Utilizzare Marx per la critica dell’economia politica della tecnologia

Andrea Cengia nel libro Le macchine del capitale. Con Marx, per la critica dell’economia politica della tecnologia prova ad analizzare i nuovi strumenti tecnologici e le nuove tecnologie alla luce delle riflessioni marxiane. Lo scopo è raggiungere una teoria critica della tecnologia basata sul solco tracciato da Marx della critica dell’economia politica. Questa operazione consente di superare tutte le retoriche sulla rivoluzione digitale capitalistica del XXI secolo per riportare le analisi allo studio del modo di produzione capitalistico. 

  1. La tecnologia non è neutrale

Le riflessioni di Cengia partono dalla critica dei saperi che indagano gli effetti sociali delle trasformazioni tecnologiche poiché essi tendono a ritenere la cornice generale all’interno della quale sono determinate le relazioni sociali a base tecnologica come qualcosa di astorico e naturale. Tutti i punti di tensione, le contraddizioni, i potenziali conflitti generati dalle continue innovazioni tecnologiche vengono depotenziati da discorsi volti solo ad enfatizzare le imminenti svolte epocali a cui l’umanità è destinata grazie alla rivoluzione tecnologica del momento. Queste svolte sembrano essere annunciate da fenomeni come l’approdo dell’umano al postumano, oppure la fine del lavoro. Dobbiamo invece rispondere a queste narrazioni spostando il nostro sguardo attraverso una prospettiva critica per individuare i nodi problematici che sembrano crescere di giorno in giorno. Per fare ciò è necessario riprendere in mano Marx e sottoporre la tecnologia ad una lente interpretativa non tecnologica, ossia analizzarla tramite il punto di vista della critica dell’economia politica. Per Marx la tecnologia non è solo un processo unidirezionale e determinato di innovazione. Essa inevitabilmente richiama l’argomento dei processi produttivi e quindi, dal punto di vista marxiano, lo studio della loro trasformazione tramite la critica dell’economia politica. La tecnologia, di conseguenza, va sempre considerata nel suo legame istitutivo con la dimensione del produrre che finisce per plasmare la società e determinare una forma specifica di individui sociali. L’atto del produrre, tecnologicamente determinato, ha come effetto produrre una specifica forma di socialità. Quanto detto dovrebbe aver reso chiaro quanto sia importante l’intreccio tra il tema della tecnologia con quello della critica dell’economia politica. La tecnologia in Marx, inoltre, possiede tante accezioni. Infatti non si tratta solo di denunciare lo sfruttamento ma di descrivere una dimensione sociale drammatica in cui il mondo della fabbrica è di fatto un mondo capovolto, un inferno. Questo quadro teorico permette di superare l’assolutizzazione dei processi di innovazione, di proporre una critica dell’ideologia e una critica delle conseguenze individuali, sociali e politiche dell’affermazione dei processi economico-sociali ad alto contenuto tecnologico. Risulta evidente come la questione tecnologica abbia implicazioni che vanno ben oltre le sole questioni tecniche, toccando problemi sociali e politici e perciò non esiste una tecnologia che sia dia in sé. Essa è sempre il risultato dialettico delle condizioni economico-materiali dei processi produttivi e sociali. Una simile prospettiva permette di stare alla larga da una lettura integrata o apocalittica della tecnologia ma possiamo raggiungere un simile risultato unicamente tenendo conto della sua matrice storica e delle conseguenze teoriche dell’uso marxiano del termine tecnologia. La prospettiva adottata da Cengia prova ad individuare un collegamente tra le tesi di Koyré, ovvero pensare alla tecnologica come un’unione tra tecnica e scienza, e l’ascesa del modo di produzione capitalistico. Ormai è storicamente acquisito che con scienziati del calibro di Galilei e Newton si assiste ad un cambiamento nell’esperienza che ha permesso una particolare convergenza tra scienza e tecnica, generando una sintesi avente come risultato la rivoluzione scientifica che ha qualificato la modernità. Da qui si diramano due configurazioni. La prima è il prodotto della convergenza tra tecnica e scienza mantenute per ragioni eterogenee separate in passato. La seconda emerge quando a questi due elementi si uniscono il cameralismo come disciplina di governo e l’orizzonte del modo di produzione capitalistico. La prima configurazione storica produce una specifica tecnologia definibile come un orizzonte tecnologico che opera a partire dalla rivoluzione scientifica mentre la seconda produce un risultato specifico, ovvero la tecnologia del modo di produzione capitalistico. Questo passaggio fa emergere tutta una serie di fondamentali riflessioni. Per prima cosa la tecnologia che emerge non è neutrale. La tecnologia la dobbiamo considerare come un vettore figlio di una molteplicità di componenti convergenti. L’esito, in quanto vettore, non può che essere una specifica declinazione. Secondariamente questo risultato finisce per retroagire in maniera specifica sulle sue componenti con il risultato di spingerle verso il lavoro al servizio del processo di valorizzazione. Il modo di produzione capitalistico è capace di fare buon uso di tutto ciò che si trova attorno ad esso. Questo ragionamento vale in linea generale perché non possiamo escludere che qualche sapere della scienza possa comunque produrre tecniche e prodotti tecnici fuori dai processi di valorizzazione oppure che questi possano emergere in ambiti diversi dalle pratiche del mondo produttivo. Tuttavia è molto complicato perché nel tempo presente è difficile produrre saperi e prodotti tecnologici senza il sostegno di grandi quantità di capitali. In terzo luogo occorre soffermarsi sulle modalità con cui emerge una specifica configurazione tecnologica in un tempo storico cosa che dimostra la dinamicità del processo e lascia la porta aperta a ulteriori possibili configurazioni. Quest’ultime possono prendere molte forme, ad esempio il risultato dell’accelerazione dell’attuale configurazione tecnologico-scientifico oppure la ridefinizione del peso del comando politico. In altre parole, sono possibili altre forme tecnologiche, la tecnologia non è mai neutra e il suo valore non dipende solo da chi la usa e la possiede visto che essa non è mai un dato di partenza ma è sempre da intendere come una configurazione di fattori. Cengia dice che la tecnologia non è un presupposto ma un posto del pensare e dell’agire umano. Si tratta di una riflessione molto importante perché serve a perimetrare un discorso sull’uso capitalistico di scienza e tecnologia che non è un discorso sulla tecnica. Viene fatta una separazione semantica tra tecnica e tecnologia, cioè adottare due diverse prospettive sul problema socio-politico del nostro tempo. La prospettiva della tecnica trasforma il tema politico in una metafisica mentre la seconda individua il luogo teorico capace di descrivere la specificità di una prospettiva politica e apre, in questo modo, ad un suo ripensamento. Riflettere sul precipitato di una specifica configurazione permette di analizzare le possibilità non ancora esplorate e le nuove configurazioni e potenzialità possibili. Se Marx analizza l’ora del macchinario lo fa per analizzare sul piano storico le ragioni capitalistiche che hanno portato alla loro introduzione che, se entriamo nei particolari, deriva dalle lotte dei lavoratori inglesi. Le macchine non sono altro che la forma assunta dal lavoro in fabbrica e sono un esito determinato dal vettore nato dall’unità di scienza, tecnica e capitalismo. Di conseguenza lo sfruttamento mediante la macchina del lavoratore è il risultato della combinazione di questi elementi ma se guardiamo tutto ciò in controluce possiamo vedere che questo esito ne mostra altri. Ogni configurazione, essendo un prodotto storicamente determinato, può essere superato magari partendo dal fatto che la sua sintesi non è stabile. Questa instabilità, però, non può essere individuata dalle letture heideggeriane molto di moda con tutti i loro discorsi metafisici sulla Tecnica. La prospettiva di Heidegger è incentrata su un paradigma ontologico. I suoi discorsi sulla tecnica scartano dalla dimensione tecnica a quella di tipo ontologico. Il risultato è scambiare una configurazione specifica, dominante e contingentemente prevalente come qualcosa di politicamente e tecnologicamente necessario e senza alternative. Questo riduce a zero le possibilità politiche tramite la costruzione di una possente armatura ideologica di filosofia della storia. 

Tornando a Marx, Cengia sostiene che sia l’unico filosofo ed esperto di economia che conosce veramente la radice storico-culturale tedesca del tema della tecnologia. Viene ripreso un discorso sulla tecnica, sul sapere e sulla tecnologica che si esprime in un preciso di modo di osservare, conoscere, imparare a trattare gli oggetti naturali, cioè di trasformazione della natura, che ha una finalità ordinata e un intento sistematico che si ritrova interamente nell’elaborazione marxiana della critica dell’economia politica del Capitale. Marx combina il concetto di sapere sistematico della Technologie tedesca con la dimensione sociale e storica del modo di produzione capitalistico e della sua economia politica. Si tratta di una determinazione dei concetti sia dal punto di vista delle differenze che delle loro relazioni. Il discorso sulla tecnica e sulla tecnologia che emerge è di tipo storico e non ontologico. Il risultato è la possibilità di maneggiare un concetto come quello di tecnologia fortemente qualificato per il suo carattere storico-politico. Marx allora finisce per adattare il concetto tedesco di Technologie alla grande fabbrica che diventa il luogo della sintesi tra tecnica, scienza e potere politico del capitale sul lavoro vivo. Questo uso marxiano del concetto di tecnologia permette di analizzare i processi produttivi in quanto luoghi dove operano forme tecnologiche specifiche che sono una sintesi di tecnica, scienza e razionalità valorizzante. Technologie diventa, nello spazio della produzione, un concetto della produzione. La tecnologia nel modo di produzione capitalistico diventa un sapere specifico in grado di organizzare le attività produttive, grazie alla tecnica e alla scienza, dentro un processo di crescita apparentemente senza freni perché alimentato dalle esigenze sociali dell’industria moderna. Per Marx la grande fabbrica è portatrice di una grande novità, cioè non considerare la dimensione tecnica un elemento conservatore. Essa è rivoluzionaria nella grande fabbrica perché diversamente dal passato si trova all’interno di un quadro generale di trasformazioni finalizzate alla valorizzazione. Dentro il modo di produzione capitalistico la forma del processo produttivo, le sue basi tecniche, sono pensate in maniera razionale, cioè all’interno di un logos e di conseguenza sono tecno-logiche. In Marx la tecnologia prende la forma di un discorso politico sulle tecniche e sui saperi funzionali al raggiungimento di specifici obiettivi di dominio, nello Stato e nella fabbrica. Quindi l’uso marxiano del concetto di Technologie non è tanto un focus sull’aspetto tecnico e sulla strumentazione della grande fabbrica ma l’orizzonte razionale capace di definire le modalità di svolgimento del processo di lavoro con il fine di produrre plusvalore. Diversamente il concetto di tecnica mantiene, anche storicamente, un rilievo di natura sociale ma la sua socialità è molto ristretta perché non aggiunge un logos e di conseguenza non rende impersonale la propria forma di conoscenza.

Ampliando il ragionamento sul rapporto tra tecnologia e modo di produzione capitalistico troviamo che esso si caratterizza per la capacità di mettere al proprio servizio tutte le risorse disponibili, dalla terra alla tecnica fino ai saperi della scienza. La tecnologia diventa la sintesi determinata del comando politico capitalistico che rende tutti gli elementi sfruttati funzionali alla valorizzazione. Questo però non significa che non esistano spazi di resistenza accanto a spazi di controllo sociale tecnologicamente organizzato. Queste riflessioni consentono di trarre alcune osservazione sul ruolo della razionalità nei processi di valorizzazione. Per Cengia essa porta ad una ridefinizione dello spazio del sapere tecnico dentro un ordine sistematico che potenzialmente può fare a meno della mano dell’uomo. Marx, studiando questo particolare aspetto della scienza e della tecnologia, riconduce una simile razionalità al comando generale della legge del valore mentre dall’altro lato indaga in molte occasioni tutti i limiti e le contraddizioni di questo processo, in particolare criticando la possibilità di una tecnologia emancipata dal lavoro vivo. Inoltre Cengia sottolinea come la Technologie non agisce nel modo di produzione capitalistico solo sulla produzione ma finisce per retroagire anche sulla stessa scienza come hanno intuito Ciccotti, Cini, De Maria in L’ape e l’architetto. Paradigmi scientifici e materialismo storico dove viene evidenziato come la ricerca scientifica sia pesantemente rideterminata se non direttamente sussunta all’interno della razionalità generale dei processi di valorizzazione in un processo che non salva neanche la scienza pura. Gli autori colgono la rappresentazione novecentesca dello stesso processo che Marx coglie a partire dalla grande industria. Lo scopo della Technologie, allora, diventa di natura razionale dentro un contesto storico-sociale ben definito, cioè sistematizzare le pratiche umane artigianali in un sapere razionalmente fondato, senza frammentazioni, disponibile, pubblico e separata dalla sua dimensione artigianale. In poche parole è l’obiettivo poi raggiunto nel Novecento da Taylor nonché lo scopo immanente della divisione del lavoro legata ad una strategica organizzazione razionale della conoscenza secondo un comando. Un processo simile è presente anche nell’epoca dell’intelligenza artificiale che viene alimentata da una importante massa di lavoro vivo che accresce il lavoro morto reso disponibile all’algoritmo. La rivoluzione digitale e informazionale sono un elemento derivato, funzionale alla dimensione politica dei rapporti di potere e comando personificati dai capitalisti, dagli amministratori delegati e da chiunque eserciti una funzione di comando finalizzata alla valorizzazione del valore. Cengia dice che l’accumulo di dati e di informazioni presente nell’Infosfera sono utilizzati dal processo produttivo in vista di altro. La tecnologia, assumendo un particolare significato nel processo produttivo del modo di produzione capitalistico, si dimostra subordinata al processo di accumulazione capitalistico. Quindi la tecnologia in Marx non agisce in un processo separato ma è interno ai processi di valorizzazione che la limitano o spingono più in là. Un altro elemento centrale nella Technologie è la capacità di assumere valore quando si propone come elemento unificante della pluralità dei modi di lavorare le cose naturali. La Technologie finisce per svolgere il ruolo di sussunzione conoscitiva per conto terzi. 

Ritornando al concetto di Technologie come un orizzonte determinato secondo una specifica forma di potere politico, Cengia sostiene che la forza unificatrice e poietica realizzata dal nuovo sapere tecnologico porta ad un nuovo assetto di relazioni umane e all’eliminazione delle vecchie figure sociali che portano alla nascita di nuove individualità sociali come il lavoratore salariato. Questo processo non è casuale perché nuovi bisogni portano alla ricomposizione del quadro sociale secondo forme nuove che mantengono alcuni elementi di continuità con il passato nella pur presente rottura con le consuetudini sociali. In questa situazione troviamo la possibilità dell’applicazione cosciente alla tecnologia della scienza che porta a due conseguenze. Primariamente, la tecnologia diventa un elemento politicamente orientato che risponde ad un preciso ordine socio-politico orientato verso un fine. In secondo luogo, questo porta alla necessità di possedere delle precise categorie interpretative al fine della comprensione. Questi elementi consentono di comprendere il lavoro di Marx che, osservando l’orizzonte tecnologico del modo di produzione capitalistico, analizza il senso del suo fondamento tecnico senza restare incantato dalla meraviglia o dal timore prodotto dagli artefatti materiali. Da ciò ne consegue che in Marx la tecnologia non è solo una sorta di saper fare per mezzo di strumenti ma è un discorso sul saper fare. Nel capitalismo ciò si traduce in un discorso impersonale che permette il massimo dispiegamento e della sussunzione del lavoro vivo in vista della valorizzazione del valore. Una delle conclusioni a cui si giunge tramite un simile ragionamento è che le macchine sono un problema di rapporti di potere, sono l’appendice materiale dei processi tecnologici legati ai processi di produzione. Le macchine diventano il volto visibile dello sfruttamento dei lavoratori. Questo ci porta ad affermare che rivolte come la protesta luddista sono comprensibili solo sul piano immediato, cioè nell’azione che colpisce l’oggetto capace di rubare il lavoro al lavoratore o incrementa il ritmo della propria attività, ma risulta inefficace dal punto di vista teorico e politico. La prospettiva di Marx ci mostra come il ragionamento intorno alla tecnologia debba essere di ordine politico e non tecnologico, altrimenti si confonde la tecnologia con l’ideologia. Questa confusione è evidente nel modo in cui gli economisti borghesi pensano al tema del macchinario sotto la forma di una rappresentazione astratta, apologetica e priva delle contraddizioni tra potenza tecnica del macchinario e il suo uso capitalistico. Una simile conclusione deriva dal fatto che l’economista borghese derubrica a danno collaterale gli inconvenienti temporanei che sorgono dall’uso capitalistico delle macchine. Per l’economista borghese è impossibile utilizzare il macchinario in modo diverso da quello capitalistico. Un’altra conclusione che possiamo trarre da queste critiche è che non possiamo osservare i processi di innovazione tecnologica a partire dalle apparenze perché lo sfruttamento si svolge nella forma dell’organizzazione del produzione, nel comando dietro il processo di valorizzazione, nelle modalità organizzative e tecnologiche del processo produttivo. Le macchine non producono il passaggio dalla sussunzione formale a quella reale. Dietro questo salto si cela l’ottimizzazione tecnologica prodotta dal comando capitalista che impone un differente sfruttamento tecnologico delle macchine in base alle diverse condizioni normative. Lo sfruttamento non è operato solo dalle macchine ma coinvolge anche questioni di ordine sociale e politico da sottoporre alla lente della critica dell’economia politica. La tecnologia è l’utilizzo della scienza, del sapere, secondo un ordine razionale e un comando. A contrapporsi ai lavoratori, quindi, non sono le macchine ma un complesso apparato complessivo composto dagli apparati produttivi di cui dispone il sapere tecnologico personificato dal singolo capitalista e dal suo comando. 

L’argomento del dominio esercitato dal modo di produzione capitalistico sul lavoro vivo ci riporta, inevitabilmente, alle lezioni operaiste di Raniero Panzieri. Questo geniale innovatore del marxismo ci ricorda come i lavoratori, per elaborare le loro rivendicazioni, debbano determinare il livello politico-tecnologico raggiunto dal modo di produzione capitalistico. Quest’analisi avviene al livello del capitale, cioè partendo dalla lettura delle specifiche condizioni della composizione organica del capitale. Ne consegue che i temi posti dalla tecnologia hanno dei referenti esterni che sono portatori di un orizzonte politico al cui interno trovano spazio tutti gli elementi che determinano la sfera della produzione, cioè la combinazione tra capitale costante e capitale variabile. Cengia sostiene che il processo lavorativo è il valore d’uso della tecnologia e ne consegue che le implicazioni della tecnologia nel processo lavorativo sono orientate ad organizzare lo sfruttamento del lavoro vivo. Applicare la Technologie ai processi produttivi rende possibile la comprensione di questi processi come produttori di valori d’uso e di valori di scambio. In questo modo Marx sposta il suo oggetto dalla dimensione dello Stato a quello dell’economia. La tecnologia finisce per piegare e organizzare l’innovazione continua funzionale al processo di accumulazione che porta con sé l’esigenza di unificare e razionalizzare il processo produttivo fino a rendere il tutto conforme alla scienza della tecnologia. 

Queste riflessioni sul nesso valorizzazione-tecnologia portano in Marx ad alcune problematiche riguardo alla possibilità politica di un controllo operaio delle macchine. Le macchine, anche quando sono un’invenzione di un singolo genio, vengono velocemente sussunte nel sistema produttivo, assumendo un valore politico non neutrale. Le macchine a la tecnologia sono attratte dal capitale e, sotto la forma del macchinario, si schierano al suo fianco. Il problema non sono le macchine, capaci di alleviare le fatiche dell’uomo, ma il loro uso capitalistico come dimostra Marx nel Capitale con l’aumento dello sfruttamento dei lavoratori per mezzo dell’introduzione e la presenza del sistema delle macchine nella grande industria che incrementano la loro sussunzione reale. Nonostante ciò Marx non disconosce mai le potenzialità di liberazione delle macchine e della tecnologia. La dialettica tra uso capitalistico delle macchine e uso non capitalistico apre problemi teorici e pratici molto complessi. Serve individuare il modo affinché le diverse forme tecnologiche non producano effetti di sussunzione reale. Marx indica che nella società comunista le macchine avranno il maggiore uso possibile rispetto alla società borghese, un punto di arrivo che lascia aperte, dice Cengia, molte questioni tra cui la descrizione di un uso non capitalista delle macchine. Un primo passo potrebbe essere l’appropriazione della proprietà delle macchine e il loro comando da parte dei lavoratori. Tuttavia Marx non si ferma qui e nelle sue riflessioni si intravede un problema: parla nelle opere mature della macchine che operano nel modo di produzione capitalistico o un orizzonte macchinico diverso? Possiamo accontentarci di un controllo operaio sulle macchine, sull’intelligenza artificiale e sugli algoritmi oppure dobbiamo ridefinire tutto ciò sin dalle radici in quanto forme tecnologiche capitalisticamente orientate? Il problema è irrisolto. 

  1. La composizione organica e la tecnologia tra Adorno e gli operaisti

Cengia sostiene che uno dei risultati più importanti della sua ricerca è la critica di tutte le narrazione “post” utilizzate per descrivere la società in cui viviamo. La prospettiva della critica dell’economia politica permette di analizzare i punti di continuità nel modo di produzione capitalistico nel suo divenire storico-sociale che sono maggiore dei punti di discontinuità. La tanto decantata digitalizzazione, combinando reificazione e messa a valore delle relazioni sociali, assume i contorni di una incessante valorizzazione basata sul colonialismo dei dati mirante ad appropriarsi del maggior numero possibile di aspetti della vita umana. Per sviluppare ulteriormente queste critiche viene proposto l’utilizzo del concetto marxiano di composizione organica del capitale che serve per capire come il capitale influenzi la sorte dei lavoratori. A causa del processo di valorizzazione il capitale finisce per modificare le proporzioni delle parti di cui è composto. Solitamente ciò si traduce in un aumento della parte costante, cioè il capitale accumulato sotto forma tecnologica, rispetto a quella variabile, ovvero la forza lavoro. La trasformazione della composizione organica del capitale produce la continua determinazione e rideterminazione del marxiano individuo sociale. Nel ragionamento di Cengia questo processo si aggiunge alla reificazione. Quest’ultima finisce per definire i lavoratori nei processi produttivi rispetto alle forme di sussunzione mentre la composizione organica del capitale ha il ruolo della variabile indipendente nella formazione dell’individuo sociale. A interessarci quindi è soprattutto la tensione tra mezzi di produzione e forza lavoro. I cambiamenti tecnologici rideterminano continuamente il ruolo e le condizioni di lavoro e di vita del lavoro vivo. A queste riflessioni marxiane si accoda Adorno con l’aforisma Novissimum organum contenuto in Minima moralia dove il concetto di composizione organica del capitale è messo in relazione a quello di composizione organica dell’uomo. Per Adorno il problema della composizione organica del capitale non è astratto ma dipende da specifiche determinazioni che hanno prodotto l’operaio in quanto tale. Il riferimento è la teoria dell’accumulazione capace di generare un’integrazione della società a partire da precise forme tecnologiche del processo di produzione, cioè la combinazione di processi di accumulazione e le dinamiche di trasformazione tecnologiche. Le conseguenze di questa prospettiva sono, innanzitutto, la determinazione degli individui da processi a loro esterni. In questo modo viene confermato che la modificazione della composizione organica del capitale, fortemente dipendente dalla legge del valore, produce effetti sull’individuo e le rappresentazioni sociali. Nel contesto sociale tecnologicamente avanzato in cui viviamo ciò si traduce in rappresentazioni volte a delineare il superamento della dimensione materiale a favore di quella informazionale oppure l’idea che gli ultimi progressi in campo informatico siano l’approdo definitivo delle invenzioni umane. Simili immagini del mondo sono una conseguenza della presenza sociale e individuale degli stravolgimenti causati dalla rivoluzione tecnologica delle società capitalistiche del XXI secolo. In questo modo Adorno individua nella modificazione dei processi produttivi ad alto contenuto tecnologico e macchinico una delle origini delle trasformazioni sociali nei regimi democratici postbellici in cui i soggetti sono sempre più determinati come elementi parziali nel contesto della produzione materiale. La relazione tra individui, tecnologia e oggetti tecnici produce nella sfera della produzione e della circolazione una rideterminazione delle pratiche e delle convinzioni sociali degli individui in una nuova forma. Tuttavia, se le forme tecnologiche, come abbiamo già detto, non sono neutrali, non lo sono neanche gli effetti che producono sugli individui. Le trasformazioni tecnologiche a cui stiamo assistendo sono spinte in prevalenza dagli interessi economici legati ai processi produttivi e di conseguenza non ci troviamo davanti ad uno sviluppo tecnologico autonomo dai processi di valorizzazione. Questo processo viene definito da una trasformazione economico-sociale riguardante le coordinate spaziali e temporali del modo di produzione capitalistico che si riconfigura costantemente nel rapporto tra macchine e lavoro vivo e quindi tra tecnologia e società. Adorno rintraccia, a partire da questo dato, una proporzionalità diretta. Le esigenze tecnologiche dei processi produttivi portano all’espansione degli spazi di reificazione che riguarda i soggetti umani nella sfera della produzione e della circolazione. Il processo di accumulazione si riverbera sulle soggettività umane con il risultato di ridefinire il contesto di vita, di comprensione, di rappresentazione e di vita. L’accrescimento tecnologico è uno dei principali fattori che generano una trasformazione nel modo di produrre, vendere e consumare nella nostra società. Il risultato, per Adorno, è l’affermazione dell’homo consumericus, un turbo-consumatore adatto all’attuale civiltà del desiderio. L’individuo finisce per essere un semplice riflesso dei rapporti di proprietà e in questo processo di reificazione ha un ruolo centrale la tecnologia che trasforma i lavoratori in strumenti di produzione. Ovviamente Adorno non ammicca mai ad una essenza dell’uomo intaccata dal processo di determinazione sociale dei soggetti. Gli uomini non sono affetti da una malattia individuale ma da un prodotto sociale che è legato al tema dell’immagine del mondo.  La composizione organica del capitale produce una composizione organica dell’uomo e quindi una rappresentazione del mondo che Cengia definisce come composizione organica della materia. Non si tratta di qualcosa di naturale ma di un prodotto dell’immagine del reale che emerge a causa della composizione organica del capitale. Questi processi hanno una natura storico-sociale che si esprimono nella trasformazione della forza lavoro in merce. La richiesta sociale di questo cambiamento genera un processo sociale che ha effetti sociali e individuali. La meccanizzazione/tecnicizzazione accelera il processo di trasformazione della forza lavoro in merce ricreando in maniera circolare le premesse della possibilità del modo di produzione capitalistico. La composizione organica dell’uomo ridetermina le forme della riproduzione sociale reificandole e imponendo un adattamento della volontà di vivere dell’uomo rispetto agli imperativi dell’organizzazione totale. Questo processo viene definito da Adorno come adattamento fondamentale e ha lo scopo di annullare ogni vita nella soggettività rendendo epifenomeno ogni adattamento particolare e conformazione descritto dalla psicologia sociale o dall’antropologia culturale. Tutto ciò si realizza all’interno della sussunzione reale descritta da Marx nel Capitale ed è tecnologicamente determinato. Il problema di queste tesi è che non riescono a vedere bene la prospettiva di Marx capace di mettere in relazione le variazioni della composizione organica del capitale con le forme di lotta opposte dal lavoro vivo. Questo aspetto non trova spazio nel discorso di Adorno sulla composizione organica dell’uomo. La sua diagnosi esclude una dimensione storico-politica della possibilità della trasformazione sociale e non riesce a collegarsi al tema della fabbrica e della dimensione politica della lotta dei lavoratori. Per cogliere meglio il ruolo della tecnologia oggi è necessario tenere conto delle forme di accelerazione tecnologica, visto che i cambiamenti nella composizione organica del capitale e dell’uomo non producono effetti neutrali, e il luogo teorico e fisico dove emerge facilmente la non neutralità delle spinte tecnologiche è la fabbrica. Per questi motivi occorre fare riferimento all’operaismo. 

Uno dei pionieri di questa lettura eretica di Marx è stato Raniero Panzieri che pose le basi del discorso teorico, politico e sociologico del neocapitalismo, cioè della forte accelerazione dello sviluppo tecnologico delle realtà produttive del nostro paese. Questo argomento favorì la ripresa delle categorie del Libro I del Capitale per decodificare le trasformazioni in corso. Panzieri è anche colui che pone l’accento sull’idea marxiana dell’uso capitalistico delle macchine in polemica con l’idea di uno sviluppo tecnologico inteso come progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Questa è la narrazione che si andava diffondendo sul neocapitalismo ed era decisamente lontana dalle fabbriche studiate da Panzieri e il suo gruppo riunito intorno ai Quaderni Rossi. Per gli operaisti l’immissione di forme di automatismo tecnologico nelle fabbriche non è qualcosa di neutrale ma è la manifestazione di una precisa direzione economica e politica dei processi produttivi con l’intento di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Questo aspetto è colto con lucidità da Mario Tronti in La fabbrica e la società dove viene descritta la capacità del capitale di comprendere l’esistenza di un’unità tra processo lavorativo e di valorizzazione. Tanto maggiore è questa consapevolezza e tanto più la forma capitalistica della produzione è capace di impadronirsi di tutte le altre sfere della società invadendo l’intera rete dei rapporti sociali. Si tratta di un processo di sussunzione del sociale che genera rappresentazioni del reale sincronizzate con i processi produttivi. Esse si traducono in una diffusione sociale di descrizioni naturalizzate. Da ciò possiamo dedurre che la tecnologia non è solo la possibilità di acquistare televisioni, auto e frigoriferi ma anche una trasformazione dell’orizzonte sociale, in particolare nella fabbrica, attraverso un maggiore sfruttamento nella forma della sussunzione reale. Questi cambiamenti, inoltre, portano ad una specifica immagine del mondo che agisce come conferma ideologica del carattere ineluttabile e benefico delle trasformazioni in corso. Il discorso viene ulteriormente ampliato da Romano Alquati che spinge l’indagine verso lo studio del rapporto tra capitale e lavoro nel mondo della fabbrica, scendendo nei marxiani segreti laboratori della produzione. In sintonia con le tesi di Adorno, allora, assume una certa importanza il rapporto tra variazione della composizione organica del capitale e della composizione organica dell’uomo. Per comprendere questo legame Alquati elabora concetti come capacità umana vivente, derivante dalla marxiana forza lavoro, oppure categorie come lavoro umano specifico con cui indicare qualunque attività umana che viene inclusa nell’accumulare capitale. Un altro concetto utilizzato da Alquati è quello di lavoro autoriproduttivo, cioè lavoro specifico con cui auto-riproduciamo noi stessi, fortemente legato all’impatto delle trasformazioni tecnologiche sugli individui. Ci ritroviamo, dice Cengia, in una doppia subalternità perché la riproduzione degli umani serve unicamente allo sviluppo del domino, della tecnoscienza, dei mezzi artificiali e del macchinario artificiale. Per Alquati noi abbiamo, senza averne realmente il possesso, una capacità produttiva di capitale e sviluppatrice di tecnoscienza. Questa capacità viene sussunta in un meta-fine dal modo di produzione capitalistico. Alquati, quindi, rimette al centro del discorso le implicazioni delle trasformazioni tecnologiche di fabbrica in relazione all’importanza della dimensione autoriproduttiva. Tra la modificazione della composizione organica del capitale e il loro impatto sulla forza lavoro si apre lo spazio teorico che può portare a forme di antagonismo politico. Per raggiungere questo obiettivo, cioè ridare fiato alla lotta di classe, bisogna partire dal fatto che oggi il lavoro vivo si trova a dover ridefinire le proprie attività e il proprio rapporto con un processo produttivo caratterizzato da automazione e fluidificazione. Ciò è possibile solo grazie al generale orizzonte tecnologico di fabbrica. A livello del processo produttivo analizzato da Alquati, l’automazione è il metodo generale di organizzazione dei rapporti di produzione. Il lavoro vivo si automatizza, fluidifica e reifica con il risultato di generare effetti sociali di trasformazione della composizione organica dell’uomo. La realtà sociale analizzata da Alquati è molto distante dalla nostra dal punto di vista della conflittualità ma tuttavia, nel contesto di atomizzazione del lavoro presente già nel neocapitalismo e ulteriormente sviluppato in Industria 4.0, è ancora possibile individuare uno spazio embrionale di potenzialità politica. Il lavoro vivo deve essere sempre rideterminato a causa delle necessità di adattamento rispetto alle modificazione tecnologiche ma, a partire dalla tensione tra lavoratori e tecnologia, è possibile ricostruire lo spazio per la coscienza politica e di emancipazione. In questo lavoro, però, è necessaria la presenza di una guida teorica. Privati di uno sviluppo ricompositivo di un’azione rivoluzionaria l’operaio non riesce a cogliere, dice Alquati, la vera funzione del complesso delle microfunzioni, spesso contraddittorie perché allo stesso tempo vi troviamo sviluppo e conservazione e, quindi, tutte le contraddizioni di fondo del sistema. Qui ritroviamo il rapporto tra teoria e pratica nel momento in cui Alquati tocca il tema della questione della coscienza della forma reificata dei rapporti produttivi e riproduttivi del capitale. Dal momento in cui il capitale è lavoro sociale accumulato e la macchina è lavoro sociale incorporato, ne consegue che il progresso tecnico politicamente orientato coincide con la trasformazione organizzativa del lavoro. Cengia sostiene che in questo modo Alquati anticipa il ruolo dell’informazione nella sua articolazione cibernetica. Il flusso di informazioni consente un maggiore controllo dei processi produttivi, anche facendo a meno di un grande numero di capi, portando ad una riconfigurazione dell’intero processo. L’automazione, di conseguenza, non elimina le contraddizioni tra capitale e lavoro ma diventa il nodo politico delle contraddizioni perché è legato all’accelerazione e amplificazione delle forme di reificazione subordinate alla valorizzazione del processo produttivo. Per Alquati la tecnologia mostra come la valorizzazione e le figure umane che producono plusvalore non sono legate ad un progresso sociale condiviso bensì a tensioni tra forme sociali differenti originate da processi di produzione materiale del valore. Tutto ciò è inevitabilmente legato al tema della fabbrica e dello sfruttamento al suo interno, alla lotta operaia e alla sua politicizzazione. In questo contesto la tecnologia, cioè informazione razionalmente organizzata e amministrata, è la premessa della possibilità del lavoro produttivo. Stiamo parlando di un’attività sociale in cui l’elemento informativo-cooperativo è fondamentale anche quando non viene pagato perché appartiene a quello che Alquati definisce natura non pagata della cooperazione. La cooperazione, diversa dalla collaborazione, ci permette di affermare come solo il lavoro vivo è capace di introdurre nel circuito le informazioni valorizzanti. La forza-lavoro vivente dell’operaio complessivo è capace di aumentare la produttività del capitale ed è un tema di grande attualità nell’epoca in cui il lavoro vivo alimenta con i dati il lavoro morto delle macchine digitali, intelligenza artificiale inclusa. Quindi, il modo di produzione capitalistico ad alto contenuto tecnologico è una sussunzione di largo spettro che porta ad una produzione su vasta scala di rapporti sociali reificati di cui la tecnologia è un potente fattore di moltiplicazione. Cengia sostiene che è possibile smascherare il mito della neutralità dei processi tecnologici partendo dalla razionalizzazione in quanto applicazione di strumenti scientifico-matematici all’organizzazione del lavoro meccanizzato. Siamo davanti al legame tra capitalismo, scienza e tecnologia. Se allarghiamo lo sguardo alle nuove tecnologie grazie ad Alquati possiamo notare come esista una sorta di stratificazione tecnologica. Le nuove tecnologie non subentrano meccanicamente alle precedenti. Spesso queste novità aiutano il processo di sussunzione avviato da altre tecnologie, pensiamo solamente al processo cibernetico dei feedback che non ha un ruolo del tutto nuovo rispetto ai meccanismi di sfruttamento del XIX secolo. Si tratta, infatti, della disponibilità politica al ruolo subordinato di capitale variabile che consente alle informazioni di essere valutabile in bits nella loro efficienza produttiva. La cibernetica, possiamo quindi affermare, come altre forme tecnologiche serve ad ingabbiare il lavoro vivo consentendo una ristrutturazione del capitale costante e dei metodi gestionali nella fusione di tutte le tendenze politiche reificanti e atomizzanti. Anche se la cibernetica spinge verso una maggiore socializzazione tecnologica del lavoro, in realtà sviluppa anche un maggior isolamente politico del lavoratore. Paradossalmente tutte le innovazioni tecnologiche basate su cibernetica o algoritmi mentre incrementano i processi di interscambio informativo tra i lavoratori aumenta l’isolamento sociale. L’ibridazione uomo-macchina stringe i lavoratori in una gabbia comunicativa dei processi di valorizzazione mentre impoverisce le loro potenzialità. L’informazione, quindi, nelle fabbriche moderne è piegata nelle sue varie forme agli interessi della produzione. Partendo dalla centralità della fabbrica, l’informazione ha un valore in quanto è legata ai processi produttivi e da qui si estende sul piano della circolazione. Le riflessioni di Alquati ci consentono di dire che non siamo giunti in un’era postmoderna ma ipermoderna, cioè di modernità accelerata. 

  1. Altre note sulle nuove tecnologie

Il lavoro vivo rimane ancora oggi essenziale per l’operatività della tecnologia avanzata, anche nel caso dell’intelligenza artificiale che è un’espressione non neutra del general intellect. Quest’ultimo viene sussunto nell’uso capitalistico delle macchine. La tecnologia nel modo di produzione capitalistico ha come obiettivo sussumere il maggior numero possibile di dati che sono prodotti dal lavoro umano, spesso sottopagato. Le pratiche relazionali dei lavoratori e dei consumatori, come le scansioni biometriche dei movimenti nel processo produttivo dei lavoratori sono pezzi di una conricerca al contrario portata avanti dalla tecnologia per emulare i lavoratori. Il grande salto del capitalismo dell’era dell’informazione è figlio dell’ennesima accumulazione originaria che affianca alla precedente una nuova forma di accumulazione. Questa fase del capitalismo non elimina il fatto che ad alimentare il lavoro morto è sempre il lavoro vivo composto da lavoratori salariati dislocati tanto nel Nord che nel Sud globale. Il futuro luccicante della rivoluzione informatica, inclusa l’intelligenza artificiale, si basa sullo sfruttamento della forza lavoro, come è accaduto anche in altre fasi contraddistinte da salti tecnologici del capitalismo. Abbiamo a che fare con un non nuovo processo di mercificazione della forza lavoro che trova nelle nuove tecnologie modi sempre più sofisticati per aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Permane intatta la contraddizione tra lavoro morto e lavoro vivo anche in una società ad alto contenuto tecnologico. Serve una sintesi di indagine sul campo e di concettualizzazione teorica per fare piazza pulita di tutte le paccottiglie ideologiche sul rapporto tra tecnologia e capitalismo che, per esempio, non ha prodotto una fabbrica totalmente automatizzata. Tutti i discorsi sull’automazione in Industria 4.0 non sono altro che indebite generalizzazioni di processi molto complessi e articolati che portano a rappresentazioni rovesciate di ciò che realmente accade in fabbrica, nascondendo in questo modo le forme di sfruttamento e l’attacco ai diritti sociali dei lavoratori. Sono i risultati di una vera e propria ideologia della tecnologia incapace di vedere i limiti e gli elementi critici degli sviluppi tecnologici infatti non esiste alcuna generalizzazione incondizionata dei processi di automazione come vorrebbe far intendere il dibattito sul tema che è assolutamente lontano dai processi materiali della produzione e della circolazione. Queste conclusioni sono possibili solo utilizzando un sapere critico della tecnologia che riporta i processi di innovazione tecnologica dentro i processi produttivi. L’operazione in questione consente anche di analizzare l’uso capitalistico delle macchine e di capire come esse non abbiano come principale scopo ridurre la fatica dei lavoratori e neanche sostituire completamente l’uomo. La produzione automatizzata e governata dagli algoritmi non esclude il lavoro umano perché i processi produttivi con cui ci confrontiamo al momento non hanno generato né una liberazione dell’uomo né il superamento del lavoro umano. Gli interessi dell’accumulazione capitalistica non hanno sostituito la forza lavoro con forme tecnologiche ma hanno prodotto un incremento della sussunzione reale. Un altro elemento che Cengia aggiunge alla riflessione è il seguente: siamo sicuri che nel modo di produzione capitalistico la tecnologia sia solo una questione di ottimizzazione dei processi produttivi?

Per rispondere a questa domanda bisogna tornare al Panzieri di Plusvalore e pianificazione, saggio in cui il padre dell’operaismo spiega come il rapporto tra sviluppo illimitato delle forze produttive e il rapporto tra capitale costante e variabile pone il tema del carattere antagonistico della produzione capitalistica. Questo antagonismo è dato dal lavoro vivo e la lotta di classe diventa il limite allo sviluppo del capitale. Nella nostra epoca questa tensione tra capitale e lavoro si è risolta momentaneamente a favore del capitale grazie ad una profonda trasformazione tecnologica dei processi produttivi. Non si tratta di una novità. Marx, analizzando le conquiste degli operai inglesi per quanto riguarda la legislazione sulle fabbriche del XIX secolo, aveva ben presente la reazione padronale che ha portato ad intraprendere nuove strade a partire dalla nuova condizione creata dalla lotta di classe. Non avendo più la possibilità di allungare la giornata lavorativa, i padroni inglesi puntarono sull’accelerazione tecnologico-produttiva. La vittoria politica dei lavoratori non è mai definitiva ma è un momento della dialettica generale tra capitale e lavoro. Davanti alla lotta di classe il capitale reagisce ai suoi limiti attraverso nuove e più intense forme di sfruttamento. 

  1. Per una teoria politica della tecnologia

Cengia tira le somme cercando di delineare delle indicazioni per una teoria politica della tecnologia. L’autore sostiene come siano molto più rilevanti le somiglianze che le differenze tra il XIX e il XXI secolo. Le differenze sembrano essere maggiori se noi ci focalizziamo sulle singole macchine ma se spostiamo lo sguardo noteremo come le nuove tecnologie sono capaci di accelerare e di sussumere il lavoro vivo secondo uno schema che nel corso dei secoli non è cambiato. Inoltre, notiamo come la tecnologia sia capace di produrre sfruttamento, altro aspetto ignorato dal dibattito dominante sul tema. Cengia ribadisce come a partire dallo sfruttamento è possibile spiegare i processi tecnologici. Posti questi elementi di base, possiamo spingerci oltre analizzando la tensione costante e pervasiva alla sussunzione reale al cui interno, anche in una società ad alto contenuto tecnologico, è possibile l’esistenza di spazi di opposizione, resistenza ed emancipazione. Bisogna ribadire questo punto con fermezza nonostante la presa tecnologica nella nostra società sembra portare a strumenti e algoritmi ad alto grado di sussunzione capaci di restringere enormemente gli spazi politici. La tecnologia nel modo di produzione capitalistico non occupa tutti gli spazi di socialità e di vita disponibili e rimane in piedi la possibilità di un contro-uso di queste tecnologie da parte del lavoro vivo. Sono sicuramente fenomeni embrionali e saltuari di micropolitica ma sono anche la testimonianza della possibilità di una desincronizzazione dal valore d’uso della tecnologia in senso capitalistico. Questo ci deve spingere a pensare politicamente la tecnologia e a rappresentare dialetticamente la relazione contraddittoria tra sussunzione tecnologica del lavoro vivo e micro-uso che il lavoro vivo fa della tecnologia. Cengia dice che la tensione tra questi due poli è uno spazio politico e teorico da potenziare. Dentro le forme di verticalizzazione dei processi sociali e produttivi con un forte contenuto tecnologico l’autore trova un aspetto di trasformazione delle relazioni sociali causato dalle tecnologie che si è affermato con fatica, ad esempio, nelle lotte dei lavoratori. Pensiamo solamente alle forme di comunicazione reticolari tra lavoratori che hanno consentito un nuovo approccio alla lotta sindacale creando spazi organizzativi e di socialità non appiattiti sulla circolazione delle merci nelle nuove reti di comunicazione digitale. Questo ci porta ad affermare che i grandi mezzi di comunicazione, in alcuni casi, possono essere piegati a vantaggio dei lavoratori per le proprie lotte. Si tratta del caso della lotta dei lavoratori americani in Amazon o Starbucks. La classica protesta e l’interruzione del lavoro di fabbrica trovano dei nuovi mezzi negli strumenti tecnologici dentro un processo dinamico perché da un lato le forme assunte da queste lotte possono utilizzarli a loro vantaggio aprendo ad un uso non capitalistico della tecnologia in questione ma non dobbiamo dimenticarci che a causa della loro matrice capitalistica queste tecnologie tendono a sussumere le forme di protesta per poterle controllare. Da ciò ne consegue che nei processi di controllo del capitalismo ad alto contenuto tecnologico è possibile rintracciare una costitutiva desincronizzazione, una controtendenza, che in forme sempre più complesse si scontra con la tendenza alla sincronizzazione del capitale. Quindi ogni tentativo di insorgenza e organizzazione politica per mezzo delle tecnologie digitali è importante.

Tutte queste riflessioni rientrano in una teoria critica della tecnologia, cioè una forma di sapere capace di analizzare le trasformazioni produttive e le loro ripercussioni sull’umano e le sue forme di rappresentazione ideologiche. Seguendo questa linea è impossibile interpretare la semplificazione delle operazioni in fabbrica, la loro ripetitività, la loro sintesi algoritmica, lo sfruttamento intenso ed accelerato del lavoro vivo fuori dalla categoria di Marx chiamata processo di sussunzione reale. L’apparato macchinico e informatico sussume le competenze del lavoratore e le utilizza contro di lui. Questo è vero anche rispetto all’accelerazione imposta dai sistemi di intelligenza artificiale ormai disponibili anche per il comune utente di internet. I risultati raggiunti da questo strumento sono una delle forme più recenti dell’uso capitalistico della tecnologia. L’intelligenza artificiale potrebbe consentire la sostituzione del lavoro vivo in alcuni settori economici mentre allo stesso tempo è un ritrovato tecnologico che accentua la competizione tra capitalisti per conquistare una posizione di vantaggio tecnologico rispetto ai propri concorrenti. Questo spunto ci consente di ribadire l’importanza di tornare a Marx per analizzare simili fenomeni. La generalizzazione delle macchine, come ci insegna Marx nel Capitale, si confronta sempre con il tema della produzione del plusvalore. Tutte le innovazioni tecnologiche, essendo sia strumento produttivo che merce, sono un elemento nella lotta tra capitalisti per conquistare o mantenere spazi di mercato e questa concorrenza per le tecnologie assume il ruolo di epicentro della ricerca di plusvalore. Le categorie marxiane consentono anche di guardare da una diversa angolatura l’intelligenza artificiale. Essa va intesa come un grande accumulo di dati alla cui selezione prendono parte i lavoratori di tutto il mondo. L’intelligenza artificiale è lavoro morto accumulato che può operare solo grazie alla forza economica e politica delle grandi concentrazioni del capitale, dice Cengia. Questi apparati produttivi prendono la forma di grande potenza di calcolo, enormi spazi digitali di archiviazione delle informazioni che sono fisicamente posti in giganteschi apparati informatici da mantenere utilizzando grandi quantità di energia. L’intelligenza artificiale, quindi, è il prodotto della grande fabbrica dell’era digitale. Il lavoro morto assume la forma digitale della catena di bit che viene processata dall’algoritmo dell’intelligenza artificiale. La tendenza alla digitalizzazione dei processi sociali di tipo comunicativo e di apprendimento a partire dalle proprie capacità performative è l’equivalente informatico del predominio della forma merce e della forza generalizzata del valore di scambio. Questo ci permette di assumere uno sguardo critico rispetto ai Large Language Model e ai Generative Pretrained Trasformer dell’intelligenza artificiale. Tutti questi processi sono parte di un’accelerazione del travaso delle competenze che produce accumulo di lavoro morto e svuotamento del lavoro vivo. La macchina, dice Cengia, diventa il virtuoso e il lavoro vivo perde maestria e adatta sé stesso alla nuova condizione che si viene a creare. Una teoria critica della tecnologia serve per andare oltre letture semplificatrici e unidirezionali dei processi socio-economici che nel caso dell’intelligenza artificiale significa mettere in evidenza la struttura macchinico-capitalistica che le è propria. Bisogna sempre ricordare che lo scopo delle macchine e della tecnologia non è alleviare la fatica dei lavoratori nel capitalismo ma l’uso della tecnologia non va astrattamente rifiutato ma declinato a partire dal punto di vista dello sfruttamento operaio. Questo ci deve spingere a ipotizzare modelli sociali differenti e alternativi rispetto a quelli che si sono affermati nei processi di valorizzazione del valore ad alto contenuto tecnologico che passano per il tema del controllo della proprietà comune sulla tecnologia. Sono temi antichi, trattati da Raniero Panzieri e il suo maestro Rodolfo Morandi, e che Matteo Gaddi prova ad attualizzare attraverso il tema del controllo operaio inteso come intervento nel momento stesso dell’ideazione e della progettazione delle nuove tecnologie.

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