Mike Watson (PhD al Goldsmiths College) è un teorico, critico e curatore d’arte che si occupa principalmente della relazione tra cultura, nuovi media e politica.
È nato nel Regno Unito nel 1979, ha vissuto a Roma dal 2008 al 2018 e dal 2018 vive in Finlandia.
In Italia è stato curatore d’arte alla Biennale di Venezia (nel 2013 e nel 2015) e per la Nomas Foundation, la Fondazione Pastificio Cerere e il Museo Macro, oltre che a Manifesta12 a Palermo nel 2018. Ha inoltre insegnato in due università americane a Roma ed è stato ospite del Royal College of Arts di Londra (2015) e dell’Estonian Academy of Arts (2021).
Nel 2018 si è trasferito da Roma in Finlandia. Da allora ha curato eventi come la candidatura di Oulu2026 a città europea della cultura, l’Oulu Music Video Festival e ha insegnato all’OAMK e all’Università di Oulu.
È un critico d’arte e teorico dei media di fama internazionale e ha scritto per Art Review, Artforum, Frieze, Hyperallergic, Sublation Magazine e Radical Philosophy, oltre ad aver curato eventi alla 55a e 56a Biennale di Venezia e a Manifesta 12. Recentemente è stato pubblicato il suo primo libro tradotto in italiano per i tipi di Meltemi “Perché la sinistra non impara a usare il meme? Adorno, videogiochi e Stranger Things”.
Lo abbiamo intervistato per presentare ai nostri lettori i contenuti principali del suo libro.
1. Hai utilizzato come principale riferimento teorico Adorno. Perché hai scelto proprio questo autore?
Per molti aspetti Adorno è l’ultimo pensatore a cui ci si dovrebbe rivolgere. È conosciuto soprattutto per tre cose: il suo elitarismo, la sua complessità e il suo pessimismo. Potrei essere in qualche modo d’accordo con i primi due (anche se sull’elitarismo ci soffermeremo più avanti), ma ciò che mi interessa di più è il terzo elemento, che per me ha dei paralleli con la negatività dei Millennial e della Generazione Z o “Zoomer”, nonostante le loro esperienze ampiamente divergenti.
Al centro della visione cupa di Adorno c’è l’idea che nulla possa resistere al capitale e a quello che lui chiama “pensiero identitario”, ovvero la tendenza a categorizzare le cose come mezzo di controllo. Per Adorno l’unica cosa che potrebbe in qualche modo sfuggire al pensiero identitario è l’arte, in quanto l’arte è per sua natura irrazionale e quindi può almeno apparentemente sfuggire al dominio degli auspici della scienza e del capitale.
Tuttavia, per Adorno la tendenza all’industrializzazione della produzione artistica libera anche l’arte dalla sua apparente distanza dalle macchinazioni del capitale, il che significa che solo un’arte astratta estrema può rivelare le false condizioni del pensiero identitario e il legame dell’umanità con la natura. E qui il pessimismo che Adorno nutriva per la musica jazz era in realtà un pessimismo per la cultura prodotta in serie, che egli vedeva come essenzialmente progettata per intorpidire le menti delle masse offrendo loro una falsa scelta tra film hollywoodiani molto simili, riviste, spettacoli televisivi…
Adorno imposta la sua visione desolante della cultura moderna, sia in uno stato fascista che in uno stato democratico, in parte per far sì che la sua argomentazione a favore di un briciolo di speranza possa resistere alle accuse di velleitarismo. In breve, non offre una cura miracolosa, ma piuttosto fonda una possibilità di tregua all’interno del sistema nichilista del capitale che abitiamo, che in ogni caso considera un residuo dello stato caotico della natura. Viviamo quindi in un sistema di controllo creato dall’uomo perché non siamo mai riusciti a sfuggire alle tendenze della natura “rossa di dente e artiglio”, e nessun calcolo scientifico o finanziario ci aiuterà a sfuggirvi perché portiamo la natura dentro di noi.
Quindi Adorno dice che la vita è vuota e caotica e che è solo nel breve momento in cui soccombiamo a questo fatto che viviamo davvero, e possiamo farlo ascoltando musica astratta e oscura, guardando teatro astratto o leggendo Kafka, per esempio. Per Adorno, questa esperienza ci fa uscire dal rigido modo di pensare quotidiano che il capitale ci impone.
Per me questo abbraccio della negatività come mezzo per contrastarla attraverso la creatività è esattamente ciò che le generazioni Millennial e Zoomer fanno continuamente con i loro meme e la loro produzione audiovisiva. In altre parole, né Adorno né le giovani generazioni di oggi credono che l’arte ci salverà in qualche modo dagli aspetti peggiori del capitalismo, ma come Adorno sostiene nel suo saggio del 1962, “Impegno”, dobbiamo continuare a fare arte, piuttosto che arrenderci al cinismo.
2. Per Adorno la società razionalizzata lascia poco spazio all’arte, poiché la base da cui un tempo è sorta è degenerata. L’arte deve cercare di non identificarsi con tutto ciò che sussume l’uomo, ed è in questo tentativo che può risiedere nelle opere un certo sentimento di felicità, che sarebbe legato all’impulso di resistenza che esse generano in ciò che trasmettono di fronte a reificazione della società, la sua feticizzazione e la sua graduale scomparsa. L’industria culturale spinge l’arte a perdere sempre più la sua naturalezza, la sua essenza artistica, aumentando, il vuoto della forma. Ciò che si cerca con la merce culturale è che l’artista si perda consumando la sua soggettività, il suo essere stesso, per diventare finalmente uguale all’opera d’arte. In tal contesto di riduzione reificante si assiste ad una politica di ripetizione senza sosta di qualcosa ai fini del suo introiettamento (da qua il concetto di martellamento – Plugging) . La società dei consumi diviene macchina di modificazione del modo in cui le masse percepiscono le cose. Perciò è naturale identificarsi con un modello della stessa che fa di qualsiasi cosa un oggetto, che rende tutto e tutti sostituibili, che nega, illudendola, l’individualità, per imporre l’autarchia dell’identico.
Adorno prova a indicare la via per sfuggire all’identificazione? Come si scappa da quell’agire strumentale che della sussunzione tecnica della vita – e dei saperi – per i nostri fa diventare il modello centrale raffigurato da una massima spettrale, la baconiana “sapere é potere”?
Se la conoscenza è potere, probabilmente abbiamo molto più potere oggi che ai tempi di Adorno. E molto più ai tempi di Adorno che nei secoli e nei millenni precedenti. Ma qui Adorno prende in prestito una contraddizione dalla teoria di Marx. In particolare, per Marx il capitalismo crea le condizioni per un livello di controllo fino ad allora inimmaginabile e, contemporaneamente, le condizioni per la liberazione del lavoratore. Dopo Marx, nel mondo industrializzato è cresciuto un sistema mediatico che ha dato all’élite dominante un livello di controllo senza precedenti persino sui pensieri dei lavoratori. Pertanto, la speranza di Marx che i lavoratori si unissero e si impadronissero dei mezzi di produzione per creare un mondo post-capitalista è stata probabilmente elusa. I lavoratori sono più influenzati dai messaggi dei media aziendali che dal dialogo tra loro (e spesso la conversazione è una camera d’eco di messaggi trasmessi dall’élite).
Per questo motivo, per Adorno è fondamentale considerare i media nella nostra analisi politica, ma anche che qualsiasi via d’uscita dall’ideologia dominante provenga dall’interno del sistema capitalistico (per Adorno, infatti, non esiste un esterno). In sostanza, Adorno sostiene che anche in una società capitalista in cui il sapere opera al servizio delle merci, l’opera d’arte è in grado di affermare di essere autonoma dalla società stessa. Lo fa imitando la falsa pretesa della merce di avere proprietà o poteri che vanno oltre se stessa. Così, laddove le merci sostengono di avere caratteristiche intrinseche che in realtà sono estranee ad esse – la loro capacità di migliorare lo status, la salute, la ricchezza o la vita sessuale dei consumatori – l’opera d’arte sostiene di essere libera dal capitalismo. In quanto tale, laddove l’obiettivo dei media è promuovere le singole merci e il capitalismo in sé, l’opera d’arte è un messaggero mediatico che pretende di andare oltre questo sistema di falsa conoscenza e può quindi essere vista come esemplare di una nuova forma di conoscenza. Tuttavia, dobbiamo chiederci se anche le opere d’arte siano in grado di fingere di essere al di fuori del sistema capitalistico (un punto che affronto nel libro).
3. Nel libro affermi che:
“Solo affrontando e mettendo in discussione la nostra tendenza a cercare di controllare i rischi posti dalla natura, di fatto, tracciando un falso binario tra noi e il mondo in generale, potremmo sfuggire a un ciclo di rivoluzioni che sfociano nella tirannia. Se l’arte ha un posto in questo processo, esso risiede nel rifiuto di conformarsi a un sistema di razionalità fallace; lo stesso che tenta di persuadere tutto il reale a conformarsi al banale desiderio umano di comodità.”
Mi sembra una riflessione figlia della critica di Adorno e Horkheimer al concetto di agire razionale, impregnato dal prospetto della gabbia d’acciaio di weberiana memoria. Non condivido questa analisi del rapporto tra arte e scienza. Non sono due regioni “parallele” del sapere ma si intersecano spesso nel corso della storia dell’umanità.
Ad esempio – si veda Cassirer – senza la prospettiva centrale di Alberti e Brunelleschi non ci sarebbe stata una diagrammatizzazione che potesse dar vita agli studi sul calcolo infinitesimale né sarebbe stato così semplice rompere con l’ordine assiomatico euclideo. Così come la rappresentazione delle intersezioni tra coniche che verrà spiegata aritmeticamente solo col problema delle radici negative seguito da Bombelli e Cardano.
Come ultimo esempio, si pensi ai sistemi di rendering costruiti per creare simulazioni laboratoriali.
A mio avviso nella filosofia tedesca si è cercato di separare la produzione artistica da quella tecnica secondo un’attribuzione di diversa funzione o ancora di più di diverso valore. La questione è molto problematica per quanto mi riguarda, in particolare rispetto la validità della prima discriminante a noi nota, la presenza ed assenza dello scopo. Ma l’arte specificatamente ha uno scopo di spazializzazione individuale nello sviluppo di catene significanti: bisogna riaffermarne la funzione di ordine cognitivo-ambientale. Ma in questo caso, la presupposizione adorniana di cercare la malattia nella ragione o – per gli interpreti più radicali – di identificare la malattia nella ragione tecnica ovviamente va a vacillare, poiché tutto si ricostituisce in un’insieme di pratiche enattive. Che ne pensi?
Possiamo tornare all’uso che Adorno fa del termine “pensiero identitario”, che si riferisce alla tendenza umana a identificare e controllare gli aspetti della natura per renderli innocui. È fondamentale capire che, per Adorno e Horkheimer (che scrivono la Dialettica dell’Illuminismo), questa tendenza al controllo è precedente all’Illuminismo. Le forme di rituale magico, il pensiero mitico e la pratica religiosa comportano tutti aspetti di identificazione volti a controllare la natura. Vista sotto questa luce, la razionalità ha assimilato la tendenza irrazionale della religione e della magia, sotto forma di unità numeriche (e monetarie) che, lungi dal liberarci dall’irrazionalità, ci hanno reso tutti schiavi di un sistema finanziario in fuga (oggi sotto forma di capitalismo dei dati).
La soluzione non è liberarsi una volta per tutte dalla razionalità, ma piuttosto smettere di cercare di espellere l’irrazionale, che fa parte dell’esperienza umana e naturale. Nel caso dell’arte, abbiamo un mezzo che può porsi come completamente irrazionale, ma che è completamente dipendente dal processo sociale del lavoro che apparentemente nega. In altre parole, l’arte può attirare lo spettatore o l’ascoltatore in una temporanea sospensione della consapevolezza (mettendo così in attesa le false distinzioni del pensiero identitario). Tuttavia, quando torneranno alla consapevolezza, vedranno che l’opera d’arte che li ha temporaneamente incantati è fatta di materiali naturali lavorati da mani umane. Lo scopo dell’opera d’arte non è quindi quello di incantare, ma di rivelare razionalmente le basi della nostra civiltà nello sfruttamento delle risorse naturali e umane.
Questo tipo di rivelazione sembrerebbe sempre più difficile oggi che gli oggetti culturali sono sempre più lontani dalla natura e dal lavoro (i meme e i video di YouTube esistono solo in forma digitale). Tuttavia, il deterioramento della qualità dei video in formato jpeg che vengono condivisi nel corso del tempo è un indicatore della loro costruzione materiale. Molti creatori di meme e video su YouTube, così come i musicisti, incorporano deliberatamente effetti glitch nei loro contenuti creativi. Lo si può vedere nel movimento Vaporwave degli anni 2010, in cui musicisti e videomaker hanno preso musica e immagini degli anni ’80 e ’90 e le hanno rallentate e distorte con vari mezzi. Questa astrazione del materiale originale serve a indicare un malfunzionamento che porta il pubblico a percepire i processi fisici sottostanti che contribuiscono alla creazione di un’opera d’arte. In definitiva, con la cultura digitale finiamo per percepire giovani solitari che creano meme e video per attirare l’attenzione dall’isolamento delle loro case. In questo modo, un’analisi razionale della nostra società bokeh viene raggiunta attraverso un’opera d’arte astratta e irrazionale.
4. Una piccola provocazione: come può lo strumento più anti-adorniano quale il meme, espressione di una ricorsione continuativa di strutture isomorfiche, può liberare la soggettività? Quali sono le principali differenze tra l’uso dei meme e di internet da parte dell’estrema destra e da parte della sinistra in Occidente? Hai avuto modo di studiare questo fenomeno anche in Italia, visto che all’inizio del libro accenni all’uso dei meme nella recente campagna elettorale italiana?
All’inizio del libro sostengo che la destra è stata più efficace nello sfruttare la natura caotica di Internet. In parole povere, Internet è in grado di far deragliare la messaggistica politica mainstream perché è troppo vasto per essere controllato completamente. Per questo motivo, spesso emergono meme che si oppongono alla logica dominante o che sono semplicemente frivoli o insensati.
In contraddizione con la logica, la destra, che è più incline al controllo e all’identificazione degli elementi naturali e umani (spesso attraverso il bigottismo verso le minoranze etniche, le donne e gli omosessuali), è stata in grado di utilizzare Internet, e in particolare i meme, a proprio vantaggio. Questo perché la natura caotica di Internet ha permesso la diffusione di contenuti meme razzisti, sessisti e omofobi che l’ordine neoliberale ha soppresso. Trump, Brexit, Salvini e Meloni sono stati tutti beneficiari dei modi in cui l’attività dei meme della destra ha spostato la finestra di Overton verso destra. Tuttavia, l’apertura della destra alla libertà di parola è un inganno che viene rapidamente interrotto quando la destra assume il potere. Lo abbiamo visto di recente quando Musk è diventato CEO di Twitter. Ha comprato Twitter affermando di sostenere una maggiore libertà di parola sulla piattaforma, salvo poi bannare gli account che riteneva offensivi.
La sinistra invece è ostacolata proprio perché è naturalmente portata a combattere il bigottismo e a essere più aperta alla libertà di espressione (in particolare per quanto riguarda la cultura, il genere e l’orientamento sessuale) e all’erosione delle divisioni di classe. Questa inclinazione fa sì che la sinistra non possa accettare l’approccio “anything goes” di Internet per paura che i bigottismi vengano a galla e dominino il discorso politico. Il mio consiglio alla sinistra è di trovare un modo per raccontare la propria storia all’interno del caos della messaggistica di Internet e di cercare di sfruttare questa energia nel farlo.
Avendo vissuto in Italia dal 2008 al 2018, ho osservato queste tendenze e continuo a osservare i social media italiani e la scena politica e culturale. Ciò che risalta soprattutto è la necessità di una strategia organica di meme di sinistra che cresca di pari passo con un movimento di lavoratori. Il PD è troppo lontano dai lavoratori, dagli studenti e dai disoccupati per vincere la lotta online o offline.
5. Nella parte finale del libro parli delle enormi potenzialità dei nuovi media e provi ad analizzare le contraddizioni interne in cui la sinistra dovrebbe situarsi. Si tratta di questioni collegabili al conflitto dentro il capitalismo delle piattaforme? Io ho interpretato queste tue riflessioni come un tentativo di innovazione del repertorio di significati funzionali alla creazione di soggettività antagoniste. Il tutto ovviamente dentro piattaforme che sono progettate per fini diversi da quelli della sinistra.
In un certo senso, la somma di tutta la produzione di Internet è in grado di sfidare una razionalità andata a male e nel libro vedo qualcosa nella negatività dei brani musicali Vaporwave, per esempio, che rifiutano di trovare un falso conforto nel mondo. È questo rifiuto, insieme a un livello di produzione costantemente sostenuto nella cultura dei meme in generale, che per me offre qualche speranza. Anche se in realtà questo non richiede meme specificamente “di sinistra”.
In realtà non credo sia possibile strategizzare una campagna di meme per la sinistra, o per la destra, e il libro “Perché la sinistra non impara a usare il meme? Adorno, videogiochi e Stranger Things” non pretende di essere un manuale sui meme e nemmeno un libro su singoli meme di sinistra o su campagne di meme in quanto tali.
Piuttosto, esorta il lettore a cavalcare l’onda della cultura memetica e videoludica digitale come mezzo per contrastare gli aspetti troppo rigidi della cultura capitalista e in particolare le tendenze autoritarie della nuova destra o alt-right, che io ritraggo come incarnate dal pensiero e dal programma politico rispettivamente di Peterson e Bannon. Questo può avvenire sulle piattaforme esistenti o su quelle nuove, ma bisogna trovare un equilibrio tra numero di spettatori ed etica. Personalmente, ora uso Twitter e Mastodon, anche se disattivo Twitter per qualche settimana al mese, tornandovi solo quando ho bisogno di raggiungere un pubblico di massa. Spero davvero di basarmi interamente su Mastodon entro pochi mesi, ma in realtà dobbiamo comunque lavorare all’interno del capitalismo.
Soprattutto, credo che ciò che viene scambiato per psicopatia e apatia nei millennials e negli zoomers sia in realtà un rifiuto di prendere la via più facile, o di trovare conforto in sistemi messianici.
Qualsiasi cosa venga tirata fuori dalla nascente cultura dell’immagine può portarci in luoghi migliori o peggiori. Per ora sembrano peggiori, se consideriamo Brexit, Trump, Johnson, Meloni e così via. Eppure siamo nelle primissime fasi di un’era di produzione creativa senza precedenti. Soprattutto, vedo questa produzione creativa, nonostante tanta negatività, come adorniana, anche se per tanti aspetti non gli piacerebbe affatto quello che si sta producendo.
Il libro è disponibile su: