21 gennaio 1921-2021. Un secolo dal PCd’I

— Emanuele

Teodoro Mannucci sedeva sul muretto del porto leggendo una rivista, ormai sgualcita tanto da doverla reggere sulle ginocchia. La brezza gelida della sera nuvolosa soffiava dall’entroterra verso il mare, attutendo col freddo tutte le possibili percezioni di odori. Non faceva tanto freddo, in realtà, ma Teodoro si era intabarrato nel cappotto sgualcito di suo fratello che aveva fatto il militare nella guerra, con una sciarpona di lana grigia attorno al collo e a coprirgli la bocca, con un cappellaccio a maglia grossa che gli copriva la fronte fino alle sopracciglia. Era freddoloso di suo, ma al momento non ci badava tanto, concentratissimo nel leggere quel L’Ordine Nuovo stampato settimanalmente a Torino che Rossi, con l’abbonamento, passava al cantiere a quelli che chiamava «compagni e amici». Gli piaceva il modo con cui era scritto, e pure certe espressioni fiorite, ma la cosa che lo esaltava erano i racconti pubblicati su quella rivista, gli interventi di scrittori, rivoluzionari russi e poeti tedeschi, l’interesse per l’ambiente culturale operaio francese, e quel sapore intellettuale apriva alla fantasia orizzonti ben più vasti di una Livorno tutta accrocchiata attorno al porto, così piccola e provinciale.

Lo sciabordio del mare accompagnava ritmicamente i suoi passi mentre si dirigeva infagottato verso una piccola osteria vicino al teatro Goldoni, dove stavano tenendo in quei giorni il XVII congresso del partito socialista. Non aveva neanche provato a entrare, però da quell’osteria arrivavano tutte le storie e gli avvenimenti che esplodevano dentro al Goldoni: quattro giorni prima, Bombacci aveva puntato una rivoltella a Vacirca, dopo che l’altro lo aveva accusato di essere «un rivoluzionario che non sa adoperare nemmeno un temperino». L’aveva abbassata, «troppo pesante per la sua mano», sogghignava il 17 sera un tizio che teneva per l’applauditissimo Turati, oggi, tuttavia, ci sarebbe stata la conta dei voti da tutte le sezioni, e voleva vedere che risultato sarebbe emerso. Meno entusiasmante delle cronache dall’Ungheria o dalla Siberia, sempre però un appuntamento che gli sembrava la resa definitiva dei conti fra comunisti, unitaristi, e riformisti. A lui, soprattutto, inquietava la piega che prendevano i fatti in Emilia e a Firenze, dove un suo amico di là raccontava come i fascisti agivano impuniti, con la totale inazione del governo Giolitti e delle guardie nazionali, che stavano a guardare. Su LON aveva seguito tutta la costituzione della fazione comunista in seno al partito socialista, da ottobre si erano dati l’abbrivio lungo quella strada, costruendo un partito nel partito, pronto per ogni evenienza.
C’era abbastanza gente nello slargo antistante al teatro, con le bandiere rosse esposte. A quanto dicevano all’osteria, il risultato dei voti era stato decisivo per gli unitari – quanto decisivo?

Aspettò appoggiato a un muro a guardare l’entrata del Goldoni, con la sua piatta facciata neorinascimentale e il portico stretto in pietra grigia che sembrava volesse azzannare il buio della piazzetta. Rossi gli aveva dato appuntamento più o meno lì davanti, il tempo di arrivare fin là da dove viveva – che non aveva mai capito precisamente dove fosse. Lui era convintissimo che il partito sarebbe rimasto unito e nell’Internazionale Comunista, come chiedevano i 21 punti di Lenin per tutti i partiti della rivoluzione proletaria. Vide una rinnovata fiammata di entusiasmo, e, chiedendo ai compagni fuori dall’ingresso cosa stesse succedendo, lo invitarono ad entrare.

Non era mai stato in un teatro prima, e gli parse come una scintillante gemma quale era la democrazia operaia, la sala di un’istituzione del popolo, in cui i drappi e le insegne rosse esaltavano l’ambiente lussuoso – in un modo che a un borghese in cilindro o bombetta, comune frequentatore del posto, sarebbe rimasto stizzito e impaurito. Il ritratto del “Grande Vecchio” campeggiava in bianco e nero sulla parete delle quinte, e sopra l’insegna dei popoli del mondo: «proletari di tutti i paesi, unitevi». La platea e i palchi erano gremiti – si tolse il cappello spettinandogli i capelli giallo stoppa, e sciolse i primi bottoni del cappottone, accorgendosi di sentire caldo – e un tale con gli occhiali, la barba brizzolata e i capelli curati tuonava con un accento slavo («è Kabakčiev», si disse), sulla necessità della lotta nel momento rivoluzionario, e che di qualsiasi esitazione, come avvenuta nel 1919-20, se ne pagherà lo scotto. Aveva letto qualche suo intervento su LON, quale inviato della Terza Internazionale in Italia, e gli dava la sensazione che in Italia davvero si fosse perso tempo, si fosse delegato alla lotta sindacale il compito di distruggere la base del potere borghese. Una mano lo afferrò per la spalla «Teodoro!»
Rossi aggiunse velocemente, «Ti stavo aspettando fuori, credevo fossi già entrato»
«Salve Spartaco, pensavo invece che saremmo andati da un’altra parte»
«Aaahn no, anche perché hai il socialismo internazionale e italiano a Livorno, e non girano belle voci su cosa potrebbe accadere»
«Mh?»
«Si scinderanno. È abbastanza sicuro ormai, a questo punto. Dovevi sentire dopo il discorso di Turati dell’altro giorno, hanno applaudito moltissimi dei massimalisti. Non sarà una cosa che farà sopravvivere il partito unito»
«Mi avevano detto, là all’osteria; te che ne pensi?»
Spartaco Rossi eluse la domanda del suo più giovane collega «Veh i risultati li sapremo domani mattina, andiamo a fare un giro agli scali? Penso che terranno aperto per tutta la sera, col numero di gente che c’è»
«Sei preoccupato» sorrise inquieto l’altro, mentre si dirigevano fuori con altri due compagni, che aveva visto di sfuggita.
«Molto. Ho l’idea che qualunque sia la fine di stanotte, non andrà bene».

Passarono tutta la notte a discutere con gli altri due: uno bassino, con una scura barba incolta e degli occhiali dalla montatura sottilissima, un altro alto quanto Teodoro, che aveva un curioso accento misto fra germanico e livornese.
«N’andrà mica bene – esordì criptico Sijmen van Buiten.
«Almeno abbiamo le otto ore, le dieci lire, ferie pagate, l’assicurazione sanitaria – ribatté il bassino.
«E quanto ci metteranno a levare tutto quanto, se il partito è spaccato e non hanno più il prurito della rivoluzione al deretano? È questo che mi incupisce. Turati ha voglia di fare il nuovo Bonomi, negando di aver perso un mare di tempo. Ha tentennato come Carl’Alberto cogl’austriaci. Nel frattempo, ha messo i socialisti a morte: è Turati che controlla i parlamentari, i giornali e il Comitato Centrale»
«Pensi che per questo non lo sbatteranno fuori, ma lasceranno che i comunisti si scindano come minacciano di fare da ottobre?».

Al Goldoni erano usciti gli esiti della votazione. 98.028 voti agli unitari, 58.783 ai comunisti e 14.695 ai concentrazionisti. I quattro, ancora agli scali, vedevano dirigersi verso il teatro San Marco centinaia di persone, attraversando piazza Cavour, nel cuore originario della città marittima. Intercettarono un ragazzo che sgambettava noncurante del freddo e dell’umido di quella giornata piovosa.
«Ch’è successo?»
«Bordiga ha parlato, ha detto che il partito socialista si è messo fuori dall’Internazionale, venite anche voi»
Le bandiere rosse fiorivano sul cielo e il mare grigio. Il 21 gennaio 1921 era nato il Partito Comunista d’Italia.

 

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