Un contributo di un compagno anarchico
“[…] l’Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere.”
Leonardo Sciascia
Sono passati esattamente cinquant’anni da quando Piazza Fontana diventava tristemente nota per la più significativa strage dell’Italia repubblicana, da quando i nomi di Pinelli, Valpreda e dei loro compagni erano sulle bocche di tutti, sui titoli di tutti i giornali e nei verbali della polizia, da quando la ragion di stato si palesava in tutta la sua infamia e crudeltà. Durante questo mezzo secolo le ricostruzioni dell’accaduto si sono succedute con frenetica intensità; in prima battuta la paternità della strage fu attribuita interamente agli anarchici come da copione, poi sono state dimostrate le responsabilità materiali dei fascisti di Ordine Nuovo nelle persone di Franco Freda e Giovanni Ventura e quelle anche morali dello Stato e dei suoi servitori, infine le ultime assurde tesi sulla “doppia bomba”, che hanno anche trovato terreno fertile nel mondo del cinema con il film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage (2012). Gli anarchici, invece, l’hanno sempre detto: la Strage è di Stato, Valpreda è innocente e Pinelli è stato ucciso. L’idea dietro alle odierne operazioni di mistificazione storica e di revisionismo – e non solo relative al ’69 – è quella di decontestualizzare, salvaguardare la fama delle istituzioni democratiche, dei servizi segreti (spesso definiti deviati) e delle forze dell’ordine, citando solamente le vittime e mai i carnefici, di cristallizzare l’accaduto nei libri di storia in un “volemose bene” che scagiona i responsabili e rimuove dalla narrazione di quegli anni la strategia della tensione, la collaborazione delle istituzioni con i fascisti, le stragi per eliminare l’opposizione interna, insomma l’elemento conflittuale. A bocce ferme, giochi fatti e guerra vinta, si filtra l’accaduto e si criminalizza la lotta. Il passato ha infatti la funzione di legittimare il presente e non è un caso che ogni sistema di potere abbia bisogno di porsi come erede di qualcosa o di giustificare la propria esistenza sbandierando i propri meriti. Inutile spiegare che in un periodo come questo in cui è biasimata anche la violenza legittima dello schiavo, lo sarebbe a maggior ragione quella del padrone.
Ricordare queste vicende, però, non rappresenta soltanto un’operazione di ricostruzione storica e di commemorazione. Abbiamo sicuramente il dovere di farlo verso le compagne e i compagni di allora che affrontarono l’ondata repressiva ed assassina dello stato democratico-fascista e che – con la lotta e la controinformazione – hanno garantito almeno un briciolo di libertà in questo paese, ma ragionare su questo passato è ragionare sul nostro presente. Le stragi di Stato non sono finite, così come la repressione e l’impunità della violenza poliziesca. Oggi le stragi coinvolgono i nuovi ultimi, cioè gli immigrati, che muoiono a centinaia in mare, rinchiusi nei CIE o vittime del caporalato; coinvolgono i lavoratori, che muoiono a centinaia ogni anno perché la loro sicurezza intacca il profitto padronale; coinvolgono i carcerati, considerati scarti della società. La strategia della tensione ha metodi e scopi diversi ma uguali: creare paura per fare in modo che la strada sia spianata, il dissenso eliminato e l’esercito schierato ad ogni angolo di strada. Guardatevi intorno, perchè tutto ciò è realtà già da tempo. Penso sia emblematico il caso di Vincenzo Vecchi, compagno arrestato quest’estate in Francia (ma poi rilasciato dal tribunale francese) su mandato europeo e condannato dalla Cassazione Italiana a più di dieci anni di carcere per “devastazione e saccheggio” durante gli scontri del G8 di Genova del 2001. Dopo diciotto anni il potere ha colpito con meticolosa precisione, così come ha fatto con Battisti. Il loro messaggio è chiaro: o stai e sei stato al nostro gioco o non ne esci. Pensare poi a quello che hanno fatto in piazza, alla Diaz o a Bolzaneto e le mancate conseguenze in rapporto al caso di Vincenzo Vecchi fa solo aumentare l’indignazione. Piazza Fontana e il caso Pinelli sono strettamente legati a tutto ciò. Da quel momento le forze dell’ordine si sono sentite e sono state libere di fare qualsiasi cosa a chiunque. Siamo arrivati oggi a ritenere una grande vittoria il fatto che, dopo dieci anni di depistaggi ed offese, la famiglia Cucchi abbia ottenuto un minimo di verità riguardo alla morte di Stefano. Oggi più che mai dobbiamo comprendere le dinamiche del passato per comprendere quelle del presente. Il nemico è lo stesso.
Lo shock
Il 12 dicembre 1969 alle ore 16:37 esplode una bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano; il bilancio complessivo è di 17 morti ed 88 feriti. Non sarà l’unico ordigno a salire agli onori della cronaca quel giorno; sempre nel capoluogo lombardo ne viene ritrovato uno inesploso (e fatto brillare in fretta dalla polizia prima di ogni possibile analisi dell’oggetto) alla Banca Commerciale in Piazza della Scala, mentre a Roma altre 3 bombe – una alla Banca Nazionale del Lavoro e due all’Altare della Patria – provocano 17 feriti.
Il Paese è sotto shock. Si tratta della prima strage di una simile portata dopo il 1945, un episodio di violenza gratuita ed indiscriminata.
Un Paese sotto shock ha bisogno di colpevoli, che la Polizia fornisce prontamente. Il pomeriggio stesso delle bombe sono fermati centinaia di militanti di estrema sinistra, con particolare attenzione agli anarchici. A portare avanti le indagini a Milano sono Luigi Calabresi e Antonio Allegra, rispettivamente commissario e capo dell’Ufficio Politico di Milano, affiancati dal questore Marcello Guida (ex direttore del confino fascista di Ventotene). Non è una novità che la polizia insista sull’ormai nota “pista anarchica”; è almeno la terza volta nel giro di qualche mese che i libertari sono sotto la lente di ingrandimento di Calabresi & co. e solo i più ingenui posso pensare che si tratti di un caso, dal momento che tutte le indagini riguardano attentati messi in atto dai neofascisti di Ordine Nuovo e coperti dalle istituzioni. Era la strategia della tensione.
Per comprendere a fondo i fatti e percepirne le sfumature è necessario descrivere lo scenario politico e sociale italiano nato nel secondo dopoguerra.
Prima di piazza Fontana
La Repubblica Italiana nata nel 1946 era fortemente influenzata dall’equilibrio politico internazionale; assegnata al blocco statunitense, l’Italia era un paese di forte tradizione socialista e di confine con la Jugoslavia comunista. Unendo questi fattori, che relegarono fin dal 1943 il PCI ed i partiti socialisti ad una sterile e consapevole “opposizione” istituzionale, al controllo dell’apparato repressivo da parte di reduci del regime mussoliniano non rimossi dal proprio incarico, non possono stupire gli episodi di violenza repressiva che si verificano tra il 1946 ed il 1968 né la palese connivenza tra istituzioni e fascisti più o meno missini, né il clima che si instaura negli anni ’60… Considerando che in quel periodo la penisola iberica era sotto il controllo delle dittature di Salazar e Franco, in Francia c’era De Gaulle (non una dittatura, ma di sicuro uno stato a vocazione autoritaria e conservatrice), in Grecia la dittatura dei Colonnelli e così via… con tutte le sue criticità, la Repubblica Italiana era un’eccezione, ma un’eccezione fragile e lacerata da spinte rivoluzionarie da sinistra e golpiste da destra. Non a caso nel ’64 fu progettato ma mai attuato un piano di colpo di stato (Piano Solo) da parte del generale dei carabinieri De Lorenzo. Sull’onda delle rivendicazioni del ’68 di lavoratori e studenti, gli operai ormai non accettano più compromessi né con i partiti né con i sindacati e vogliono trattare direttamente con i padroni ed i giovani, portando avanti le idee rinnovatrici libertarie e pacifiste che attraversano il mondo, diventano soggetto politico protagonista, ascoltano musica diversa dai loro genitori, indossano abiti diversi, si avviano verso la rivoluzione sessuale. La situazione sta sfuggendo dalle mani dello Stato, dei partiti, dei sindacati e – allargando la prospettiva – del Patto Atlantico. Tra le conferenze di Teheran e Jalta si era deciso che in Italia nessuna forma di socialismo avrebbe mai potuto avere la meglio, motivo per cui lo scenario della fine degli anni ’60 era intollerabile. In questo contesto la destra parlamentare, la corrente DC di Rumor ed il presidente Saragat, incoraggiate dagli Stati Uniti, sentono il bisogno di mettersi al sicuro ed eliminare il dissenso, infondendo nel popolo paura e necessità di sicurezza, sfruttando la manovalanza fascista di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Si moltiplicano le dichiarazioni pubbliche di politici che invocano quantomeno una repubblica presidenziale, lo scioglimento delle camere e l’intervento dell’esercito per ragioni di ordine pubblico. Il piano – concordato anche con i vertici greci con cui esponenti politici e militari italiani hanno contatti prima e dopo la strage – parte all’inizio del 1969 e trova il suo culmine nelle bombe del 12 dicembre, ma prosegue nel corso di tutti gli anni ’70 e mutatis mutandis arriva fino ad oggi.
Il primo episodio emblematico è la morte dello studente anarchico Congedo il 27 febbraio durante la visita di Nixon nella capitale. L’arrivo del neo-eletto presidente americano genera proteste e scontri in tutta la città, che vede contrapporsi l’estrema sinistra al connubio polizia-fascisti. Congedo, infatti, muore perché cade da un cornicione del Magistero occupato. Muore mentre cerca una via di fuga per sé e per chi come lui era assediato in quel momento dai fascisti che non trovano difficoltà nel praticare violenza ed attaccare l’edificio di fronte alle forze dell’ordine.
Quarantadue giorni dopo, il 9 aprile, la Polizia reprime con le armi la rivolta di Battipaglia, uccidendo una professoressa e uno studente e ferendo più di cento manifestanti.
La tensione sociale e politica è alle stelle e non a caso il 25 aprile 1969 a Milano vengono piazzate due bombe; una esplode allo stand della Fiat alla Fiera Campionaria provocando sei feriti (esplode alle 19:00, dopo l’orario di chiusura), una viene trovata inesplosa alla Stazione Centrale. Spetta al commissario Luigi Calabresi trovare i colpevoli delle bombe. Calabresi “indaga” sul mondo della sinistra rivoluzionaria, del resto quello serve, quelle sono le indicazioni, nonostante un attentato il 25 aprile faccia pensare ad una pista nera, e fa arrestare una quindicina di indagati, quasi tutti rilasciati subito tranne i giovani anarchici Braschi, Faccioli, Della Savia e Pulsinelli – considerati i diretti responsabili – e Vincileone e Corradini, militanti di mezza età ritenuti complici e soprattutto amici di Giangiacomo Feltrinelli, a sua volta accusato di falsa testimonianza per aver fornito un falso alibi agli arrestati ma in realtà tenuto sotto controllo per la sua attività politica. Insieme a loro sono processati anche i comunisti Norscia e Mazzanti, colpevoli dell’amicizia con Braschi. Corradini e Vincileone vengono scarcerati il 7 dicembre per mancanza di prove, mentre gli altri sono sottoposti a due anni di carcerazione preventiva, basata su effimeri indizi e confessioni ottenute con l’uso di torture e minacce, tra cui l’invito di Calabresi a Braschi a buttarsi dalla finestra della questura di Milano. A sostegno delle accuse la polizia presenta le testimonianze di Rosemma Zublena, evidentemente subornata da Calabresi, e di Enrico Rovelli, spia infiltrata nel movimento (nome in codice “Anna Bolena”). Per quanto concerne le bombe del 25 aprile gli imputati saranno assolti nel 1971.
Le bombe di aprile e la conseguente repressione fungono da prodromo delle bombe sui treni di agosto, quando, nella notte tra l’8 ed il 9, otto bombe su diversi treni delle Ferrovie dello Stato causano dodici feriti. La polizia accusa ancora una volta gli anarchici ed in particolare il ferroviere milanese Giuseppe Pinelli – noto anarchico, ex partigiano attivo nella solidarietà con i compagni arrestati e con la resistenza in Grecia e Spagna –. L’attenzione della Polizia è tutta sui gruppi di Roma e Milano, i cui militanti sono sottoposti a continue intimidazioni e controlli.
La storia (e sì… in parte i tribunali!) ci ha dimostrato che tutti gli attentati erano stati organizzati dai fascisti di Ordine Nuovo: cominciava ufficialmente la strategia della tensione, ovvero l’attuazione del terrorismo di stato per mano neofascista e militare volto a diffondere una paura che giustificasse una svolta autoritaria, anticomunista e controrivoluzionaria in Italia.
Dopo l’estate si rinnovano le lotte di studenti e lavoratori che già l’Italia aveva conosciuto dalla primavera del ’68, dando vita al cosiddetto “Autunno Caldo”, periodo che vede una crisi produttiva e di governo associate alle proteste degli operai per il rinnovo di contratto, in particolare dei metalmeccanici. Arriviamo così a dicembre. All’inizio del mese settimanali inglesi e tedeschi riportano notizie su un possibile colpo di stato militare in Italia sostenuto dalle destre e, negli ambienti politici, si vocifera di qualcosa di grosso che sta per avvenire…
Il 12 dicembre
Si son levati tutti il cappello
prima di fare questo macello
Ritorniamo al 12 dicembre del 1969, quando quattro bombe tra Roma e Milano causano 17 morti e decine di feriti.
Come da copione, la Polizia ferma centinaia di militanti anarchici. Nei frenetici giorni successivi alla strage sono individuati come responsabili gli anarchici del gruppo romano “22 marzo” Pietro Valpreda, Roberto Gargamelli, Emilio Borghese, Emilio Bagnoli e Roberto Mander (del circolo “Bakunin”). Enrico Di Cola, anche lui nel gruppo, riuscirà a sfuggire all’arresto; fermato, picchiato e minacciato dai Carabinieri il 12 dicembre stesso, vive diverso tempo in clandestinità per poi fuggire in Svezia, dove otterrà l’asilo politico per la persecuzione subita, unico caso al mondo nel dopoguerra di concessione da parte di un paese “occidentale” per i provenienti da un altro paese “occidentale” e “democratico”.
Lo Stato e l’opinione pubblica hanno ora i mostri da sbattere in prima pagina, e sono stati scelti oculatamente: un gruppo di giovani anarchici usciti dal “più moderato” Circolo Bakunin di Roma affiancati dal responsabile materiale della strage di Milano, Pietro Valpreda. Trentaseienne, milanese, ballerino, è il profilo perfetto dell’anarchico stravagante e pericoloso, la figura adatta da proporre ad un paese democristiano e bigotto. Viene poi descritto come particolarmente incline alla violenza tanto che durante un corteo avrebbe urlato lo slogan “Bombe, sangue, anarchia!”. L’accusa a Valpreda si fonda su un riconoscimento del tassista Rolandi – poi si saprà – costretto a riconoscerlo, morto prematuramente nel 1971 prima che i processi potessero coinvolgerlo. Va precisato che Rolandi vide una foto di Valpreda prima del riconoscimento («è lui che devi riconoscere») e che il tassista si limitò a dire – rivolgendosi a Valpreda – «Se non è lui, non è nessun altro in questa stanza». Nonostante poi la presenza nel Gruppo 22 marzo di un infiltrato fascista (Mario Merlino) e di un poliziotto (Andrea Politi alias Salvatore Ippolito), questi non riusciranno a fornire alcuna prova del coinvolgimento anarchico negli attentati. Non ci riusciranno semplicemente perché le prove non esistono. Anche per questa ragione la sera del 15 dicembre, nella questura di Milano, Giuseppe Pinelli è sottoposto ad estenuanti interrogatori in stato di fermo illegale: dopo tre giorni di fermo avrebbe dovuto ormai essere stato arrestato o rilasciato.
L’assassinio di Pinelli
Quella sera a Milano era caldo
ma che caldo, che caldo faceva.
«Brigadiere, apra un po’ la finestra»
e ad un tratto Pinelli cascò.
Ritorniamo all’esplosione del 12. Quel pomeriggio la polizia ferma anche Giuseppe Pinelli con i suoi compagni del Circolo del Ponte della Ghisolfa, di cui “Pino” è anche fondatore. Quando i poliziotti si presentano alla sede del Circolo si pensa ad un controllo di routine, del resto gli anarchici vengono perseguitati da mesi…figuriamoci se possono essere lasciati in pace dopo una strage simile! Dal momento che i posti in macchina non bastano, Pinelli segue addirittura autonomamente sul proprio mezzo le macchine della Polizia che si recano in questura. Col passare delle ore e dei giorni la questura rilascia quasi tutti i fermati; “quasi”, perchè la sera del 15 dicembre in via Fatebenefratelli ci sono ancora due anarchici: Pinelli e Pasquale “Lello” Valitutti. Solo Lello uscirà della Questura vivo, Pino ne uscirà quantomeno incosciente…ma dalla finestra del quarto piano. In tarda serata infatti Pinelli è sottoposto nuovamente ad un interrogatorio nella stanza del commissario Calabresi, nonostante il suo alibi di ferro; era al bar al momento dell’esplosione, e diversi testimoni possono confermarlo, ma gli interrogatori continuano. Nella stanza sono presenti – oltre a Pino – cinque tra poliziotti e carabinieri e forse anche degli uomini del U.A.R. (Ufficio Affari Riservati, cioè dei Servizi segreti i cui esponenti di spicco sono il nazifascista dichiarato Russomanno e Catenacci agli ordini di Federico Umberto D’Amato) che se non sono nella stanza sono sicuramente nell’edificio. Perchè trattenere così a lungo Pinelli? Innanzitutto, in quanto ferroviere, fin dall’agosto era stato accusato delle bombe sui treni e l’intenzione della polizia è di collegare le diverse esplosioni verificatesi durante l’anno per fare piazza pulita di anarchici; secondo poi Calabresi tenta di estorcergli una confessione riguardo la presunta vocazione violenta e “bombarola” di Valpreda, contemporaneamente arrestato a Roma. Pinelli, però, non cede. Sa che la colpa di altre esplosioni era stata già addossata ingiustamente a lui ed agli altri durante quell’anno, conosce Calabresi ed i suoi metodi “convincenti” e poco (o molto?) democratici di condurre indagini ed interrogatori, capisce la montatura. Pinelli non cede neanche quando la polizia mette in piedi l’extrema ratio: il “saltafosso”. Gli viene cioè mostrato un finto documento che testimonierebbe la confessione (mai avvenuta) di Valpreda per farlo cedere, per fargli dire qualcosa che potrebbe in qualche modo inchiodare lui o altri. Ma questo non avviene. Non sappiamo esattamente cosa sia successo dopo, sappiamo solo che qualche minuto prima della mezzanotte Pino cade dalla finestra di quella stanza, viene portato all’ospedale sotto il controllo di un poliziotto e dichiarato morto. A quel punto il cadavere è trasportato direttamente all’Istituto di Medicina Legale e non all’obitorio, come prevede la legge.
Venti minuti dopo la “caduta”, Guida, Allegra e Calabresi forniscono la prima versione ufficiale in conferenza stampa. Dicono che l’alibi di Pinelli era crollato e che per questo con un “balzo felino” si era gettato dalla finestra alla presenza di quattro poliziotti ed un carabiniere, ma non di Calabresi, uscito poco prima. Il brigadiere Panessa afferma addirittura di aver trattenuto una scarpa del suicida nel tentativo di fermarlo. I giornalisti lì presenti fanno subito notare che Pinelli si era schiantato al suolo con tutte e due le scarpe ai piedi. Una delle molte falle e falsità di questa versione e non solo di questa.
Partiamo dalle certezze che abbiamo: Pinelli non si è gettato e non è caduto, ma è stato lanciato dalla finestra. La prima conferma arriva dalla testimonianza di Lello Valitutti, unico civile presente in questura, che afferma di aver sentito dei rumori di colluttazione dalla stanza, poi del silenzio ed infine il tonfo del corpo di Pino che cade senza nessun urlo o frastuono. L’autopsia evidenzia come le lesioni sul suo cadavere siano esclusivamente toraciche ed addominali, non vi sono quindi escoriazioni sulle mani, inevitabili se chi cade è cosciente e tenta di proteggersi per istinto. Altra prova è il fatto che abbia impattato i cornicioni durante la caduta: non c’era stata nessuna spinta, quello che cadeva era un corpo esanime.
I dubbi sulla versione della polizia sono rafforzati e confermati dall’impegno con cui si tenta di insabbiare tutto: quando, durante il processo, il giudice si reca con Lello Valitutti in questura per verificare la possibilità di osservare il corridoio del quarto piano dalla posizione in cui si trovava la sera del 15 dicembre, c’è un mobile a coprire una larga apertura che permetteva la vista al testimone…peccato che si vedano sul pavimento i segni del recente spostamento. Il fondo si tocca quando la Questura presenta ai magistrati la piantina della stanza di Calabresi; le dimensioni sono di 3,32 m x 4,56 m con tavoli, sedie, armadi, Pinelli ed almeno cinque poliziotti dentro (ci risulta difficile pensare che Pino sia riuscito ad evitare tutti e gettarsi da una finestra larga un metro, “sorvegliata” per altro da due poliziotti) ma, per farla sembrare più ampia ed adatta al balzo felino dell’anarchico, i mobili e le sedie sono stati disegnati a dimensioni molto ridotte, tanto da arrivare a rappresentare le sedie come larghe 20 cm. Neanche la magistratura se la sentirà di accettare questa documentazione.
Il fatto che Pino sia stato tramortito e poi lanciato sembra essere confermato da altri due fatti: l’orario della chiamata all’ospedale rapportato a quello della caduta del corpo. La chiamata per l’ambulanza avviene qualche minuto prima della mezzanotte, così come la caduta. Ciò che fa pensare è che l’ambulanza sia stata chiamata prima che il corpo precipitasse dal quarto piano e non dopo. Al contrario, la questura registra il fatto come avvenuto il 16 dicembre poco dopo la mezzanotte. Questo affinchè risultasse di competenza del procuratore Caizzi, più facilmente manovrabile rispetto al collega Paolillo a cui sarebbero spettate le indagini sul 15 dicembre. Insomma, i tasselli cominciano a dare un’immagine ben precisa di quanto avvenuto.
Calabresi
«Stiamo attenti, indiziato Pinelli
questa stanza è già piena di fumo;
se tu insisti apriam la finestra
quattro piani son duri da far»
Arriviamo adesso al nodo tutt’oggi più discusso: la presenza di Calabresi nella sua stanza al momento della caduta. Per affrontare il tema citerò la testimonianza di Lello Valitutti, di cui riporto la parte chiave (presa dall’intervista a Lello Valitutti di Osservatorio Repressione):
«A quell’ora lavorava solo l’Ufficio Politico della Questura intorno ai fatti di Piazza Fontana. C’era un silenzio terribile, ero solo in quello stanzone dove c’era una di quelle macchinette per il caffè. Ero seduto e di fronte a me c’era un’apertura grande come 4-5 porte, molto grande. Un’apertura che dava sul corridoio, non arrivava fino al pavimento, ma non era nemmeno troppo alta. Dalla mia posizione potevo vedere bene il corridoio. Prima di mezzanotte, penso un quarto d’ora, venti minuti prima, così all’improvviso, iniziano ad arrivare dei rumori che provenivano dalla stanza degli interrogatori. Sentivo dei rumori che posso descrivere come un trambusto, delle voci con toni alti, un parlare concitato. Fino ad allora non avevo sentito assolutamente nulla, erano diverse ore che Pino era li dentro. All’improvviso sento questi rumori e mi allarmo. Allora cosa succede? Dopo un quarto d’ora, 20 minuti, sento un rumore che rompe il silenzio della notte, un tonfo in quel silenzio assoluto. Dopo pochissimo tempo sento spostarsi della gente nel corridoio, vengono da me: “cos’è successo?”, mi dicono: “si è buttato”. Arriva poi Calabresi che mi dice: “stavamo parlando tranquillamente, non capisco perché si sia suicidato”. Non gli ho chiesto se era nella stanza; mi ha detto: “stavamo parlando tranquillamente…” era evidente, per come l’ha detto, che lui era nella stanza. Non me l’ha detto esplicitamente, ma era assolutamente evidente che era nella stanza dove c’era Pinelli”. E ancora “Vengo preso e portato a San Vittore, vengo lasciato li tutta la notte e alla mattina rilasciato. Dopo mi avvicina un avvocato che mi chiede: “Lello, ma hai visto qualcuno passare nel corridoio nei momenti precedenti l’assassinio di Pinelli? (dico sempre ’assassinio’ perché per me così è stato). Io dico: “no, non è passato nessuno; ho sentito dei rumori prima, 15-20 minuti pima, ma dopo non è passato assolutamente nessuno”, “ma Lello, non ti sarai distratto?”, dico “no, ero li di fronte alla porta, aspettavo di capire cosa era successo nella stanza degli interrogatori”. Ma quello, l’avvocato, insiste, tant’è che gli dico: “eh cavolo, te l’ho già detto, perché insisti così?” Allora, quando mi venne chiesto la prima volta se avevo visto passare qualcuno nel corridoio, io non sapevo ancora quello che aveva detto il commissario Calabresi, non lo sapevo proprio. In quel momento la mia testimonianza, in sé stessa, non voleva dire niente. Quando diventa importante? Quando smentisce quello che Calabresi aveva affermato. Infatti Calabresi aveva detto: “non ero nella stanza dove è morto Pinelli, sono uscito pochi istanti prima per andare nell’ufficio di Allegra”. L’ufficio di Allegra era di fronte all’apertura nella parete che ho descritto prima. Quando vengo a sapere cosa sostiene Calabresi capisco che ha mentito. Non è uscito nei momenti che precedono la morte di Pinelli, nell’ufficio di Allegra non c’è sicuramente andato. Lui si costruisce questa scappatoia; mi spiego no? “Ma come fai a essere così sicuro che non è passato?”, “ma guarda, ero attento, era buio, era tutto silenzioso, era impossibile non sentire rumore di passi nel corridoio. Poi il fatto che lui mi dica: “stavamo parlando tranquillamente…”
Lello Valitutti, Osservatorio Repressione
Questa testimonianza l’ho fatta al primo magistrato che mi ha interrogato, che mi sembra fosse Caizzi, a lui ho detto queste cose. Sono andato avanti 45 anni a dirle, sono sicuramente monotono e ripetitivo, però la verità non ha il dono della variabilità. Non può essere variata, modificata, è la verità.»
Calabresi sarà ucciso nel 1972, insignito della medaglia d’oro al merito civile alla memoria e proclamato servo di Dio dalla Chiesa Cattolica (non è uno scherzo). È, inoltre, iniziato un processo di beatificazione (non è uno scherzo!). C’è quindi la possibilità che le nostre affermazioni oltre risultare poco simpatiche allo Stato risultino poco simpatiche anche alla Chiesa…non sarebbe una novità, non sarebbe un male.
I processi
Non dobbiamo chieder luce
a chi luce non può fare:
se i padroni metton bombe,
non lo vanno a raccontare!
Nel 1970 la morte di Pinelli viene archiviata dal giudice Amati come “suicidio”. La redazione del giornale Lotta Continua – d’accordo con gli anarchici – decide allora di provocare ed insultare pubblicamente Calabresi, definendolo assassino, al fine di essere querelati e far riaprire le indagini. Alla fine Calabresi querelò personalmente Pio Baldelli, direttore di Lotta Continua, per falso e diffamazione. Il processo evidenzia sospette incongruenze e dimenticanze nelle versioni dei poliziotti e nel frattempo il processo per le bombe del 25 aprile discredita la serietà delle indagini ed il giudice Amati. Quando viene chiesta la riesumazione del corpo di Pinelli per una nuova perizia medico-legale, l’avvocato di Calabresi prima si oppone, poi arriva alla ricusazione del giudice Biotti, che dopo molte esitazioni aveva accettato la riesumazione. Nel 1971 la Corte d’appello di Milano accetta la scandalosa ricusazione ed il processo si ferma. L’azione discplinare verso il giudice si concluderà con la sospensione dell’incarico, il taglio dello stipendio ed il trasferimento.
Nel giugno del 1971 la vedova di Pinelli, Licia Rognini, chiede ufficialmente la riapertura dell’istruttoria contro tutti i poliziotti ed il carabiniere presenti. L’istruttoria, affidata al giudice D’Ambrosio, viene riaperta per omicidio colposo, trasformato poi in volontario, in modo che una volta assolti per quel capo d’accusa, non possano più esserne imputati in seguito. Come prevedibile, nel 1975 D’Ambrosio deposita la sentenza che assolve i servitori dello stato e parla di un malore che avrebbe portato Pinelli a buttarsi per sbaglio (da lì la celebre espressione malore attivo).
Il processo per le bombe di piazza Fontana comincia nel 1972. Alla fine dello stesso anno avviene la scarcerazione degli anarchici arrestati. Nel 1979 Valpreda e Merlino sono condannati a 4 anni per associazione sovversiva mentre i fascisti di Ordine Nuovo Freda e Ventura all’ergastolo in primo grado. Nel 1981 e poi nel 1987 saranno tutti assolti per mancanza di prove. Nel 2005 la Corte di Cassazione conferma la responsabilità fascista ma i due imputati Freda e Ventura non possono essere messi sotto processo essendo già stati assolti irrevocabilmente. Rimane quindi il fatto che Freda e Ventura non hanno pagato in nessun modo per le loro azioni e sono stati assolti come Valpreda, cioè per insufficienza di prove.
Dopo piazza Fontana
Se un compagno è stato ammazzato
per coprire una strage di Stato
questa lotta più dura sarà.
Come detto più volte, piazza Fontana è un punto di rottura, sicuramente non nato dal nulla, ma possiamo dire con certezza che c’è un prima e un dopo. Quelle bombe segnano un punto di non ritorno. L’effetto immediato fu quello di paralizzare per qualche tempo le lotte operaie, frenate dalla paura e dallo smarrimento, tanto che nel gennaio del 1970 il Parlamento approvò lo Statuto dei lavoratori, presentato come una vittoria della classe operaia, ma che in realtà era un passo indietro rispetto alle rivendicazioni di autogestione e libertà dei lavoratori. Lo Statuto rese infatti obbligatoria l’intermediazione dei sindacati asserviti ai partiti. Per fortuna, però, il tentativo di colpo di stato fascio-democratico non riuscì. Già ai funerali delle vittime di Piazza Fontana piazza del Duomo era colma di persone e l’organizzazione degli operai impedì che si verificassero disordini. Non vi fu la richiesta di maggior controllo e repressione da parte della popolazione, i compagni si mobilitarono immediatamente per smontare la trama controrivoluzionaria e fu così che la strategia della tensione continuò, portando a centinaia di morti. I primi si hanno l’anno dopo la strage; cinque compagni anarchici calabresi muoiono in un “incidente” con un autocarro di proprietà di dipendenti del principe Borghese (ex comandante della X Flottiglia MAS, tenterà l’8 dicembre 1970 un colpo di stato) mentre si stavano recando alla redazione di Umanità Nova di Roma con importanti prove riguardanti la strage di Milano ed il deragliamento di Gioia Tauro. Dopo il fatale scontro e l’arrivo della polizia politica da Roma, nonostante il luogo si trovasse a 60km dalla Capitale, non sono stati ritrovati i loro importanti documenti. La carneficina prosegue esattamente un anno dopo piazza Fontana, quando il militante comunista rivoluzionario Saverio Saltarelli rimane ucciso perché colpito da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo dalla Polizia. L’elenco delle vittime di questo infame meccanismo sarebbe troppo lungo, basti ricordare Piazza della Loggia, il treno Italicus e la stazione di Bologna.
Il ’69 segna il defintivo distacco del Partito Comunista – che si assesterà su posizioni sempre più socialdemocratiche, scendendo a patti con la DC e appoggiando la teoria degli opposti estremismi – e le frange più radicali della sinistra extraparlamentare. Molte e molti, dopo quei fatti, dopo la presa di coscienza di ciò che stavano combattendo, scelsero la via della lotta armata. Pensarono che se non ci fosse stata una risposta dura e violenta alla violenza dello Stato e del Capitale, sarebbe avvenuto in Italia quello che era avvenuto in Grecia.
Come un vecchio discende il fascismo,
succhia la vita ad ogni gioventù
Non sentite il grido sulla barricata?
La classe operaia lo aspetterà armata.
In conclusione
In mezzo secolo il mondo è cambiato radicalmente, ma il sistema si regge ancora sulla paura. La paura del nuovo nemico esterno permette di distrarre le masse dalle criticità del sistema stesso e, mentre passano anni e generazioni, la rimozione del passato si perpetua sotto il sereno controllo del potere che si rigenera e passo dopo passo fa sì che il passato legittimi il presente. Si equiparano fascismo e comunismo, Shoah e foibe, Umberto I e Bresci, Calabresi e Pinelli.
Spetta a noi inceppare questo meccanismo di falsificazione del passato.
— Compagno Alessandro
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