Che cos’è la transizione al socialismo? L’esperienza cinese secondo Deng-yuan Hsu e Pao-yu Ching

  1. Introduzione

Rethinking Socialism: What is Socialist Transition?” di Deng-yuan Hsu e Pao-yu Ching è un pamphlet che racchiude un articolo scritto alla fine degli anni ‘90 sulla transizione al socialismo. Con le due rivoluzioni più importanti del XX secolo, quella russa e quella cinese, centinaia di milioni di persone accettarono di intraprendere la strada del socialismo con le sue molti sfide, lasciandoci, dopo la loro sconfitta, concetto che Ching preferisce a quello di fallimento, in eredità delle lezioni da apprendere per il futuro. Queste due rivoluzioni ci hanno hanno mostrato come sia possibile costruire una società senza sfruttamento e come la borghesia potesse strappare il potere politico con la forza al proletariato e interrompere bruscamente lo sviluppo di rapporti di produzione socialisti. Questo modo di inquadrare il problema è possibile a partire dall’individuazione della contraddizione principale, ovvero focalizzarsi sulle cause della sconfitta e non del suo fallimento che porta, ad esempio, ad indagare gli elementi capitalistici durante la transizione del socialismo in Cina.

2. La transizione al socialismo

La transizione al socialismo è il periodo di tempo in cui una società non comunista si trasforma in una società comunista. Non esiste un percorso predeterminato da applicare durante la transizione socialista con cui giudicare la bontà della transizione socialista. L’analisi deve essere fatta sulla sua direzione generale e un singolo evento non può determinare se la transizione sarà verso il comunismo o il capitalismo. Ci sono, però delle linee guida generali fornite da Marx. Per esempio, il socialismo è la fase inferiore del comunismo o il suo stadio elementare dove i produttori diretti hanno il possesso dei mezzi di produzione e la distribuzione avviene in base al lavoro prestato alla società. Sappiamo che nel capitalismo i padroni possiedono i mezzi di produzione e i lavoratori non hanno alcun controllo su di essi mentre lo scopo della produzione è la valorizzazione del valore che porta ad estrarre più plusvalore possibile dai lavoratori. Nel socialismo la produzione viene orientata alla produzione di valori d’uso per soddisfare i bisogni umani. Il socialismo è, in poche parole, l’antitesi del capitalismo. La direzione lungo la quale bisogna marciare è la trasformare i rapporti di produzione per non produrre più merci. Devono, perciò, darsi dei cambiamenti radicali negli aspetti politici, sociali e culturali di una società. La transizione al socialismo non è un processo lineare, può imbattersi in ritirate e battute d’arresto ma la direzione generale deve sempre essere chiara.

Quasi tutti i paesi impegnati nell’instaurazione del socialismo sono intervenuti sui mezzi di produzione nazionalizzando le industrie, trasferendo la loro proprietà nelle mani dello Stato. Convenzionalmente si pensa che i mezzi di produzione di proprietà statale siano l’equivalente dei mezzi di produzione socialisti. Si tratta, dicono Hsu e Ching, di un errore pensare che ciò segni l’inizio della transizione essendo un mero trasferimento della proprietà giuridica. Si tratta di un punto di riferimento, un indice dello sviluppo storico fino a quel momento. Il cambiamento della proprietà giuridica aiuta i cambiamenti futuri ma la direzione della transizione dipenderà dagli eventi successivi.

Gli autori ci ricordano che la proprietà statale dei mezzi di produzione esiste sia nel modo di produzione capitalista (MPC) che nel periodo di transizione verso il comunismo. La proprietà statale significa che lo Stato ha il controllo effettivo dei mezzi di produzione senza implicare il cambiamento dei rapporti di produzione. Nel capitalismo, ad esempio, serve, entro certi limiti, a indirizzare lo sviluppo e integrare o migliorare l’accumulazione del capitale sia nel settore statale che in quello privato. Nel Terzo Mondo, invece, può essere utile per difendere le imprese dal capitale straniero o sviluppare la propria economia in maniera indipendente quando il capitale privato nazionale è molto debole. La Cina post-Mao è un caso particolare di uso della proprietà statale che rende chiaro il modo in cui agiscono i controrivoluzionari quando hanno occupato il partito comunista e interrotto la transizione al socialismo. Per Hsu e Ching è l’indicatore di una pratica politica socialista falsa quando affermano che stanno proseguendo la strada del socialismo perché ci sono molte imprese statali, ma utile per legittimare il proprio potere.

Marx, criticando Proudhon, distingueva nettamente l’aspetto giuridico e la forma reale dei rapporti di produzione facendo cadere come un castello di carta la narrazione del PCC. Per distinguere la transizione al socialismo da quella capitalista spesso si fa riferimento alla contrapposizione tra piano e mercato. Il piano viene identificato con il socialismo mentre il mercato con il capitalismo. Vale lo stesso discorso fatto per la proprietà statale visto che anche lo Stato nel MPC può utilizzare il piano per orientare la direzione dell’economia. In molti paesi capitalisti l’apparato statale svolge un ruolo importante nella produzione diretta, per mezzo della proprietà, e nella pianificazione. Queste situazioni evidenziano la contraddizione del capitalismo tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e la socializzazione della produzione. Finché permane il MPC questa contraddizione si manifesterà tramite crisi periodiche e sempre più profonde e viene affrontata cercando di regolare i cicli economici per mezzo di politiche fiscali e monetarie keynesiane. La stagnazione e la fluttuazione economica a lungo termine viene sfidata per mezzo della costruzione di infrastrutture pubbliche e la gestione della forza lavoro, tramite il welfare o programmi per la piena occupazione, oppure tramite le politiche creditizie, con bassi tassi d’interesse e prestiti garantiti. Altri modi per gestire questa situazione di crisi è il rafforzamento dell’industria della difesa o la regolazione dei mercati finanziari per collegare meglio capitale produttivo e finanziario. L’impegno statale è sempre rivolto a facilitare l’accumulazione del capitale tramite spese pagate dai contribuenti, in maggioranza lavoratori. Questo ragionamento serve a sfatare il mito che nei paesi capitalisti ci si basi unicamente su un sistema di libera impresa fondato sui meccanismi di mercato. La pianificazione non è l’opposto del mercato, possono benissimo completarsi a vicenda come avviene nel MPC. Il piano non riesce, però, a cambiare la natura fondamentale del capitalismo intaccando la centralità dell’accumulazione del capitale. Ciò che al massimo può fare è influenzare, in maniera molto limitata, l’appropriazione dei prodotti tra capitale e lavoro per stabilizzare la società in presenza di forti pressioni provenienti dai lavoratori. In definitiva, Hsu e Ching, affermano che concetti come pianificazione e proprietà statale dei mezzi di produzione sono insufficienti per chiarire cosa sia il socialismo.

3. L’esperienza cinese

Hsu e Ching sostengono che in Cina, nel periodo compreso tra il 1949 e il 1978, stando anche alle indicazioni generali di Marx sulla fase elementare del comunismo, si stava assistendo ad una transizione orientata al comunismo a cui le riforme del 1979 di Deng Xiaoping pose bruscamente fine invertendo la sua direzione verso il capitalismo. Per sostenere una simile tesi gli autori si sforzano di presentare esempi concreti. Durante il periodo di transizione verso il socialismo è stata attuata una riforma agraria che di per sé non rappresenta una rottura con il capitalismo ma rientra nel progetto socialista sul lungo periodo. Venne completata nelle campagne cinesi tra il 1949 e il 1952 consentendo, per la prima volta, a centinaia di milioni di contadini di possedere un appezzamento di terra di 0,2 ettari pro capite. La produzione di grano e cotone aumentò rapidamente tra il 1949 e il 1952 ma, tra il 1953 e il 1954, divenne stagnante la prima e crollò drasticamente la seconda. Dopo un secolo di distruzione dovuta a guerre e abbandono da parte dei proprietari terrieri l’agricoltura cinese era molto fragile e la terra coltivabile estremamente scarsa se non sterile. Inoltre i contadini cinesi avevano a disposizione pochi strumenti produttivi. Addirittura le famiglie contadine che si collocavano nella fascia della popolazione povera o medio-bassa, cioè il 60/70% della popolazione contadina cinese, non possedeva neanche un aratro per non parlare degli animali o degli altri attrezzi agricoli. L’assenza di questa strumentazione non può essere colmata dall’entusiasmo, senza contare gli eventi naturali avversi come inondazioni e siccità che colpirono vaste aree agricole della Cina tra il 1953 e il 1954. Anche un semplice incidente personale poteva compromettere la vita di una famiglia contadina costringendo a ricorrere all’indebitamento che porterà molti contadini a vendere la propria terra. Prima del lancio del movimento cooperativo stava aumentando il numero di contadini che vendevano la propria terra, stavano aumentando i prestiti privati come anche il numero di contadini finiti per essere assunti come braccianti. Senza il movimento cooperativo, dicono Hsu e Ching, la tendenza sarebbe stata quella di una polarizzazione della società contadina con una forte spinta alla concentrazione della proprietà fondiaria. Nel 1954 i contadini provarono a trovare una soluzione a questa difficile situazione formando squadre di mutuo soccorso che consentiva ai suoi membri di condividere gli strumenti produttivi, come animali da tiro, zappe e carri, e la propria forza lavoro con lo scopo di aumentare la produzione. Nel 1955 ci fu un ulteriore passo in avanti con l’organizzazione di cooperative elementari in cui i soci proprietari degli strumenti produttivi li prestavano alla cooperativa in cambio di una quota della produzione. Finora siamo dentro una dimensione ancora capitalista ma si tratta di passi necessari per arrivare alle comuni popolari e rafforzare la transizione al socialismo. Nel 1958, in concomitanza del Grande Balzo in Avanti, furono organizzare cooperative più avanzate in cui i contadini proprietari degli strumenti produttivi li vendevano alle cooperative. La distribuzione avveniva in base al lavoro conferito e non in base al capitale posseduto. Prima di questa fase, venivano pagate le tasse e una parte del reddito lordo era accantonato come fondo di accumulazione per gli investimenti. Siamo entrati, in questo modo, nel progetto di transizione al socialismo del maoismo. Mao era convinto che il PCC avesse l’obbligo di organizzare le comuni popolari e le cooperative avanzate per evitare uno sviluppo di tipo capitalista favorito dalla debolezza dei contadini nel sostenersi da soli con il rischio di vedere una riforma agraria funzionale al trasferimento della proprietà terriera dalla vecchia classe di proprietari terrieri ad una nuova classe capitalista, aiutando in questo modo lo sviluppo del capitalismo.

Nel 1958 vengono istituite le comuni popolari, l’identità politica ed amministrativa in cui era inclusa l’organizzazione economica delle cooperative avanzate. Nel sistema comune cinese esistevano tre livelli di proprietà dei mezzi di produzione. Il primo è quella della comune che possedeva i grandi strumenti produttivi, come gli impianti di irrigazione e drenaggio, oppure le centrali elettriche, ed erano a disposizione di tutti i suoi membri. Il secondo livello è la brigata di produzione che possedeva gli strumenti che potevano utilizzare le squadre, come ad esempio la fresatura. A partire dagli anni ‘60 sia le comuni che le brigate iniziarono a gestire anche delle unità industriali per la produzione di prodotti manifatturieri. L’ultimo livello era quella della squadra, l’unità contabile di base a cui veniva assegnato il lavoro e i cui membri ricevevano i cosiddetti gong fen, punti lavoro, che venivano registrati e pagati, al netto delle tasse, dei fondi di accumulazione, del welfare e delle quote di grano. Il fondo di accumulazione era utilizzato per gli investimenti nelle attrezzature agricole e nei macchinari mentre il fondo di welfare serviva per sostenere le famiglie prive di manodopera produttiva. Le quote di grano erano un certa quantità di grano a cui avevano diritto i membri di ogni squadra. Sotto questo sistema la forza di classe che sosteneva il progetto delle comuni popolari ha promosso politiche volte a favorire un maggiore controllo della produzione da parte dei produttori e politiche volte a rafforzare l’alleanza tra contadini e operai. I lavoratori ricevevano dei punti lavoro per le attività svolte per un massimo di 10 punti al giorno. Questo gli dava diritto ad una quota del reddito netto e il loro valore era determinato dal reddito netto, tolte le detrazioni, della squadra diviso per il numero totale di punti lavoro di tutti i suoi membri. Essi hanno ricevuto i loro punti lavoro in parte in grano e il resto in contanti. La differenza tra il reddito del membro migliore della squadra e il peggiore o più debole non deve mai superare il rapporto di tre a uno. I membri più anziani e giovani della squadra ricevevano la loro quota di grano non in base al lavoro ma ai loro bisogni. Il progetto di transizione al socialismo prevedeva l’eliminazione dei divari di reddito e ogni guadagno derivante dal lavoro non produttivo. A determinare la maggior parte della distribuzione dei prodotti era l’intensità del lavoro, l’esperienza, l’abilità e la quantità del lavoro svolto. Ogni membro della squadra poteva contare anche su un elemento di capitalismo presente nella comune, ovvero la possibilità di coltivare un proprio limitato appezzamento di terra con cui integrare la propria dieta o per ricavare prodotti da vendere in contanti. Questo elemento capitalista era limitato per evitare di consentire ai contadini di guadagnare abbastanza da poter comprare nuovi strumenti produttivi e guadagnare un reddito più elevato tramite il proprio appezzamento con l’obiettivo di garantire un maggiore guadagno dal lavoro nelle squadre piuttosto che dal lavoro privato.

“Sebbene la maggior parte delle comuni andasse molto bene, c’era un numero significativo di comuni poveri. Queste comuni povere avevano terreni sterili in aree con incidenze più elevate di inondazioni e/o siccità. Rimaneva poco surplus ogni anno, quindi si poteva investire poco per espandere la produzione. Queste comuni dovevano spesso fare affidamento sugli aiuti statali, ma gli aiuti statali erano limitati. Con la proprietà collettiva, la distribuzione all’interno di una squadra e di una brigata era equa, ma allo stesso tempo le brigate/comuni ricche diventavano più ricche e le brigate/comuni povere diventavano più povere. Le differenze di reddito si ampliarono dopo la metà degli anni ’60, quando le brigate e le comuni iniziarono a sviluppare le proprie industrie. Le brigate/comuni con surplus furono in grado di investire in queste industrie e a loro volta accumularono ancora più capitale. Alcune avevano anche il vantaggio di una buona posizione vicino alle principali autostrade o ferrovie. Quindi, furono in grado di vendere i prodotti industriali che producevano al di fuori dell’area di prossimità. Le comuni povere avevano solitamente terreni sterili e si trovavano in aree in cui il sistema di trasporto era inadeguato. Questa era la limitazione della proprietà collettiva. Quando la brigata era prospera grazie all’espansione delle sue industrie, i benefici arrivavano solo ai membri della brigata. Lo scambio tra le brigate era basato sul valore di scambio. Pertanto, anche all’interno di una comune c’erano brigate più ricche e più povere. La legge dello scambio equo si applicava anche allo scambio tra le comuni. Entro la fine degli anni ’70, il rapporto di reddito tra le comunità ricche e povere poteva essere di dieci a uno. La proprietà collettiva non poteva risolvere il problema dell’ampliamento dei divari di reddito nelle campagne. Lo Stato tentò di moderare i divari di reddito tramite aiuti statali, ma gli aiuti statali alle aree più povere erano limitati. A meno che l’unità contabile non potesse essere ampliata, lo sviluppo ineguale sarebbe peggiorato. Mao era preoccupato per la coesistenza di due tipi di proprietà – statale e collettiva – ed era profondamente consapevole della necessità di risolvere questa contraddizione prima che peggiorasse”1.

Per quanto riguarda la proprietà statale, tra il 1956 e il 1978 gli autori sostengono che le imprese del settore statale erano impegnate nella transizione al socialismo. In questo periodo lo Stato aveva un controllo effettivo di queste imprese che gestivano i mezzi di produzione nei limiti imposti dal controllo politico statale. Lo Stato vietò l’acquisto e la vendita sul mercato a queste imprese e, redigendo un piano, determinava cosa ciascuna di esse produceva incluse la tipologia di prodotti e le loro quantità. Grazie alla pianificazione veniva determinato il prezzo dei prodotti venduti dalle imprese allo Stato oltre a quello di macchinari e materie prime che venivano acquistati dallo Stato da cui ricevevano dei fondi salariali utilizzati per pagare stipendi e benefit ai lavoratori. Alle fine di ogni anno le imprese erano tenute a consegnare i loro ricavi allo Stato che sovvenzionava le imprese in perdita. Inoltre venivano stanziati i fondi per l’acquisto di nuovi edifici e impianti funzionali alla riproduzione allargata. In Cina lo Stato dominava l’uso dei beni delle imprese, quindi oltre alla proprietà legale possedeva il controllo economico dei mezzi di produzione. Dentro la logica della transizione socialista, l’obiettivo era eliminare gradualmente la produzione di merci e il lavoro salariato. Tra il 1956 e il 1978 la realtà economica corrispondeva ai limiti imposti alle imprese. Lo Stato aveva tolte alle unità produttive ogni responsabilità sul profitto e la perdita e la vendita allo Stato dei loro prodotti a prezzi prestabiliti lasciava poco spazio ai manager per inserirsi nel processo di valorizzazione. Questo era reso possibile dalla pianificazione che a livello della singola impresa consentiva ai lavoratori di determinare salari e benefici grazie a dei fondi salariali stanziati dallo Stato che toglievano ai dirigenti la responsabilità dei pagamenti e il potete di estrarre plusvalore dai lavoratori. I prezzi dei prodotti e degli input non erano fissati in base ai valori e il successo o il fallimento delle imprese non erano giudicati in base alle perdite e ai profitti. Gli standard utilizzati per misurare le prestazioni delle imprese sono la quantità, la velocità di produzione, la qualità e il risparmio di materie prime e manodopera. Queste scelte del governo cinese portarono alla dissociazione dei dirigenti delle imprese statali dall’essere agenti del capitale, marciando nella direzione dell’eliminazione del lavoro salariato. Manager e burocrati statali non potevano trasformare il loro potere in ricchezza materiale per loro stessi grazie alla forza delle masse dirette dalla linea rivoluzionaria del PCC, come possiamo vedere nell’adozione della Carta di Anshan per le imprese statali.

Hsu e Ching ribadiscono alcuni concetti interessanti per la transizione al socialismo nel corso del libro. Per esempio sostengono che durante la fase di transizione progetti socialisti e capitalisti coesistono e addirittura diventa necessario, come nel caso della NEP, istituire dei progetti capitalisti per poi procedere lungo la strada del socialismo. In Cina prima della collettivizzazione dell’agricoltura fu necessario adottare una riforma agraria. Parlare di progetti socialisti e capitalisti significa analizzare la loro duplice caratteristica, cioè sia socialista che capitalista, sottolineando però quale dei due in quel progetto sta prevalendo. Per esempio, l’impresa socialista possiede al suo interno degli elementi capitalisti come il rapporto tra dominati e dominanti, tra manager e produttori diretti. Per eliminarli servono cambiamenti radicali nelle unità produttive. Altri elementi problematici erano la presenza di due tipi di proprietà, statale e collettiva, invece di una sola, l’impossibilità di una distribuzione in base al lavoro su scala nazionale, le differenze nel valore dei punti lavoro tra le comuni povere e ricche, gli otto diversi livelli salariali per i dipendenti statali…

Qualora si fosse giunto ad una distribuzione secondo il lavoro, sarebbe rimasto comunque in piedi un altro pericoloso elemento non comunista, la destra borghese dentro il PCC. A fronte di questi elementi capitalisti durante la fase di transizione, c’erano anche degli elementi comunisti come quelli emersi durante il Grande Balzo in Avanti. Per esempio le lunghe giornate di lavoro a cui si sottoponevano volontariamente i lavoratori senza aspettarsi indietro alcun compenso. Mao sottolineava che questi semi di un nuovo modo di produzione potevano essere usati per difendere un’idea di transizione dal capitalismo al comunismo come un processo dove non esisteva una fase inferiore da intendere come un’entità separata e con proprie caratteristiche totalmente diverse dalla fase successiva, come pensavano i reazionari Deng e Liu che infatti consideravano, in nome della fase iniziale del socialismo, ogni elemento di comunismo come prematuro e da soppiantare con gli incentivi materiali e la razionalizzazione per espandere la produzione di merci e i progetti capitalistici per colpire a morte la transizione socialista.

4. La competizione tra progetti socialisti e capitalisti

Per Mao la riforma agraria era un progetto capitalista funzionale allo sviluppo del socialismo. Era una tappa lungo lo sviluppo dei rapporti di produzione socialisti nelle campagne mentre per l’opposizione di destra, formata da Deng e Liu, era parte di un programma di sviluppo capitalistico e per questo motivo si opposero fermamente alla collettivizzazione dell’agricoltura e alle comuni popolari. Questo spiega perché l’attuale regime capitalista che governa la Cina elogia il Mao del periodo della guerra rivoluzionaria ma condanna quello successivo al Grande Balzo in Avanti. A fare la differenza era il modo in cui venne attuata. In Cina non fu una semplice redistribuzione della terra ma un movimento di massa sostenuto dal partito per promuovere cambiamenti economici, politici ed ideologici. I contadini poveri e medi vennero organizzati per prendere possesso delle terre e denunciare i crimini dei vecchi proprietari terrieri. Questo movimento galvanizzò i contadini che furono protagonisti attivi della riforma agraria spingendo la loro azione fino al successivo movimento cooperativo. Durante questa fase ci fu un radicale cambiamento nella loro ideologia, capendo come fosse sbagliato che i contadini ricchi e i proprietari terrieri prendessero i prodotti del lavoro dei contadini poveri e medi. Inoltre, vennero messi in discussione il potere che permetteva a pochi privilegiati di abusare e schiavizzare i meno privilegiati. L’atmosfera della riforma agraria permise per la prima volta nella loro vita a questi contadini di potersi esprimere e in questo modo furono rilevati i crimini del nemico di classe rappresentato dal proprietario terriero. L’appropriazione della terra aveva cambiato il rapporto tra dominati e dominanti. Per questo possiamo dire che benché integrabile nel progetto capitalista, la riforma agraria cinese andava nella direzione giusta grazie alla posizione di classe espressa dal PCC. La successiva collettivizzazione dell’agricoltura, dalle cooperative alle comuni popolari, consentì il consolidamento dell’alleanza tra lavoratori e contadini su basi nuove e fu un fattore decisivo nella lotta contro la borghesia. Dopo la riforma agraria c’era una polarizzazione del mondo contadino in atto che, se fosse proseguita, avrebbe consentito alla borghesia di allearsi con i contadini ricchi capaci di vendere le eccedenze di grano e altre materie prime. Questa possibile alleanza venne stroncata nel 1953 con il sistema di acquisto unificato che impose il controllo statale completo sull’acquisto e la vendita di grano e altre materie prime. In questo modo i contadini ricchi non avevano altra scelta che vendere le eccedenze di grano e altre materie prime allo Stato ai prezzi fissati da quest’ultimo. La speculazione e il commercio del grano non potevano essere utilizzati per arricchirsi. Questo movimento straordinario ha rotto un ordine sociale che esisteva da oltre 3000 anni e per forza di cose una simile trasformazione incontrò la resistenza di coloro che persero i loro vantaggi economici e politici. Ciò portò una lotta che si fece sempre più dura mano a mano che i contadini procedevano con l’organizzazione delle squadre di mutuo soccorso e le cooperative. Il conflitto con i contadini ricchi e medio-alti era inevitabile. Essi avevano dalla loro parte la terra e il capitale e non avrebbero ottenuto alcun beneficio dall’adesione al movimento cooperativo sorto dopo la riforma agraria. I contadini della fascia medio-bassa e povera, la maggioranza dei contadini cinesi, non avevano molti strumenti produttivi a loro disposizione e gli appezzamenti di terra posseduti erano molto piccoli, incontrando enormi difficoltà nella riproduzione allargata. Come sappiamo, inoltre, a causa dell’indebitamento erano inclini a perdere in qualsiasi momento la loro terra. La soluzione a questo problema venne trovato nel movimento cooperativo che con l’adesione dei contadini medi riuscì ad isolare quelli ricchi e medio-alti i quali, non avendo braccianti da assumere, furono costretti ad aderire al movimento. La cooperative era l’unico modo per impedire ai contadini ricchi e medio-alti di arricchirsi sfruttando il lavoro altrui. Con le cooperative guidate dai contadini poveri e medio-bassi si affermò il principio che la distribuzione dei prodotti non avvenisse in base al capitale messo a disposizione, come avrebbero voluto i contadini ricchi e medio-alti, ma in base al lavoro conferito. Le forze di classe che avevano visto minacciati i propri interessi hanno dovuto iniziare a trovare dei rappresentanti e dei portavoce sia all’interno che all’esterno della base del potere. Gli oppositori di Mao nel PCC alla collettivizzazione assolsero questo compito sostenendo i progetti capitalistici anche dopo la fondazione delle comuni popolari. Un esempio di ciò è il sostegno fornito da Liu e Deng a allo schema “Tre libertà e un contratto”. Le tre libertà sono l’ampliamento dei lotti privati, la promozione del libero mercato e la responsabilizzazione di ogni singola famiglia dei propri profitti e delle proprie perdite. Il contratto preveda che ogni singola famiglia firmasse un accordo con lo Stato per la produzione di una quantità prestabilita di raccolti. Una volta raggiunta la quantità stabilita, il contadino sarebbe stato libero di vendere le eccedenze sul mercato. Già dal 1956 Liu e i suoi sostenitori provarono ad applicare questo schema, a volte anche con la forza. I risultati sono prevedibili. L’ampliamento dei lotti privati ha incoraggiato i contadini a dedicare più impegno e una maggiore quantità di lavoro ai propri lotti privati. La promozione del libero mercato ha facilitato la vendita dei prodotti provenienti da questi lotti mentre la responsabilizzazione in materia economica della famiglia sposta l’unità contabile dalla squadra alla famiglia. Lo scopo era incentivare una maggiore produzione. Con il sistema delle comuni popolari il risparmio privato non può essere trasformato in capitale privato e l’accumulazione del capitale avviene collettivamente e non privatamente. Il fondo di accumulo appartiene alla squadra e permette l’acquisto di nuovi strumenti produttivi che vanno a beneficio di tutta la squadra. Il progetto capitalista “Tre libertà e un contratto” rendeva la famiglia una nuova unità contabile che permette di ottenere profitti dalla vendita di prodotti sul libero mercato con cui comprare nuovi strumenti produttivi e aumentare i profitti. L’obiettivo era promuovere l’accumulazione di capitale privato e mettere in crisi le famiglie in perdita per sbarazzarsi di coloro che non erano in grado di produrre in maniera efficiente. Si tratta di un ritorno alla fase delle cooperative elementari dove i proprietari del capitale ricevono quote più grandi. Liu e Deng sono stati subdoli nel presentare tutto questo progetto, funzionale per invertire la transizione dal comunismo al capitalismo, come un semplice modo per promuovere la produzione tramite gli inventivi materiali alle singole famiglie. Con la collettivizzazione dell’agricoltura i progetti capitalistici sono entrati in competizioni con quelli socialisti rendendo palesi gli interessi di classe sottesi, costringendo i nemici della rivoluzione a rivelarsi platealmente.

Per quanto riguarda il settore statale, il progetto socialista più importante è quello dell’impresa statale che ha come scopo contribuire alla cessazione della produzione di merci e alla capacità dei produttori diretti di controllare i mezzi di produzione. Durante la transizione al socialismo devono essere promosse politiche nelle imprese statali volte ad una maggiore partecipazione dei lavoratori alla produzione e gestione dell’impresa, affiancata da una graduale eliminazione della produzione di merci e del lavoro salariato. Dovrebbero sussistere meno differenze possibili tra il ruolo del manager e del lavoratore mentre il sistema salariale dovrebbe riflettere la quantità di lavoro conferito e non la dimensione del capitale. Hsu e Ching ricordano che la proprietà statale dei mezzi di produzione non equivale a rapporti di produzione socialisti perché questa tipologia di proprietà giuridica può essere compatibile con la promozione di progetti capitalistici che in questo modo sviluppano rapporti di produzione capitalistici, per esempio rafforzando la produzione di merci. Lo scopo della produzione influenzata da questi progetti non è soddisfare i bisogni delle persone ma la valorizzazione del valore. La produzione di merci riproduce il lavoro salariato e la distribuzione del prodotto in base alla dimensione del capitale. Durante l’esperienza concreta della Cina è sempre stata presente una lotta costante tra progetto socialista e capitalista su questioni come l’autonomia delle imprese, lo status occupazionale dei lavoratori statali, il sistema salariale e ogni problema riguardante il controllo dei lavoratori sulla fabbrica. Qualora le imprese statali acquisissero l’autonomia nella gestione degli affari, delle prestazioni e la retribuzione dei manager dipendesse dalle perdite e dai profitti delle imprese, esse funzionerebbero in una maniera non dissimile dalle imprese capitaliste. La difesa del contratto a tempo indeterminato nelle imprese statali, quindi lo status occupazionale, serve a garantire la possibilità di un controllo effettivo sui mezzi di produzione, impossibile con altre formule contrattuali. Invece un sistema salariale che enfatizza troppo gli incentivi materiali e la competizione tra i lavoratori finirebbe per dividerli rafforzando la posizione del manager. Prima del 1979 la scala salariale di otto livelli dei dipendenti statali differenziava i lavoratori solamente in base agli anni di servizio, l’esperienza e le competenze. Il lavoratore che si impegnava di più nell’aumento della produttività, nel lavoro di squadra e nelle innovazioni veniva selezionato come lavoratore modello, ricevendo premi ed elogi, ma senza alcuna ricompensa materiale diretta come maggiori salari, promozioni o bonus. Per togliere potere al manager lo strumento degli incentivi materiali o del cottimo con cui dividere i lavoratori, inducendoli a lavorare di più e competere tra loro, sono stati eliminati. Lo Stato sovvenzionava cibo, casa, istruzione, trasporti, assistenza sanitaria, beni di prima necessità in modo che anche il lavoratore con lo stipendio più basso potesse permettersi un tenore di vita minimo, a dimostrazione dell’importanza attribuita, tra il 1958 e il 1978, dallo Stato alla riproduzione della forza lavoro e al suo mantenimento negli investimenti e nella pianificazione. I progetti capitalisti per indebolire questa organizzazione del lavoro partono già con il nemico di classe Liu Shaoqi negli anni ‘50. Liu intendeva istituire i contratti a tempo determinato nelle fabbriche statali su modello dell’URSS dell’epoca. Questo progetto venne interrotto dal Grande Balzo in Avanti. Liu si rifece avanti con un progetto simile negli anni ‘60 con il cosiddetto sistema a doppio binario che consentiva alle imprese di assumere più lavoratori temporanei e meno lavoratori a tempo indeterminato e consentiva alle miniere di assumere come lavoratori temporanei i contadini. Nel 1965, tramite il Consiglio di Stato, venne istituito un regolamento che consentiva alle singole imprese di utilizzare i fondi salariali stanziati per sostituire i lavoratori a tempo indeterminato con lavoratori temporanei. Questi sforzi per invertire la rotta della transizione furono interrotti dalla Rivoluzione Culturale. Contro questi assalti del nemico Mao sostenne la Carta di Anshan con l’intento di modificare l’organizzazione del lavoro in senso socialista. La Carta si basava sulle regole imposte dagli stessi lavoratori dell’azienda metallurgica di Anshan per modificare il funzionamento dell’organizzazione del loro lavoro. Il 22 marzo 1960 Mao trasformò queste regole nelle linee guida per il funzionamento di tutte le imprese statali. I principi di questa carta erano semplici. La politica doveva essere al posto di comando, sui luoghi di lavoro doveva essere rafforzata la leadership del partito e tutto ciò doveva essere sostenuto da un forte movimento di massa. Bisognava promuovere la partecipazione dei quadri al lavoro produttivo e dei lavoratori ai compiti di gestione e nel frattempo combattere qualsiasi regola irragionevole tramite la cooperazione tra lavoratori, quadri e tecnici con l’intento di sviluppare la rivoluzione tecnica. Hsu e Ching sostengono che questa Carta fosse coerente con la transizione al socialismo e mirante ad abolire il lavoro salariato. Prima della Rivoluzione Culturale, tuttavia, solo formalmente veniva rispettata la Carta di Anshan e la direzione continuava a mantenere un fermo controllo sulla gestione della fabbrica e i lavoratori si dimostravano troppo passivi nell’accettare queste regole in cambio di benefit forniti dallo Stato.

La lotta tra la via capitalista e la via socialista in fabbrica si esprimeva in questo movimento che oscillava tra emanazione tra direttive dall’alto che favorivano un maggiore impiego del cottimo e del lavoro temporaneo e movimenti di massa che criticavano e invertivano queste scelte. Prima della Rivoluzione Culturale, tuttavia, ripetono gli autori, i lavoratori non erano consapevoli dei motivi dietro queste inversioni delle politiche attuate. Senza il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione Culturale Liu e i suoi sostenitori sarebbero riusciti ad aggredire prima della controrivoluzione promossa da Deng lo status dei lavoratori a tempo indeterminato e i loro benefit. Questi lavoratori parteciparono ai movimenti di massa negli anni ‘50 e ‘60 aumentando la loro coscienza di classe gradualmente ma fu solo con la Rivoluzione Culturale che si resero conto come la lotta di classe proseguiva anche dopo il trasferimento della proprietà giuridica dei mezzi di produzione dai privati allo Stato.

  1. Deng-yuan Hsu, Pao-yu Ching, Rethinking Socialism: What is Socialist Transition?, Foreign Languages Press, Utrecht 2017, pp.40-41 ↩︎

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