Venerdì 29 novembre come Collettivo Le Gauche e lavoratori abbiamo partecipato allo sciopero generale proclamato da CGIL e UIL a cui hanno preso parte anche organizzazioni della società civile come ANPI e Sbilanciamoci e sindacati studenteschi come UDU. I grandi assenti sono la sempre più filo-governativa CISL che ha ormai rotto con gli altri due sindacati confederali e USB che organizzerà il proprio sciopero generale a dicembre e di conseguenza non ha aderito alla piazza dei sindacati di base che hanno manifestato in contemporanea ai sindacati confederali. Le manifestazioni, svoltesi in quasi 50 città, hanno visto una forte adesione dei lavoratori. Hanno scioperato in 500.000 con punte di 70.000 presenze a Firenze, 50.000 a Bologna, 30.000 a Napoli e 25.000 a Genova. Lo sciopero, però, ha dovuto fare a meno del blocco dei treni, esclusi da CGIL e UIL su richiesta della Commissione di Garanzia sugli Scioperi, mentre nel resto del trasporto pubblico i sindacati hanno dovuto fare i conti con la precettazione del ministro Salvini che ha portato le ore dello sciopero nel settore da 8 a 4 ore. Le motivazioni dello sciopero riguardano essenzialmente la manovra di bilancio promossa dal governo Meloni. Aver sottoscritto il nuovo Patto di stabilità e crescita in Europa comporterà 7 anni di austerità nel nostro paese. Questo si traduce in tagli alla spesa pubblica. In tre anni i ministeri dovranno ridurre di 7,7 miliardi i loro fondi, gli enti locali dovranno dare alla finanza pubblica 570 milioni nel 2025 e 1,6 miliardi nel 2026 tramite accantonamenti che dovrebbero essere svincolati l’anno successivo come investimenti. Viene tagliato il welfare per ridurre il rapporto deficit/Pil al 3,3% nel 2025, al 2,8% nel 2026 e al 2,6% nel 2027. Una simile decisione si inserisce in un quadro economico disastroso che conviene riassumere per sottolineare la giustezza di questo sciopero generale che molti vicini al governo, ma non solo, hanno ritenuto inutile e inopportuno.
Il governo prosegue il sottofinanziamento del SSN con un calo di risorse rispetto al Pil nel triennio 2025-2027. I tre miliardi aggiuntivi per la sanità promessi dal governo Meloni non esistono. Per il 2025 si parla di appena un miliardo in più e inoltre le risorse per rinnovare il contratto dei sanitari consentiranno di recuperare, rispetto all’inflazione, appena un terzo del potere d’acquisto senza aumentare le risorse e finanziare indennità e sistema delle carriere. L’aumento del fondo previsto con la prossima legge di bilancio non sarà in grado neanche di coprire i costi aggiuntivi derivanti dall’aumento dei prezzi. Nella scuola e nell’università la situazione non è certamente migliore. Con la prossima legge di bilancio ci sarà un taglio di circa 8000 posti di lavoro tra personale docente e ATA mentre siamo ancora in attesa delle risorse per rinnovare il CCNL e tutelare la perdita di potere di acquisto dopo un triennio in cui i salari dei lavoratori della conoscenza sono stati erosi da un’inflazione di quasi il 18%. A fronte di una proposta di aumenti del 5,78% lo sciopero è inevitabile. Inoltre mancano le risorse per la stabilizzazione dei molti precari del settore, in particolare nella ricerca e nella scuola dove occorre rafforzare gli organici e contrastare nuovi tagli. Gianna Fracassi, segretaria della FLC CGIL in questi mesi è entrata più nel dettaglio sull’argomento precariato facendo parlare i numeri. Nella scuola siamo arrivati alla cifra record di 250.000. Una situazione drasticamente peggiorata dai concorsi della Buona Scuola di Renzi ad oggi. Nel 2015 i supplenti della scuola italiana erano 100.000 mentre nel 2023, nove anni dopo, sono passati a quota 235.000. In questo arco di tempo i supplenti su cattedre comuni passano da 60.000 a 105.000 mentre i docenti di sostegno quasi quadruplicano passando da 36.000 a 130.000. Ad aumentare sono le supplenze annuali che l’Espresso del 20 settembre stima siano aumentate da 3,8 mila a 40 mila in otto anni. Questi buchi sono prodotti da un elevato tasso di pensionamento dei docenti di ruolo, circa 26.000 all’anno, legato all’età media molto alta del nostro corpo docente. L’assenza di un rimpiazzo stabile con nuovi professori genera la contraddizione tra una popolazione scolastica in costante calo, erano 8,8 milioni gli studenti tra scuola dell’infanzia e secondaria nel 2015 mentre nel 2023 sono stati 8 milioni, e un aumento del numero di supplenti. I problemi aumentano a dismisura al Nord dove la domanda di insegnanti è maggiore e l’offerta minore a causa di migliori possibilità di impiego nel settore privato e stipendi nel pubblico impiego che rendono difficili i trasferimenti stabili dei docenti da altre zone d’Italia, specialmente dal Mezzogiorno dove l’offerta è decisamente maggiore della domanda. I posti di sostegno aumentano invece perché c’è una maggiore richiesta di insegnanti di sostegno da parte degli studenti che ne hanno diritto. Nel 2023, infatti, erano 338.000 cioè un +7% rispetto all’anno precedente.
Per quanto riguarda l’università, utilizzando dati elaborati da UDU sappiamo che viene colpito lo stanziamento di 880 milioni per le borse di studio per l’anno accademico 2024-2025. Il dato assoluto può trarre in inganno perché l’Italia resta il paese in UE con il numero di borse di studio più basso e più del 30% di queste è finanziato dal PNRR che sta per finire. Su questo fronte dovrebbe intervenire la legge di bilancio. Analizzando i numeri UDU dice che dei fondi stanziati 288 milioni vengono dal PNRR che finisce quest’anno e nel 2025 si prospetta un taglio complessivo di 322 milioni che nel 2026 sarà di altri 250 milioni. Senza un intervento il prossimo anno accademico vedrà altri 80.000 studenti idonei che non potranno beneficiare della borsa di studio. Un altro capitolo spinoso è il taglio ai fondi. Il fondo di finanziamento del 2025 secondo la ministra Bernini cresce mentre quello del 2024 ha subito un taglio di 178 milioni di euro. Tuttavia i rettori affermano che per salvare l’università italiana servono almeno 800 milioni di euro. 78 atenei su 84 hanno subito una riduzione dei fondi di diversi milioni e quelli in pareggio devono questo risultato solo alle valutazioni ottenute sulla ricerca. Poi abbiamo il problema riguardante il disegno di legge per il Reclutamento che minaccia di cambiare profondamente le figure lavorative previste per i giovani ricercatori e i docenti esterni. Vengono aumentate le posizioni pre ruolo per neolaureati magistrali, neodottorati e giovani ricercatori mentre il contratto di ricerca con i suoi rigidi incarichi biennali e le sue tutele e remunerazioni maggiori resta congelato. Infine si apre alla possibilità di avere come docenti degli esperti esterni, chiamati professori aggiunti, nominati direttamente dal Rettore. L’ultimo elemento di critica sollevato da UDU riguarda i posti letto. La ministra Bernini ha ammesso che l’obiettivo di 60.000 nuovi posti letto è difficile da raggiungere al momento. Questo fallimento era già stato annunciato mesi fa da UDU che ha criticato la gestione dei fondi PNRR che invece di focalizzarsi sul pubblico e i bisogni degli studenti dirottava risorse con misure spot nelle casse dei privati. I soggetti pubblici non partecipano alla chiamata del Ministero per gestire i nuovi posti letto perché i fondi messi a disposizione non sono sufficienti per coprire tutti i costi. Il governo mette 20.000 euro a posto letto mentre gli altri 70.000 li devono coprire gli atenei. Di conseguenza la maggior parte delle richieste per gestire i nuovi posti letto proviene da privati e non da università e comuni. Per quanto riguarda l’industria, il 9 novembre 2024 Il Sole 24 Ore ci avverte che a settembre si è verificato il ventesimo calo consecutivo della produzione industriale. Nel mese in questione c’è stato un calo annuo del 4% e mensile dello 0,4% con l’Indice sceso a livelli mai visti da luglio 2020, quando c’era ancora la pandemia. Il bilancio annuo si riduce ancora visto che tra gennaio e settembre è maturato un rosso del -3,4%. Il crollo è trainato dal settore auto dove si registra un -42% per la produzione di autoveicoli e un -50,5% per quella delle vetture. Un altro settore in crisi è quello tessile e dell’abbigliamento, unico settore con una flessione dalla doppia cifra assieme a quello dei mezzi di trasporto. In ogni caso, con l’eccezione del settore dell’elettronica e degli apparati elettrici, i segni meno sono generalizzati nella nostra industria rispetto a settembre 2023. Questi dati sono prodotti non solo dall’assenza di politiche industriali da parte del governo, un punto chiave nella piattaforma dello sciopero di CGIL e UIL, ma anche dal rallentamento dell’economia europea in particolare quella tedesca ha fatto perdere ben tre miliardi di export alle nostre imprese rispetto al 2023. Tutto ciò spiega, almeno in parte, la situazione critica che sta vivendo un pezzo importante della nostra industria, ovvero quella dell’automobile. In piazza a Roma, al nostro fianco perché abbiamo partecipato al corteo dentro lo spezzone della FIOM CGIL, c’erano gli operai Stellantis di Cassino che già avevano partecipato ad un fondamentale sciopero unitario di 8 ore con la CISL ad ottobre. I sindacati chiesero con quella mobilitazione l’apertura di un confronto urgente con il governo per raggiungere un accordo quadro capace di fornire delle risposte positive ai lavoratori degli stabilimenti di Stellantis e a quelli delle aziende della componentistica. Nel giro di un anno si è passati dal tavolo Stellantis al Mimit per realizzare una strategia condivisa finalizzata a portare, grazie ad auto e veicoli commerciali, la produzione a un milione di vetture ai messaggi di allarme dei sindacati nelle fabbriche del gruppo e delle imprese dell’indotto che sono a corto di ammortizzatori sociali. Ad essere a rischio sono 25.000 lavoratori in questa fase di bassi volumi produttivi a cui bisogna aggiungere il cambio di tecnologia nei sistemi di trazione e il passaggio da motore termico a sistemi di trazione elettrica che impatterà su 70.000 lavoratori. Servono, da parte dell’UE e del nostro governo, risorse straordinarie per sostenere la transizione tramite investimenti in ricerca, sviluppo, progettazione, ammortizzatori sociali, formazione, riduzione dell’orario di lavoro, batterie e infrastrutture di ricarica come chiede la FIOM CGIL tramite il suo segretario Michele De Palma. In breve, è necessario tornare alla cara e vecchia politica industriale per colmare quella che sul Manifesto Angelo Moro non esita a definire miopia rispetto alla transizione verso l’elettrico che affonda le sue radici nell’era Marchionne. Il nostro paese ha già subito una ristrutturazione del settore auto grazie all’ex amministratore delegato di Fiat ed FCA. Nel 1999 in Italia venivano prodotti più di un milione di veicoli FIAT. Nel 2018, quando il manager italo-canadese è morto, se ne producevano poco più di 300.000. Il totale delle auto assemblate nel nostro paese passa da 1 milione e 400.000 a poco più di 670.000. Coma mai? FCA ha basato il suo rilancio, il cosiddetto piano Marchionne, nel nostro paese concentrando la produzione di veicoli premium ad alto valore aggiunto che garantivano più margini di guadagno all’impresa in Italia mentre le produzioni con minori margini di guadagno venivano delocalizzate in paesi con un minore costo del lavoro, per esempio la Polonia o la Serbia. Dopo la morte di Marchionne, anche grazie alla crisi del COVID-19, il trend negativo prosegue con la caduta della produzione di auto sotto il mezzo milione che è stato superato a fatica lo scorso anno e a soffrire è anche il segmento premium. Questi risultati negativi hanno portato alla chiusura dello stabilimento di Grugliasco e alla cassa integrazione intensiva a Cassino ma hanno generato risultati finanziari positivi fatti pagare ai lavoratori del gruppo e della componentistica che a fatica sta conquistando la sua indipendenza dall’unico grande produttore di auto in Italia. Moro sostiene che la riduzione delle commesse provenienti da Stellantis abbia prodotto un ricorso strutturale agli ammortizzatori sociali e a una competizione all’ultimo sangue sui costi tra le imprese della filiera. In dieci anni l’azienda ha ridotto sia il livello produttivo che il numero di occupati. Attualmente sono 34.000 e dal 2014 sono stati persi 11.000 posti di lavoro nel settore. Solamente 2400 di questi sono addetti degli enti centrali che si occupano di ricerca e sviluppo. Nessun governo è intervenuto per realizzare con l’azienda un piano industriale capace di utilizzare tutta la capacità produttiva del paese che può arrivare a produrre fino a due milioni di auto. Nessuno dei nuovi modelli lanciati da Stellantis, dice De Palma, verrà prodotto in Italia con il risultato di arrivare ad una produzione annuale inferiore alle 300.000 macchine. Il nostro paese, quindi, perde sia autonomia di ricerca, con la fuoriuscita dal gruppo di ingegneri e progettisti, sia capacità produttiva, grazie alle migliaia di lavoratori in cassa integrazione o che ricorrono all’esodo incentivato. La maggior parte dei lavoratori Stellantis in Italia è da più di dieci anni sotto ammortizzatori sociali e quando sono chiamati a lavorare, dice De Palma, sono costretti a correre lungo le linee di montaggio. Di conseguenza l’ammortizzatore sociale sta diventando uno strumento di flessibilità nell’utilizzo degli impianti. In tutto ciò bisogna fare i conti con la transizione verso l’auto elettrica per cui Stellantis chiede incentivi per ridurre il gap di costi che esiste tra le auto elettriche e quelle endotermiche. Sempre De Palma sul Manifesto spiegava qualche mese fa come questo obiettivo fosse raggiungibile tenendo insieme clima e lavoro, per esempio riducendo l’orario di lavoro e aumentando i salari per consentire ai lavoratori di comprare le nuove auto elettriche. Un simile scopo ha però bisogno di una politica industriale programmata che a livello europeo manca avendo scelto l’UE di delegare la soluzione di questa sfida al mercato, limitandosi a fissare solo le norme e stanziando delle risorse insufficienti. Questa situazione critica si ripercuote sulle trattative per il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici che sono bloccate. Federmeccanica ha respinto la richiesta di aumento di 280 euro mensili sui minimi contrattuali del livello C3 sostenendo che nel periodo 2021-2024 ci sono stati aumenti troppo alti per coprire i costi dell’inflazione che impediscono alle imprese di aumentare ulteriormente gli stipendi.
Questo è un altro punto al centro dello sciopero. Come ricorda Sergio Fontegher Bologna su Officina Primo Maggio, l’Istat ci dice che a settembre 2024 46 CCNL hanno la parte economica in vigore e riguardano solo il 47,5% dei dipendenti mentre altri 29 sono in attesa di rinnovo. Questi contratti riguardano ben 6,9 milioni di lavoratori, cioè il 52,5%. In questo gruppo trovano spazio i lavoratori del Trasporto Pubblico Locale che ultimamente hanno scioperato per 24 ore senza fasce di garanzia e con le prestazioni ridotte ai soli servizi essenziali. Il loro CCNL è scaduto da un anno e il rinnovo è vitale per aumentare le retribuzioni e migliorare le condizioni di lavoro con lo scopo di rendere la professione più attrattiva. Una situazione simile si registra nella Pubblica Amministrazione. La manovra del governo non mette sul tavolo le risorse necessarie per i rinnovi contrattuali. A fronte di circa il 18% di inflazione, vengono proposti aumenti del 6% che impediscono un pieno recupero del potere d’acquisto dei lavoratori del pubblico impiego. Il segretario nazionale della Fp CGIL Florindo Oliverio ci spiega che su uno stipendio di un funzionario, pari a 1958 euro al mese, sono stati persi in tre anni 332 euro e il governo stanzia risorse per ridargliene 141. A rischio è anche l’ammodernamento della pubblica amministrazione per renderla più attrattiva per i giovani. Mancano le risorse per proseguire il passaggio al nuovo ordinamento avviato dal CCNL 2019 aggiungendo risorse a quelle fornite dal governo Draghi. Infine, mancano le risorse per completare il piano straordinario di assunzioni di cui ha bisogno la nostra Pa. All’appello mancano un milione e 200.000 dipendenti pubblici. Nel 2026 ci saranno 300.000 pensionamenti mentre nel 2027 saranno circa 700.000. Ciò provocherà una diminuzione del personale della pubblica amministrazione con effetti deleteri sulla sua velocità ed efficienza. In piazza c’erano anche i lavoratori di altre vertenze esterne al mondo industriale. Per esempio a Roma abbiamo manifestato con i dipendenti delle Poste in lotta contro la privatizzazione dell’azienda. Per racimolare risorse sappiamo che il governo vuole procedere sulla strada della privatizzazione degli ultimi asset strategici rimasti in mano pubblica. Come ricorda Marco Togna su Collettiva, mancano 18 miliardi di euro per raggiungere gli obiettivi fissati dal governo per quanto riguarda le privatizzazioni. Si tratta di decisioni sbagliate perché priverebbero il paese della possibilità di gestire le transizioni che ci aspettano come quella ecologica e, sostiene Pino Gesmundo, ostacolerebbero la strategia di crescita dell’Italia. Inoltre privatizzare non conviene economicamente perché significa far perdere allo Stato la possibilità di partecipare ai profitti delle imprese vendute. Non a caso tutte le privatizzazioni fatte hanno generato una evidente discrepanza tra le previsioni degli incassi e le entrate effettivamente realizzate. La CGIL sottolinea gli effetti negativi di queste scelte. Per esempio la vendita del 4,7% di Eni a due miliardi ha portato ad un mancato incasso di 147 milioni di dividendi nel solo 2023. La vendita dell’intera quota azionaria del Ministero dell’Economia, il 29,26%, di Poste Italiane porterebbe ad un incasso di 3,9 miliardi che in termini di riduzione del debito pubblico si tradurrebbero in un risparmio annuo di 182 milioni a fronte di un mancato incasso di 248 milioni per una perdita netta di 66 milioni. Situazioni analoghe potrebbero presentarsi per RAI Way e infrastrutture strategiche come ferrovie e porti.
Infine c’è il capitolo pensioni che ha visto, oltre al mantenimento della Legge Fornero, un misero aumento di 1,8 euro al mese delle pensioni minime grazie ad un indice di incremento dello 0,8%, “agli 1,8 euro al mese si arriva aggiungendo allo 0,8% l’incremento extra previsto per le pensioni minime del 2,2% – per il 2025 – che porta così a quel totale del 3% di rivalutazione il cui risultato è, appunto, 1,8 euro. In questo modo, una pensione minima passa dai 614,77 euro al mese del 2024 ai 616,57 euro nel 2025”1. Insomma, la situazione dell’economia italiana giustifica uno sciopero come quello di venerdì ma il governo continua a sostenere una visione del mondo totalmente diversa della realtà pur di attaccare i sindacati. In primo luogo Meloni e soci sbandierano i numeri dell’occupazione e su questo fronte trovano il sostegno anche del turboliberista Capone che sul Foglio del 31 ottobre porta avanti una feroce campagna di delegittimazione dello sciopero indetto da CGIL e UIL. Il giornalista sostiene che non sia comprensibile una simile decisione perché nel periodo compreso tra il governo Draghi e quello Meloni sono stati indetti quattro scioperi generali mentre sono aumentati di 2 milioni gli occupati, spesso a tempo indeterminato. Bene, se ci soffermiamo al solo mese di luglio 2024 noteremo che questa occupazione è sostanzialmente trainata dalle donne, +54.000, e dagli autonomi, +75.000, mentre diminuiscono i lavoratori dipendenti sia permanenti, -16 milioni e 19 mila unità, sia quelli a termine, cioè -2 milioni e 757 mila unità. Motivo? Qualcosa che Capone si guarda bene dall’affrontare, ovvero 20 mesi consecutivi di calo della produzione industriale. Allora come vanno letti i dati sull’aumento dell’occupazione? Seguendo la transizione dell’economia italiana dall’industria ai settori terziari meno efficienti e innovativi. Come ci ricordano Alessandro Bellocchi e Giuseppe Travaglini su Sbilanciamoci questo settore in Italia è contraddistinto da piccola e microimpresa a basso valore aggiunto e troviamo una presenza marginale del terziario avanzato operante in settori come informatica, robotica, tecnologie verde, formazione o servizi finanziari. Questo fenomeno alimenta anche la bassa crescita, la precarizzazione del lavoro e incide negativamente sulla qualità dell’occupazione e la produttività. Il CNEL, nel suo XXV Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva, afferma che negli ultimi anni sono cresciuti i contratti atipici e pirata, diffusi in particolare nelle microimprese del commercio, dell’edilizia e dei trasporti che comportano minori tutele rispetto ai CCNL e minori retribuzioni. Con queste informazioni è possibile risolvere il rebus dell’economia italiana dicono Bellocchi e Travaglini: certamente l’occupazione cresce ma nei settori a bassa produttività, a minore valore aggiunto e con salari bassi, dove è più inteso l’uso di forza lavoro precaria. L’Inps ci dice che in questi settori sono molto comuni come forme di assunzione il part-time involontario, i contratti a termine e le partite IVA. L’Istat, infine, ci dice che l’aumento dell’occupazione è accompagnato da una costante diminuzione delle ore medie lavorate per occupato. Un altro argomento utilizzato dal governo contro lo sciopero riguarda le risorse messe a disposizione per i più poveri in una fase di marcato ritorno dell’austerità. Forte dei suoi 144 articoli la manovra propone 28,5 miliardi di euro di misure che per il 60% coinvolgono interventi per redditi medio-bassi. Come ricordano Marco Mobili e Gianni Trovati sul Sole 24 Ore, la regina di questi interventi è il taglio al cuneo fiscale che diventa un meccanismo a tre fasce che concede a redditi fino a 20.000 euro un bonus monetario e da questo livello fino a 32.000 euro una detrazione fissa da mille euro che viene fatta progressivamente scendere con un decalage fino a 40.000 euro. La CGIL contesta questa narrazione. Non si tratta di qualcosa di innovativo rispetto a quanto già fatto dal Governo Draghi sul fronte del taglio al cuneo fiscale. Il taglio di quest’anno, di circa 17 miliardi di euro, viene pagato tutto dai lavoratori a cui si applica. La cifra, infatti, corrisponde a quanto i dipendenti hanno pagato in più nel 2024 grazie al drenaggio fiscale che non viene restituito. Questo fenomeno, come sostiene Andrea Roventini sul Manifesto, deriva dal mancato aumento degli importi degli scaglioni Irpef e alle modifiche delle detrazioni per redditi medio-bassi. Inoltre tutto ciò serve per aiutare, con i soldi pubblici, le imprese che tardano a rinnovare i contratti di lavoro. Due ultimi attacchi allo sciopero vanno smascherati. Il primo è che si sciopera solo di venerdì per fare il fine settimana lungo. Chi utilizza questo argomento mente perché lo sciopero non è una vacanza e viene pagato dai lavoratori attraverso la perdita della giornata di lavoro e soprattutto molti di loro il sabato mattina non sono a casa a dormire bensì a lavorare. Pensiamo a chi lavora negli ospedali o nel trasporto pubblico. Il secondo argomento sostiene che i sindacati si stanno mobilitando perché al governo c’è l’estrema destra. Su questo punto è intervenuto Emiliano Brancaccio sul Manifesto. Seguendo i dati dell’International Labour Organization (ILO) scopriamo come le ore di sciopero nei paesi capitalisticamente sviluppati sono in caduta dal 1992. In media gli scioperi sono crollati del 40% con punti di caduta molto peggiori, come nel caso del Regno Unito dove sono crollati di oltre l’80%. Se prendiamo in considerazione i dati dagli anni ‘70 ad oggi notiamo come il crollo medio sarebbe del 70%. Cade anche la variabilità degli scioperi tra le nazioni di oltre l’80%, a dimostrazione dell’esistenza di una convergenza internazionale verso il basso che porta i paesi con un movimento operaio storicamente più combattivo ad assomigliare ai paesi dove gli scioperi sono più rari. In Italia, sostiene Brancaccio, l’ILO non riesce ad aggiornare i nostri dati sugli scioperi perché le rilevazioni dell’Istat sono ferme al 2009. Questo vuoto statistico viene colmato in parte da uno studio di Ilaria Maroccia e Gilberto Turati dell’Università Cattolica2 che dimostra come tra il 1973 e il 2009 i conflitti dei lavoratori annui passano da 5598 a meno di mille, con un crollo dell’80%. Per il periodo successivo bisogna fare affidamento alle Rilevazioni Istat sulle grandi imprese dell’industria e dei servizi. Da questi dati emerge come la caduta si è ulteriormente accentuata. Infatti, tra il 2005 e il 2022 si passa da circa 30 ore di sciopero a meno di 10 ore di sciopero ogni mille ore di lavoro. Non va meglio nella sanità e negli altri servizi pubblici essenziali. Secondo la Commissione di garanzia sugli scioperi in cinque anni il declino è compreso tra il 25% e il 40%. Questi dati smentiscono l’estrema destra anche sul presunto rapporto tra scioperi e colore politico del governo perché non ci sono differenze apprezzabili tra i periodi di governo della destra, del centrosinistra, dei populisti giallo-verdi e dei governi tecnici. Permane la tendenza di lungo periodo del calo degli scioperi. La conclusione di Brancaccio è che gli scioperi non sono troppi ma troppo pochi e di conseguenza occorre sostenere tesi come quella di Landini della rivolta sociale quanto mai necessaria a fronte di un paese, come ricorda Bologna, dove, secondo il rapporto annuale dell’area studi di Mediobanca dal titolo Dati cumulativi di 1900 imprese italiane, nel 2023 ci sono stati margini record per le imprese italiane che si traducono in un ebit medio del 6,6%, il massimo decennale, essendo del 5,8% come media nel periodo 2015-2019, e il miglior livello dal 2008. A rafforzare le motivazioni della rivolta sociale ci pensa anche una ricerca prodotta dalla Facoltà di Ingegneria della Sapienza di Roma dal titolo Dinamica dei redditi, recenti squilibri nell’industria italiana. L’analisi dei dati dimostra come c’è stato un travaso di ricchezza dal lavoro al capitale molto importante. Sono stati prelevati come dividendi l’80% degli utili netti mentre solo il 20% sono stati lasciati come forma di autofinanziamento di nuovi investimenti. Tutto ciò si è tradotto in magri investimenti delle imprese che per il 40% sono in materiali nelle fabbriche e per il 60% di natura finanziaria per le partecipazioni.
Invece di seguire la via dell’austerità per racimolare le risorse bisognerebbe per prima cosa colpire gli extraprofitti ma il governo ha deciso di non chiedere sacrifici a chi in questi anni si è veramente arricchito. Come ricorda Andrea Roventini sul Manifesto, infatti, il sistema bancario non è stato minimamente toccato dal governo. Da esso vengono 3,5 miliardi di coperture figlie di anticipi sulle future imposte, quindi, di fatto, una semplice partita di giro in cui il governo chiede liquidità pur di non tassare gli extraprofitti ottenuti grazie alla politica monetaria della BCE. Di interventi sui profitti delle imprese energetiche e farmaceutiche neanche a parlarne. Non si parla di lotta alla precarietà del mondo del lavoro, viene bocciato il salario minimo e non si vede neanche l’ombra di una politica industriale degna di questo nome. Allora diventa inevitabile mobilitarsi come abbiamo fatto venerdì. I numeri delle adesioni sono incoraggianti. Collettiva ci fornisce una buona panoramica che riportiamo per intero: “risultati positivi sono stati registrati da Cgil e Uil in tutti i comparti. Nel settore metalmeccanico, con 85% alla Ducati di Bologna, 75% alla Brembo di Bergamo e alle Acciaierie Italia di Genova, 79% alla Ariston di Ancona, 85% in Marcegaglia di Mantova, 74% alla Bosch di Bari. Ci sono poi il 90% alla Electrolux di Pordenone, il 95% alla Ast di Terni.
Per quanto riguarda l’agroindustria, 100% all’Heineken di Taranto, alla Sammontana di Firenze e alla Citterio di Parma, e 85% alla Orogel surgelati di Forlì Cesena, alla Ferrarelle in Valle Camonica. Nel chimico, la gomma plastica e il tessile: 95% Isab di Siracusa; 90% Pirelli di Settimo Torinese; 90% Loro Piana di Vercelli. Risultati positivi anche dal settore edile e legno arredo (90% Italcementi di Brescia; 100% alla D’Agostino Costruzioni, cantiere anello ferroviario di Palermo, 75% Poltrona Frau di Macerata), e commercio (85% Coop e IperCoop della Liguria e al Carrefour di Carugate, 90% all’Ikea di Genova). Nei servizi punte del 100%, come negli appalti mense di Torino e provincia (Camst, Vivenda, Autentica, Ladisa).
Nei trasporti si toccano punte del 100% in alcuni settori, come quello portuale con la compagnia portuale di Ravenna. Nel trasporto marittimo adesione fino all’80% nel personale dei traghetti in Sicilia di Caronte&Tourist e Liberty Lines.
Adesioni altissime nei corrieri, sia diretti che indiretti: 80% Amazon indiretti e 90% in Dhl nel Lazio e in Ups in Lombardia. Nel trasporto pubblico adesioni alte a Torino e a Cagliari, con una media del 70%. Chiuse Linea 1 e 6 e la Funicolare centrale a Napoli, la linea M3 a Milano e cancellazioni di bus in molte città. Molto bene anche il trasporto aereo, con cancellazioni di più di 100 voli di Ita Airways e alcune cancellazioni all’aeroporto di Bologna e negli scali della Sardegna”3. Si tratta di un bel segnale contro il governo. Se non cambierà, lotta dura sarà.