Charles Bettelheim, il teorico della transizione al socialismo: Il secondo tomo di Le lotte di classe in URSS 1923-1930

Il seguente testo, tagliato nella parte finale e leggermente modificato, è stato pubblicato dalla casa editrice Pgreco come introduzione al secondo volume di Le lotte di classe in URSS 1923-1930.

  1. Introduzione

La crisi di legittimità del partito nelle campagne alla fine del comunismo di guerra convinse i bolscevichi ad effettuare una rettifica della propria politica. In questo contesto nacque la Nuova Politica Economica (NEP). Le illusioni sulla possibilità di passare in poco tempo al comunismo in un paese arretrato e distrutto dalla guerra, come la Russia di allora, furono messe in discussioni con grande lucidità e pragmatismo e venne lasciato spazio all’iniziativa privata e al mercato per consentire la ripresa economica del paese. Tuttavia, sostiene Charles Bettelheim, non dobbiamo considerare la NEP come una ritirata strategica. Neanche come una serie di politiche economiche bensì come “un’alleanza attiva tra la classe operaia e i contadini: un’alleanza sempre più chiaramente definita da Lenin come destinata non solo a garantire il “ristabilimento dell’economia”, ma anche a permettere di trascinare le masse contadine sulla via del socialismo”. E ancora “la NEP non è dunque né una mera “politica economica”, né una mera “ritirata”: è una forma particolare della dittatura del proletariato che esige il rispetto di un certo numero di orientamenti politici e di principi fondamentali. La necessità di questa forma nelle condizioni della Russia sovietica è una delle lezioni che Lenin trae dal “comunismo di guerra”. Quest’esperienza insegna che occorre sostituire al tentativo di “assalto frontale” (che caratterizza gli anni 1918-1920) una guerra di posizione. Questa “guerra” può condurre alla vittoria del socialismo se il partito dirigente vede chiaramente su quale terreno si trova fin dall’inizio — il terreno dei rapporti sociali reali, ancora capitalistici —, e se si prefigge di contribuire a suscitare le condizioni necessarie al dominio e alla trasformazione di tali rapporti, trascinando le masse contadine nella nuova lotta che è una lotta per il socialismo”1. Charles Bettelheim in questo libro spiegherà le cause della crisi della NEP riconducendole alla mancata applicazione del progetto originario come conseguenza dell’indirizzo preso dalla lotta di classe in URSS che spianerà la strada all’industrializzazione a tappe forzate e alla rivoluzione dall’alto dello stalinismo.

  1. La crisi della NEP nelle campagne

Sappiamo già che la Rivoluzione d’Ottobre nelle campagne ha comportato la riduzione delle diseguaglianze. Una parte dei contadini poveri è finita per integrare i ranghi dei contadini medi. I kulaki rappresentavano una minoranza, come dimostrano le statistiche a disposizione dei bolscevichi. Per quanto riguarda le forniture di grano commerciabile, la maggior parte di esso, l’88% secondo le statistiche del 1925, veniva fornito dai contadini medi e poveri contro l’11% fornito dai kulaki. Questi numeri si spiegano con la mancanza di liquidità a disposizione di questi contadini per poter pagare debiti, imposte e comprare i manufatti industriali per ridurre la propria dipendenza dai contadini ricchi. Di conseguenza sono obbligati a vendere i loro raccolti alle città mentre i kulaki hanno la possibilità di riversare il grano sul mercato rurale durante l’anno.

Tuttavia Charles Bettelheim ci ammonisce dal pensare ad un ruolo trascurabile dei kulaki nelle campagne:

“Sarebbe senz’altro un grave errore dedurre […] che il ruolo sociale e politico dei kulaki sia allora trascurabile. Al contrario, il loro ruolo è importantissimo, ma non per la parte che essi hanno nella produzione, bensì, sul piano della circolazione, per i rapporti commerciali che intrattengono con i contadini poveri e medi; sul piano ideologico, per l’illusione che alimentano di un avvenire aperto alla possibilità di un notevole arricchimento individuale, illusione a cui soccombe un certo numero di contadini medi, che rinunciano di conseguenza alle forme collettive di produzione; sul piano politico, in particolare per l’influenza che possono esercitare nelle assemblee contadine”2.

L’idea che i kulaki abbiano un ruolo decisivo nell’approvvigionamento della città, tesi sostenuta dall’opposizione trockijsta-zinovievista, è di conseguenza errata ma permane nell’analisi dei bolscevichi. In particolare nella spiegazione della crisi degli ammassi del 1927-1928 che contribuirà alla fine della NEP.

Tra il luglio e il settembre del 1927 aumentano gli ammassi grazie all’azione dei kulaki che possiedono i mezzi di produzione e trasporto. Il loro obiettivo era abbassare il prezzo del grano prima del mese di ottobre, cioè il periodo in cui i contadini poveri e medi portano all’ammasso il proprio raccolto.

Nell’autunno del 1927 le forniture di grano cadono di colpo. I motivi sono da ricercare nel crollo dell’approvvigionamento di manufatti industriali nelle campagne nella seconda metà del 1927 e nella negligenza degli organi dello Stato e delle cooperative. La loro passività davanti alle mancate consegne di grano si spiega sia con la minore pericolosità della concorrenza del commercio privato che con gli ordini contraddittori del Gosplan e del partito. Il primo invitava i contadini a vendere il proprio raccolto mentre il partito voleva evitare la concorrenza tra i contadini perché temeva un aumento del suo prezzo. Inoltre, non è detto che i contadini possiedano, oltre al grano venduto, delle riserve. Infatti, quando non sono costretti a vendere il proprio grano, preferiscono utilizzarlo per aumentare il proprio consumo personale o quello del loro bestiame. Oppure creare delle scorte per evitare di dover comprare cereali a debito dai kulaki. La lotta per rompere la dipendenza dai kulaki è decisiva per i contadini medi e poveri. Le vendite effettuate servono per acquisire i mezzi necessari per aumentare la produzione. La redistribuzione delle terre, infatti, non è stata accompagnata da una redistribuzione degli strumenti di lavoro. Non è un caso che Lenin abbia insistito con decisione sulla necessità di consegnare ai contadini poveri più prodotti industriali di quanto abbiano mai fatto i capitalisti.

I bolscevichi non furono in grado di seguire le indicazioni di Lenin. “L’insufficienza di uno sforzo economico prioritario a favore dei contadini poveri e medi comporta gravi conseguenze. Una simile priorità si impone infatti e dal punto di vista politico, perché l’appoggio dei contadini poveri e medi al potere sovietico è indispensabile al consolidamento della dittatura del proletariato; e dal punto di vista economico, perché le maggiori potenzialità di incremento della produzione risiedono nelle aziende dei contadini poveri e medi: infatti esse sono sotto-attrezzate, buona parte delle loro terre non può nemmeno essere coltivata, e infine — mancando ai contadini la proprietà degli strumenti di lavoro — il rendimento della terra è più basso, dunque più suscettibile di un rapido aumento”3.

Queste mancanze del potere sovietico impedirono di sostenere adeguatamente i contadini poveri e medi disposti ad intraprendere la via della cooperazione, pregiudicando anche l’incremento dei raccolti grazie ad un miglior utilizzo delle superfici da coltivare, delle macchine e la realizzazione di tempi di coltura migliori.

La crisi degli ammassi del 1927-1928 è una conseguenza, quindi, di gravi errori politici aggravati da una debole presenza dei bolscevichi nelle campagne e dall’ideologia che guida le analisi dei bolscevichi, i quali preferiscono concentrare le proprie risorse sullo sviluppo dell’industria piuttosto che sul sostegno ai contadini medi e poveri. Una rapida industrializzazione richiedeva un livello degli ammassi alto e costante nel tempo. Di conseguenza, i bolscevichi iniziarono sempre di più a ricorrere a “misure eccezionali” coercitive per raggiungere questo obiettivo, deteriorando l’alleanza tra operai e contadini e rafforzando l’influenza ideologica dei kulaki nei villaggi. Le misure coercitive da eccezionali divennero strutturali, segno di un progressivo abbandono della politica della NEP che avvenne nel 1929.

Boris Kagarlitsky4 aggiunge a questa spiegazione altri importanti dettagli. La crisi degli ammassi non sarebbe mai stata decisiva per l’equilibrio socio-politico del paese se non avesse intersecato processi completamente opposti che stavano avvenendo nell’economia mondiale. Infatti, nel mercato interno il prezzo del grano stava aumentando ma sul mercato globale stava rapidamente diminuendo, andando a pregiudicare la strategia di industrializzazione del paese basata sull’esportazione di grano per finanziare l’acquisto di macchine utensili e tecnologie.

Più l’Occidente si avvicinava alla Grande Depressione, più diminuivano i prezzi dei prodotti agricoli e questo processo stava portando al fallimento del programma di industrializzazione sovietico. Questo spiega in parte le misure repressive verso la campagna del 1928. Tuttavia, il potere sovietico non poteva proseguire in eterno con queste politiche di requisizione per mantenere il controllo del mercato alimentare. Emerse in questo contesto la politica della collettivizzazione totale e della liquidazione dei kulaki in quanto classe. Le aziende agricole dovevano essere riorganizzate in fattorie collettive subordinate allo Stato. In questo modo prendeva forma un controllo statale diretto su queste aziende con la possibilità di ottenere per via amministrativa, in qualsiasi momento, la quantità di grano necessaria allo Stato. Il mercato veniva, così, aggirato.

  1. La situazione nelle fabbriche e il problema del taylorismo sovietico

Alla fine della NEP troviamo nelle fabbriche statali le stesse regole imposte nella primavera del 1918, ovvero, un sistema di direzione unica dell’impresa, nominata dagli organi centrali e non soggetta al controllo dei lavoratori. Queste misure erano state adottate in maniera provvisoria, per rimettere in piedi la produzione il più velocemente possibile. Nel 1926 questi problemi sono stati risolti ma la forma di direzione delle imprese è rimasta intatta. Parliamo di forme non socialiste che implicano la presenza di rapporti capitalistici al livello stesso del processo di produzione immediato. Di tutto ciò Lenin era perfettamente consapevole. Parlava esplicitamente di un passo indietro che rafforzava il capitale, anche se si trattava di aziende statali. Tuttavia, dal 1926 “le aziende statali, anziché essere presentate — come si faceva prima — come appartenenti a un “settore di Stato” di cui è necessario analizzare il carattere contraddittorio, si trovano globalmente designate come facenti parte di un “settore socialista” in cui i rapporti di produzione non avrebbero carattere contraddittorio. È questo uno degli aspetti delle trasformazioni intervenute nella formazione ideologica bolscevica, trasformazioni che si legano alla lotta dei dirigenti delle aziende statali per rafforzare la loro autorità e accrescere il loro ruolo politico e sociale. Esse non possono essere disgiunte dal fatto che l’origine proletaria crescente dei dirigenti d’azienda tende a essere identificata con lo sviluppo del ruolo dirigente del proletariato come classe, laddove quest’origine di classe dei dirigenti d’azienda non garantisce affatto una loro posizione di classe e non può evidentemente modificare il carattere di classe dei rapporti sociali di produzione esistenti”5.

Dentro le fabbriche, grazie alle posizioni prese nell’XI Congresso, sorsero le conferenze di produzione composte da rappresentanti degli organi economici, dei sindacati ma anche dei lavoratori iscritti al partito e senza partito. Il compito di queste conferenze era esaminare le questioni riguardanti la produzione e i risultati ottenuti. Si trattava di un meccanismo di controllo della gestione dei dirigenti d’azienda dal basso, i quali sono spaventati da queste organizzazioni nelle quali vedono la rinascita del controllo operaio del 1917. Sotto l’impulso di Stalin, nel 1928, si sviluppò un movimento di critica e autocritica con un’attiva partecipazione dei lavoratori con l’obiettivo di contrastare le inefficienze della produzione sovietica e gli abusi di potere dei dirigenti industriali, inclusi quelli di estrazione proletaria che stavano adottando uno stile di vita da specialisti borghesi.

Tuttavia, il partito bolscevico non fu in grado di focalizzare l’azione di questo movimento sul nodo della trasformazione dei rapporti di produzione. Questa dispersione delle energie, unita al mancato sostegno del partito, portarono il movimento ad estinguersi rapidamente. Dal 1929 viene nuovamente posto l’accento sulla disciplina in fabbrica e i sindacati smisero di sostenere le iniziative degli operai potenzialmente non approvate dal partito. Da questa situazione uscirono rafforzati i dirigenti delle imprese sovietiche che ora avevano a disposizione nuovi strumenti per imporre la disciplina con la forza.

Nello stesso periodo sorse un movimento che aveva come obiettivo la trasformazione del taylorismo in un taylorismo sovietico. Ci troviamo davanti ad un aspetto molto importante per comprendere lo sviluppo dell’industria sovietica. Per procedere nella nostra analisi, siamo costretti a fare un passo indietro.

Abbiamo a disposizione una serie di analisi che cercano di mostrare l’approccio teorico di Lenin al taylorismo e le sue preoccupazioni quando spinge per far adottare il modello di organizzazione della produzione razionale in Russia. L’analisi più importante è sviluppata da Robert Linhart in Lenin, i contadini e Taylor del 1977.

All’inizio del XX secolo scoppiano in Francia e negli Stati Uniti i primi importanti scioperi contro il taylorismo, una nuova organizzazione del lavoro che si presenta come scientifica e che per ritmi di lavoro di due o tre volte maggiori paga gli operai con lo stesso salario. I lavoratori si erano già accorti dell’origine di questa scientificità del taylorismo.

“Il sistema Taylor ha come funzione essenziale quella di dare alla direzione capitalistica del processo lavorativo i mezzi per appropriasi tutte le conoscenze pratiche fino allora monopolizzate di fatto dagli operai. Non ci troviamo dunque affatto – o quasi – di fronte a una produzione di nuove conoscenze, bensì all’appropriazione da parte del capitale e dei suoi agenti del sapere operaio”6.

Lenin, sulla scia di questi eventi e con l’introduzione del Sistema Taylor in Russia da parte delle imprese straniere, pubblica due importanti articoli sulla Pravda tra il marzo del 1913 e il marzo del 1914 sul taylorismo. Il primo, Sistema “scientifico” per spremere il sudore, lo vede accusare il Sistema Taylor di provocare la disoccupazione e di aumentare lo sfruttamento dei lavoratori. Il secondo, Il taylorismo esserve l’uomo alla macchina, riprende le accuse del primo lavoro ma le approfondisce.

Lenin si sforza di ricercare la razionalità dietro questa organizzazione scientifica del lavoro e la trova, ad esempio, nell’eliminazione dei movimenti superflui dei lavoratori o nella disposizione dei macchinari per ridurre gli spostamenti inutili. Queste decisioni hanno una precisa razionalità. Tuttavia, questa organizzazione razionale dentro la fabbrica si scontra con l’anarchia del mercato al suo esterno. Qui si inserisce la lettura leninista del taylorismo. La sua razionalità non deve essere limitata alla produzione ma deve essere estesa all’intera economia. Questo obiettivo, sostiene Lenin, non potrà mai essere realizzato dalla borghesia.

Dal 1914 al 1918 non citerà più esplicitamente il taylorismo nei suoi scritti anche se doveva essere incluso nel suo capolavoro L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo. Infatti se ne trovano delle tracce nei quaderni preparatori come riflessioni sulla razionalizzazione tecnica che nel capitalismo monopolistico prepara il socialismo.

Linhart, inoltre, cita delle annotazioni di Lenin ad una copia tedesca del libro La direzione di impresa di Taylor, dove si mostra interessato alle funzioni svolte da una parte del proletariato nel Sistema Taylor, ovvero i capireparto che sono chiamati a monitorare il lavoro degli altri operai.

Queste nuove figure professionali vengono criticate per il ruolo svolto nella nascita di una nuova aristocrazia operaia imborghesita grazie a salari superiori agli altri operai.

Tuttavia Lenin resta affascinato dal progresso tecnico permesso dal taylorismo.

Analizzando Studio del movimento come incremento della ricchezza nazionale di Gilbreth resta affascinato dallo studio dei “micromovimenti” che promette di standardizzare le attività del lavoro manuale, permettendone la misura e il controllo.

Dopo la rivoluzione la situazione economica della Russia è disastrosa. Per ristabilire la disciplina nelle fabbriche e aumentare la produttività del lavoro il taylorismo sembrava la soluzione ideale. Ovviamente questa posizione di Lenin non è digerita da tutti allo stesso modo e per trionfare dovette scontrarsi con l’opposizione interna ai bolscevichi, come quella di Bucharin, dei menscevichi e degli anarchici.

Per Lenin è possibile liberare il taylorismo dalle sue caratteristiche capitalistiche. Linhart cita due condizioni perché questo sia possibile.

La prima è la democrazia all’interno delle fabbriche che dovrebbe permettere agli operai di riappropriasi del taylorismo ed utilizzarlo per aumentare la produttività del proprio lavoro. Viene quindi promossa una forma di appropriazione collettiva del sapere collegata alla diffusione tra le masse della “scienza del lavoro” per permettergli di padroneggiare al meglio la tecnica. Questa è una strada bloccata dal crescente potere degli specialisti borghesi e dall’aumento dei poteri dei direttori delle fabbriche. La seconda condizione è l’uso razionale delle forze produttive che permetterà una riduzione della giornata lavorativa che, coerentemente con quanto espresso in Stato e Rivoluzione, consentirà ai lavoratori di dedicare maggiore tempo alla gestione dello Stato. Lo sforzo fisico nella fabbrica libera energie da investire altrove e in particolare nella lotta contro il burocratismo a cui questa appropriazione sovietica del taylorismo dovrebbe essere funzionale.

Solamente che, come giustamente osserva Linhart, il taylorismo aumenta il potere della burocrazia nel lavoro invece che distruggerlo.

Inoltre, questo tentativo di creare un taylorismo liberatore viene totalmente spazzato via dagli eventi storici che portarono al trionfo del taylorismo classico per rimettere in piedi l’economia del paese. Il grande abbaglio di Lenin è ben riassunto da Bruno Trentin come segue:

“L’egemonia culturale del “scientific management” e della razionalizzazione industriale sulle ideologie dominanti della sinistra europea e sul produttivismo autoritario del socialismo reale che usciva ormai dalla fase del “comunismo di guerra”, non era infatti dovuta soltanto all’identificazione delle nuove forme di divisione tecnica del lavoro e delle funzioni con la forza produttiva altrettanto oggettiva e “neutra” di una mac­china o di una tecnologia perfezionata. Essa poggiava su altre due concezioni dell’organizzazione delle attività umane che sembravano emanare da uno sviluppo in qualche modo obbli­gato e “inarrestabile” delle forze produttive. Prima di tutto, la possibilità di introdurre, mediante una nuova organizzazione del lavoro e delle funzioni delle persone, elementi di program­mazione e pianificazione dell’attività dell’impresa che poteva­no essere estesi a ogni forma di organizzazione sociale e alla stessa amministrazione dello Stato, qualora anche queste fos­sero state sottomesse alle leggi “scientifiche” della società manageriale. In secondo luogo, la possibilità di liberare nelle forze di lavoro parcellizzate, ridotte concretamente (e non come puro metro di misura) a “lavoro astratto”, un formidabi­le potenziale di socializzazione del lavoro e di crescita della sua produttività, in grado di produrre le risorse necessarie per alleviare le condizioni di vita dei più poveri. Il lavoro poteva, in quelle condizioni, proprio perché era sottoposto alle dure, “anche se transitorie”, leggi della razionalizzazione e della par­cellizzazione, essere investito di un nuovo ruolo sociale e di una nuova “missione”, perfettamente compatibili con l’agire politico rivoluzionario e con l’autorealizzazione – fuori del lavoro –, nella militanza politica (riformista o rivoluzionaria che fosse)”7.

In Lenin mancano accenni a ciò che gli operai già denunciavano all’inizio del XX secolo negli Stati Uniti e in Francia. Il taylorismo, infatti, se da un lato, semplificando il lavoro consente un più facile accesso ad esso da parte di tutti, dall’altro rafforza la separazione tra lavoro manuale ed intellettuale. Gianfranco La Grassa, infatti, ci ricorda che la transizione ad una nuova formazione sociale in cui diventa predominante il modo di produzione comunista prevede: “un processo di “riappropriazione” da parte dei produttori – organizzati collettivamente – del potere reale di disporre (e di controllare l’uso) dei mezzi di produzione; nonché dell’effettiva appropriazione, sempre in modo collettivo, del prodotto del proprio lavoro con la concreta possibilità (e capacità) di deciderne la destinazione. Quest’ultima non deve certo essere “affidata” ad una “autorità” separata, situantesi “al di sopra” dei produttori, perché in tal caso verrebbero create le condizioni essenziali per l’ascesa al potere di una nuova classe borghese. Il fulcro, l’elemento decisivo, del processo di “riappropriazione reale” è rappresentato proprio dalla “ricomposizione” del lavoro manuale e intellettuale all’interno dei processi produttivi; dunque, dalla reale – e non meramente formale, giuridica – trasformazione dei rapporti di produzione (di proprietà, cioè di appropriazione) capitalistici, che sono la fonte della […] “scissione” tra i due tipi di attività lavorativa. Tale “ricomposizione”, nel corso del suo processo (di lunga durata, evidentemente) non potrà perciò non “comandare” una ristrutturazione dell’intera divisione sociale del lavoro […] con il progressivo “esaurimento” delle forme mercantili dello scambio e con l’affermarsi effettivo di quello sviluppo multilaterale della personalità umana su cui ha sempre insistito Marx”8.

  1. La grande svolta

Dalla prima metà del 1928 riprende la politica di requisizione del grano e, dopo aver sconfitto l’opposizione di sinistra, si apre un conflitto tra il gruppo di Stalin e la cosiddetta destra del partito rappresentata da Bucharin. La destra ritiene queste scelte una violazione delle politiche della NEP che sacrificano lo sviluppo delle campagne e dell’industria leggera per favorire una rapida industrializzazione, con la conseguente crisi dell’alleanza tra operai e contadini. Nella quarta parte del libro Bettelheim ricostruisce questa lotta che si concluderà con la sconfitta del gruppo di Bucharin e la vittoria della linea di Stalin, in realtà sovrapponibile alle idee sconfitte in passato dell’Opposizione di Sinistra legate alle teorie di Preobraženskij sull’accumulazione socialista.

Le conseguenze di questa svolta furono l’approvazione, nel 1929, del primo piano quinquennale con l’obiettivo di raggiungere nel minor tempo possibile il livello di sviluppo dei più ricchi paesi capitalisti e la collettivizzazione forzata delle campagne. I contadini che rifiutavano di entrare nelle fattorie collettive venivano puniti con l’esproprio della propria terra, l’assegnazione di terra di cattiva qualità fuori dal villaggio oppure veniva imposto agli organismi commerciali di non vendere delle merci a questi lavoratori. Queste, però, erano solo le sanzioni non penali. Con l’avvio della dekulakizzazione delle campagne divennero frequenti anche le sanzioni penali che corrispondevano, spesso, alla deportazione dei contadini ribelli o delle loro famiglie.

Queste scelte furono giustificate con la necessità di aumentare la produzione agricola per sostenere l’industrializzazione della città. Tuttavia Charles Bettelheim riconduce questa svolta al particolare indirizzo preso dalla lotta di classe in URSS. Invece di sostenere la linea della NEP, con il necessario consolidamento dell’alleanza tra operai e contadini con il contributo dei manufatti dell’industria leggera per consentire ai contadini medi e poveri di rompere ogni legame di dipendenza economica dai kulaki, è prevalso l’interesse dei grandi dirigente delle imprese pubbliche che sostenevano la necessità di un rapido sviluppo dell’industria pesante a discapito di quella leggera e delle campagne.

A livello ideologico ciò comportò l’emergere di una componente economicistico-tecnicista che collega la trasformazione della base produttiva nelle campagne con la diffusione delle idee socialiste. Quindi, le contraddizioni della NEP non vengono risolte attraverso la lotta di classe ma attraverso il progresso tecnico che porterà alla trasformazione della mentalità dei contadini. Anche nelle città questa componente dell’ideologia bolscevica si tradurrà nell’associazione tra sviluppo della grande industria, aumento del numero complessivo dei lavoratori manuali e rafforzamento dell’ideologia socialista del proletariato.

Con la “grande svolta” del 1929 l’obiettivo del partito divenne il massimo sviluppo delle forze produttive e smise di analizzare le contraddizioni della formazione economico-sociale attraverso la lotta di classe che nell’ideologia stalinista interviene solo per spezzare i rapporti di produzioni diventati un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive. Questa è un’altra conseguenza della componente economicistico-tecnicista dell’ideologia dei bolscevichi. Queste idee fanno “del modo di produzione (e non delle sue contraddizioni) la forza principale dello “sviluppo della società”. Il modo di produzione non è concepito come l’unità contraddittoria dei rapporti di produzione e delle forze produttive ma come un’addizione organizzata di elementi o di aspetti […]. Uno di questi “aspetti” è costituito dalle “forze produttive” (a loro volta costituite dagli “elementi” seguenti: gli strumenti di produzione, gli uomini che li adoperano grazie ad una certa “esperienza della produzione” e ad “abitudini di lavoro”). L’altro “aspetto” è costituito dai “rapporti di produzione”. Quest’enumerazione (da cui sono escluse sia le classi sia le contraddizioni sociali) non fa luce alcuna su ciò che costituisce la “forza principale” dello “sviluppo sociale”. Il quale è dapprima semplicemente affermato, per essere poi identificato con lo sviluppo della produzione, di cui si dice che non rimane mai per un lungo periodo a un punto determinato. Lo sviluppo della produzione è a sua volta identificato con lo “sviluppo delle forze produttive”. Il quale appare così come un deus ex machina, la fonte di ogni “sviluppo sociale”, giacché si afferma che questo dipende sempre dallo sviluppo delle forze produttive che a sua volta dipende, “anzitutto”, dagli strumenti di produzione. Ci troviamo qui di fronte a formulazioni radicalmente diverse da quelle del marxismo rivoluzionario, per il quale il processo storico è determinato in ultima istanza dalle contraddizioni di classe”9.

Queste analisi eliminano l’iniziativa delle masse nella trasformazione dei rapporti sociali e diventano la base su cui sorge l’idea della rivoluzione dall’alto che coincide con un’iniziativa statale per sostenere la collettivizzazione e la rapida industrializzazione ma appoggiata dalle masse. Si tratta di un’idea estranea al marxismo rivoluzionario, dice Bettelheim, perché una rivoluzione dall’alto non è una vera rivoluzione ma un indicatore delle trasformazioni ideologiche interne al partito, sopratutto sul ruolo dello Stato che deve essere rafforzato invece di scomparire progressivamente. Poulantzas descrive bene questa relazione dei bolscevichi con lo Stato e il ruolo che ricoprono le masse in questo rapporto che “è un rapporto d’esteriorità: lo Stato detiene un potere e costituisce un’essenza. È lo Stato-soggetto, detentore di una razionalità intrinseca, incarnata dalle élite politiche e dai soli meccanismi della democrazia rappresentativa. Questo Stato lo si occupa rimpiazzando i vertici con una élite illuminata di sinistra ed apportando a rigore qualche correzione al funzionamento delle istituzioni. Si presume quindi che questo Stato porterà alle masse popolari il socialismo dall’alto: è lo statalismo tecno-burocratico degli esperti”10.

Quindi, per i bolscevichi progressivamente lo Stato arriva ad acquisire la capacità di modificare a proprio piacimento la società e diventa, di fatto, il protagonista della rivoluzione. L’ultimo tassello arriva nel 1936, con la nuova costituzione in cui viene negata l’esistenza di ogni antagonismo di classe in URSS perché la base economica del paese è socialista e lo Stato ha il compito di difendere il paese e organizzare la produzione sociale

Esistono solamente nemici esterni ed interni che non sono, però, una classe antagonista ma elementi controrivoluzionari su cui pesa l’eredità del passato o agenti dell’imperialismo straniero. Abbiamo introdotto un altro fondamentale elemento nella trasformazione ideologica dei bolscevichi. La proprietà di Stato viene chiamata proprietà socialista e diventa una forma di appropriazione sociale che ha fatto sparire il proletariato sostiene Bettelheim.

Tuttavia, su questo punto Gianfranco La Grassa afferma che: “Lo Stato […] non è per ‘sua natura’ un apparato idoneo all’intervento nella ‘sfera’ dei rapporti di produzione. Molto spesso si parla oggi di un intervento statale nella produzione. Ci si dimentica però di dire che quest’ultimo può solo servire ad assicurare lo sviluppo e/o la stabilità delle basi materiali della produzione, cioè delle forze produttive; ma non è in grado di modificare la forma che all’articolazione tecnico-organizzativa di queste ultime è impressa dai rapporti di produzione ancora capitalistici per un lungo periodo nel corso della ‘transizione’. Lo Stato (anche se di ‘dittatura del proletariato’, con i nuovi apparati che quest’ultimo pur riesca a creare) non è l’organo precipuo attraverso cui il proletariato stesso possa costituirsi in reale classe (per sé). […] Lo Stato proletario (in via di estinzione) può servire alla repressione della classe avversa; alla conquista dell’egemonia e della direzione – attraverso l’utilizzazione di diversi apparati ideologici – di una serie di ceti sociali intermedi; ai più immediati compiti di riorganizzazione della economia e di ricostruzione di un nuovo ‘tessuto’ sociale. Se, però, dai rapporti di proprietà si vuole ‘scendere’ alla trasformazione del ‘nesso sostanziale interno’, dei reali rapporti di sfruttamento (rapporti di produzione capitalistici e loro riproduzione), nuove vie debbono essere tentate. Anche perché i rapporti capitalistici di produzione non sono un ‘puro’ concetto, ma sono ‘calati’ nella tecnologia e nell’organizzazione (quindi, nella materialità) delle forze produttive. Per trasformare i rapporti in questione è allora necessario sperimentare nuovi modi di produrre, nuove tecnologie ecc. E tale sperimentazione avviene nel vivo della lotta di classe, dato che i rapporti capitalistici (e le forze produttive consone alla loro riproduzione) sono il fondamento materiale della incessante ricostituzione di sempre nuovi nuclei di ‘agenti’ del capitale. Proprio per questo, lo Stato rischia continuamente di assumere ancora una volta la funzione che più gli si addice; quella di ‘mediatore’ degli interessi di tali nuovi agenti capitalistici, di ‘strumento’ per la costituzione in classe dei nuovi borghesi, con la conseguente azione di repressione (e di direzione egemonica) sulla classe operaia che ridiventa allora subalterna (e, logicamente, sfruttata). Il proletariato, quindi, dovrebbe servirsi del suo Stato, ma nel contempo essere sempre in lotta contro di esso, nella misura in cui in questo Stato (per la sua intrinseca ambiguità di funzioni) si riflette in modo concentrato la lotta di classe tra il proletariato stesso e la risorgente borghesia”11.

  1. C. Bettelheim, Le Lotte di classe in URSS 1923/1930, ETAS Libri, Milano 1978, pp. 8-9. ↩︎
  2. Ivi, p. 61. ↩︎
  3. Ivi, pp. 71-72. ↩︎
  4. Per approfondire B. Kagarlitsky, L’impero della periferia. Storia critica della Russia dalle origini a Putin, Castelvecchi, Roma 2023. ↩︎
  5. C. Bettelheim, Le Lotte di classe in URSS 1923/1930, ETAS Libri, Milano 1978, p. 151. ↩︎
  6. R. Linhart, Lenin, i contadini e Taylor, Coines Edizioni, Roma 1977, p. 88. ↩︎
  7. B. Trentin, La città del lavoro. Sinistra e crisi del fordismo, Firenze University Press, Firenze 2014, pp. 101-102. ↩︎
  8. G. La Grassa, M. Turchetto, Dal capitalismo alla società di transizione, Franco Angeli
    Editore, Milano 1978, pp. 252-253. ↩︎
  9. C. Bettelheim, Le Lotte di classe in URSS 1923/1930, ETAS Libri, Milano 1978, pp. 358-359. ↩︎
  10. N. Poulantzas, Il potere nella società contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1979, p.337. ↩︎
  11. G. La Grassa, M. Turchetto, Dal capitalismo alla società di transizione, Franco Angeli
    Editore, Milano 1978, pp. 131-133. ↩︎

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *