classe basata su obiettivi concreti, perseguibili e riconoscibili dai lavoratori. Un ultimo aspetto contrattabile sono i tempi, i ritmi e i carichi di lavoro. Una contrattazione dei tempi ciclo consente di evitare che vengano presentati come qualcosa di scientifico grazie alle operazioni condotte dal sistema MES. Infatti i tempi incorporati negli ordini di lavoro sono costruiti socialmente dalla direzione aziendale e perciò vanno discussioni al momento della loro definizione, prevedendo anche l’applicazione di tutte le possibili maggiorazioni come fattore fisiologico, fattore di affaticamente o posture e sforzi. Una contrattazione dei tempi potrebbe anche condurre ad una riduzione della saturazione migliorando le condizioni di lavoro e abbassando i carichi di lavoro. Abbassare la somma dei tempi attivi che possono essere assegnati al lavoratore per turno produce un abbassamento dei carichi di lavoro. Ciò produce conseguenze in termini di sicurezza perché viene ridotta la velocità delle lavorazioni consentendo una maggiore prudenza e attenzione e in termini di ergonomia e salute grazie alla riduzione delle frequenze e degli sforzi. In prospettiva tutto ciò apre alla possibilità di contrattare gli organici perché diminuire la saturazione porta ad una riduzione della quantità di lavoro che ogni lavoratore può svolgere durante il suo turno. Da ciò ne consegue che se l’azienda decide di lasciare inalterato l’organico, il volume della produzione complessivo si abbassa. Se vuole mantenere o aumentare il volume della produzione, l’azienda è costretta ad assumere. Merita un lavoro a parte tutto l’aspetto legato al controllo e alla raccolta dati che è parte integrante della fabbrica 4.0.

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