Cinera Antonii Gramscii. parte I

Nello scandalo del contraddirmi, con te e contro di te

— Elia Pupil.

Dedicato a quel 2018, rivoluzione e rottura nel mio modo di concepire e sperare, nello scandalo del contraddirmi.

«Lo scandalo del contraddirmi,
dell’essere con te e contro te;
con te nel core, in luce,
contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi son ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta.»

Pier Paolo Pasolini, Le Ceneri di Gramsci, Garzanti Libri, 2014

L’erba umida, impregnata dal profumo delle piccole piante di menta che tutt’oggi costeggiano i lati dei viali interni al Cimitero Acattolico di Roma, non rimane inerte allo strofinio delle suole delle scarpe di Pasolini che, rimirando le tombe di Keats e Shelley, giace pensoso di fronte una lapide su cui frontone vi è incisa la formula Cinera Antonii Gramsci.

Tra le rade schiarite in un cielo di maggio insolitamente plumbeo, egli si interroga sul sepolcro di Gramsci foscolianamente inteso come eternificatore del “Grande”, ovvero lo studioso dell’identità culturale italiana per antonomasia: l’identità nazionale-popolare. In effetti, il componimento di Pasolini, omonimo all’iscrizione sulla succitata pietra, esprime con  eccezionali influenze preromantiche tipiche delle poesie sepolcrali un conflitto interno, il conflitto che vede gli scontri titanici nel sublime tipici degli echeggi romantici (che possiamo trovare anche in Le Ceneri di Gramsci) interiorizzarsi nella lettura della figura di Gramsci attuata da Pasolini, affermando la contraddizione come protagonista nel lavoro dei  due intellettuali.

In tale confronto, l’esegesi gramsciana realizza nello stesso interprete, Pasolini, il primo e vero intellettuale organico gramscianamente inteso, portatore dell’irriducibilità dell’essere  e di quel realismo crudo che nella sua tecnica narrativa e cinematografica, con i suoi abissi e le sue cime teoretiche, traspone il pubblico nelle contraddizioni delle maglie sociali.

La giusta domanda che ci si può porre di fronte a tale affermazione è la seguente: il contenuto formulato nel rapporto “di amorosi sensi” tra Pasolini e l’allora defunto Gramsci eternifica le originali produzioni marxiste oltre il mero livello accademico? L’attualità di Gramsci giova dall’azione del suo più originale esecutore? Al lettore l’ardua sentenza: nonostante la sua preparazione meramente partitica, con la sua rielaborazione di Gramsci, Pasolini riesce a definire quei tratti salienti del pensiero gramsciano in evidente rottura con l’iconografia ortodossa per la loro attualità dissacrante.

Pasolini, regista, letterato, poeta, filosofo, artista: in una parola, intellettuale.

Contraddizione e prassi, organicità e libertà, egemonia e novum sociale: tali sono le coppie che sottendono all’originalissima speculazione del pensatore sardo. Costui pone come pietra angolare alle tematiche citate la figura dell’intellettuale organico quale potenza creativo-pedagogica, nucleo di forza veritativo ed istituzione trasformativa dello storicamente umano. La prima parte di questa tesi vorrà far luce in maniera semplice e chiara sulle seguenti tematiche, per poi renderle relazionabili, nella seconda parte, con la pratica intellettuale di Pier Paolo Pasolini.

Egemonia e Alienazione

I. La dissimulazione del termine

Il termine alienazione è molto raro trovarlo nella produzione gramsciana (due volte nei Quaderni sotto il termine generico di «alienazione d’animi»), sebbene esso abbia profonde radici non solamente nell’elaborazione teorica di Karl Marx, bensì in quella filosofia feuerbachiana e, in primis, hegeliana, di cui Gramsci era sia grande estimatore che critico oculato (in particolare verso gli epigoni “italiani” dell’idealismo hegeliano, tra cui Croce e Gentile nelle loro varie sfumature e diversità).

Tale mancanza non fa di Gramsci un particolare precettore della scuola francese di Althusser, quella della rottura epistemologica(A), né un precursore nel post-marxismo (vedasi Ernesto Laclau, comunque studioso del concetto di egemonia), dell’italian thought in generale o, d’altra parte, un’aderente al rigido diamat sovietico che alla morte di Lenin fece corrispondere lo straripamento di opere, quali quelle di Bucharin, Stalin o Zinov’ev, solertemente criticate dallo stesso Gramsci come espressione di quel positivismo sociale e di quel fatalismo dell’«alba rossa dell’Avvenire»  che vogliono esser foriere di prescrizioni (più o meno mistiche) sull’andamento evolutivo umano, per le quali si volevano desumere dalla storia le dimostrazioni sull’esistenza certa del futuro socialista mediante leggi più o meno empiriche.

Allora, ponendo che Gramsci avesse una conoscenza profonda di Hegel e dei suoi successori di “sinistra”e suppondendo che potesse conoscere Marx nei limiti delle opere allora pubblicate (per il concetto stesso di alienazione bisogna aspettare il 1932 con i Manoscritti del 1844 che Gramsci non lesse mai, ma per il concetto di lavoro alienato si può risalire agli studi sulla reificazione di Lukacs, Korsch o Rubin risalenti ai primi anni ’20), perché non adoperò il termine alienazione o, in ambito più generale e più facilmente presupponibile, il concetto di lavoro alienato? Innanzitutto il quadro storico ci può dar conferma del fatto che, tra la Seconda e la Terza Internazionale, ci furono almeno due filosofi che utilizzarono tale categoria, quali Karl Korsch e György Lukács, e che questi furono completamente ostracizzati dal dibattito in merito al mondo socialista, ormai dominato dalla figura del PCUS, proprio per la loro eterodossia alla dottrina ufficiale marxista-leninista nella sua dogmaticità. Tale dogmaticità venne causata solo in parte dall’operato politico (si tenga bene in mente, non teorico!) di Lenin nella sua rigida determinazione dei quadri di partito come avanguardia “esterna” alla massa poiché, se analizziamo la sola produzione teorica (in particolare la raccolta di scritti e appunti che prende il nome di Quaderni Filosofici), Lenin riuscì ad avere uno sguardo per lo più lucido ed innovativo rispetto alla maggior parte dei teorici della Seconda Internazionale: ciò nonostante, pure con i suoi testi si fece una continua opera di semplificazione e volgarizzazione, culminata nell’oblio stesso dei Quaderni Filosofici (che avrebbero dato nuova linfa al dibattito sulla Teoria del Rispecchiamento, ormai irrimediabilmente dominata da una lettura engelsiana e ždanoviana(B)) al fine di favorire i testi-compendio edulcorati di Stalin (vedasi Discorsi sul Leninismo o le varie Opere Economiche).  Ciò non vale a dire che parlare di alienazione, in particolare durante lo stalinismo, sarebbe stato come parlare di eliocentrismo e materialismo ai tempi di Giordano Bruno, però poteva essere realmente controproducente, se non mortale(C):

Perciò si può concludere che Gramsci parlò ben poco di alienazione nei Quaderni per il fatto che, essendo lui una preziosa moneta di scambio tra il regime fascista – suo carceriere – e quello stalinista (in cui Togliatti, già commissario politico in Spagna per il PCE dopo la fuga a Mosca, riuscì pure a distorcere l’evidente antistalinismo ed eterodossia del pensatore sardo, forse per garantire protezione alla famiglia dello stesso, residente in Russia), dovette rispettare un certo comportamento sia per distogliere la censura fascista che per tener cauta quella moscovita?

II. La categoria di Egemonia

Assolutamente no: pur non usando il termine alienazione, anche Gramsci scardina l’ortodossia stessa del mondo socialista di allora, immettendo tale categoria in una ancora più ampia, la categoria di egemonia.

L’alienazione, in tal senso, si pone come radice sulla quale la categoria egemonica diviene la trattazione della direzionalità, il potere di instaurare un pensiero unico e dominante: non solo il mero dominio, caratterizzato dalla mera fisicità delle istituzioni e degli enti produttivi, ma il completo e totale controllo di ogni orizzonte biopolitico dell’uomo, in primis il carattere sovrastrutturale (D).

Il percorso del discorso di Marx sul tema dell’alienazione percorre un doppio binario: essere di forte impronta hegeliana anche se di carattere assiologico opposto alla trattazione di Hegel (memore degli insegnamenti di Feuerbach, che nel concetto di proiezione non riprende la differenza tra alienazione ed estraneazione) ed essere comunque di nuovissima concezione, fondata sull’analisi demistificante dell’agire umano (i termini alienazione ed estraneazione vengono identificati nel nome della sclerotizzazione di un’astrazione sociale mistificante e coatta avente luogo nel circuito di produzione e riproduzione della vita).

Tale genesi analitica parte già dai presupposti del Marx “giovane” de La Sacra Famiglia, in cui, radicato su una profonda base umanistica, si parla di Wesen (natura o essenza in tedesco) assimilato ad un particolare prefissoide, Gattung,che definisce la genericità sociale della natura umana.

Con questa formulazione Marx intende dire che l’uomo non ha un’essenza specifica che si trasmette per eredità naturale, ma ha una natura aperta al moto storico che «gli permette di costituire forme diversissime di socialità» [Alessandro Monchietto, Marxismo e Filosofia in Costanzo Preve, Petite Plaisance, Pistoia, 2007, p. 9].

«Quando parliamo di alienazione, cioè di cessione e di perdita, bisogna subito dire chi è che aliena e che cosa aliena. Chi aliena è l’uomo […] Egli non aliena dunque solo la sua essenza umana, che è l’insieme dei rapporti di produzione, e non comprende l’elemento naturale e biologico della sua costituzione antropologica complessiva, ma aliena qualcosa di più, la sua essenza umana generica.»

Ivi, p. 10

Proprio questa sua genericità il capitalismo aliena all’uomo, strappandolo a tale caratteristica e rendendolo specifico ai soli rapporti capitalistici; l’uomo è generico, non è vincolato da nessun imprinting biologico, ed appunto per questo può cedersi ad attività la cui funzione è costituita da veri e propri dispositivi di controllo. Tale Wesen generico, connotazione “oscura” delle teorie di Marx, non si concentra solamente nell’essenza umana come condizionamento dai rapporti sociali di produzione (come teorizzava Gramsci, pur giungendo a conclusioni eguali a quelle di Marx) ma, come ben desume Kosík in Dialettica della Concretezza, è la praxis, l’umanizzazione della natura, unione del pensiero e dell’essere, categoria imprescindibile della filosofia gramsciana ed, in seguito, del connubio tra fenomenologia e marxismo attuato da Karel Kosík in Cecoslovacchia ed da Enzo Paci in Italia.

Dalla prassi si desume la “forma originaria” (Urform), che per Lukács è alla base di una moderna ontologia dell’essere sociale: il lavoro come prassi impegnata che, nel capitalismo, mediante la sua forma astratta volta alla creazione di valori di scambio definisce, nel lavoro astrattamente generale, l’annullamento dell’individuo creatore con la sua spersonalizzazione e snaturalizzazione, quantificandolo al fine di renderlo accetto (anzi, rendere accetto il feticcio-merce) al circuito del mercato, in cui la merce deve convalidarsi socialmente.  La scissione dell’unicità dell’individuo sociale dal prodotto del suo lavoro e dalla sua socialità (non esiste socialità dove l’uomo è considerato nei suoi aspetti qualitativi, esiste solamente nel mercato dove non è l’uomo ma la sua spersonalizzazione in merce a godere della socialità dei rapporti domanda-offerta) fa si che l’uomo sia solo mera occupazione, ripetizione sclerotizzata dell’azione, non prassi trasformativa. In effetti, se il riconoscimento dell’Io individuale viene dato proprio dall’intenzionalità dell’individuo che, facendo riconoscere le proprie possibilità d’azione all’altro mediante il proprio operato, definisce quella forma originaria di relazione emotivamente carica che determina il lavoro come liberazione e completamento di sé stessi, la socialità dello stesso viene a mancare per il semplice fatto che il proprio creato viene spersonalizzato e la creatività vien lobotomizzata. L’individuo non ha più la necessità di affermare la propria indipendenza grazie al proprio lavoro (quindi, al riconoscimento altrui), ma è atomo disposto, individualità egoistica la cui diversità verso le altre è riconosciuta solo mediante una convalidazione di mercato. In questa realtà prospettica che si stava già delineando ai tempi di Gramsci, il filosofo sardo riesce a trovare le cause del fallimento della rivoluzione proletaria in Italia: secondo lui la causa è da trovarsi nell’incapacità delle classi subalterne di imporre la propria egemonia a svantaggio della classe dirigente.

Con egemonia Gramsci intende la capacità di un gruppo di individui di vivere secondo il proprio sistema di valori e di diffonderlo al resto della società. Questo sostrato di logiche, valori e convinzioni vengono imposte dall’entità dominante e vengono condivise secondo quella che diviene una vera e propria tradizione culturale, determinando a priori quali pretese di validità devono essere accettate: quanto più le determinano, meno i comunicanti hanno l’occasione di verificare liberamente le proprie posizioni. Affinché tutto questo avvenga, tali logiche devono penetrare nelle istituzioni di una società divenendo strutture del sapere a validità obbligatoria. In effetti è proprio Gramsci a dirlo, prima di Foucault o della Scuola di Francoforte: il modo in cui si governa attraverso la paura sta cambiando, l’asse delle relazioni di potere non è più verticale, dove la volontà viene data dall’alto nel dominio della morte (la morte come oggetto disciplinante), bensì il potere sclerotizzato che divien dominio e direzione si pone come orizzontale, immanente nelle nostre condotte mediante un universalismo dettato dalla dottrina di mercato (la disposizione della vita come disciplinamento).

Tra Gnoseologia e Partito

Abbiamo discusso già in merito alla definizione di praxis con la trattazione sui rapporti tra egemonia ed alienazione, in particolare nell’analisi del Wesen umano: in tal senso la prassi è l’essenza dell’essere umano come animale dall’attività vitale cosciente.

In tale categoria tipicamente gramsciana convergono almeno due tematiche che si distaccano notevolmente rispetto l’ortodossia socialista del tempo, tutte e due collegate tra loro da una discussione molto spinosa all’interno del mondo marxista, quella inerente alla validità della filosofia: la questione gnoseologica, la questione pratico-politica del Partito e del Nazional-Popolare.

Il critico acuto ci potrebbe accusare di fare un puzzle ambiguo tra temi, quello gnoseologico e quello politico, che sembrano essere totalmente disgiunti tra loro: in effetti la soluzione strutturale data a questa sezione sembra a dir poco arlecchinesca, infatti, solo grazie all’ausilio di un pensatore esterno al nostro ambito di discussione (condivideva con Gramsci solo il suo essere un marxista che non si piegò alle logiche dominanti nella Terza Internazionale) si può spiegare tal collegamento.

Costui è Karl Korsch, filosofo marxista celebre, assieme a Lukács e Bloch, per aver dato le radici a quell’impianto di pensiero che verrà chiamato “marxismo occidentale”. Il suo operato, messo all’indice dei libri proibiti dall’Internazionale Socialista, volse a considerare il particolare aspetto del rapporto tra filosofia e marxismo con una battuta di spirito sull’esecrabile “marxismo di fine ’800” per cui giunge a ridicolizzare i marxisti dell’epoca asserendo che essi, rivoluzionari nella prassi, potevano tranquillamente essere seguaci della teoria di Schopenhauer. La volontà di Korsch di fornire al marxismo il suo apparato filosofico cerca di affermare l’istanza originaria fatta valere da Marx e da Engels (secondo la lettura di Korsch) secondo la quale la lotta alla società borghese necessita del momento della critica teorica in vista della soppressione anche delle manifestazioni ideologiche della società (Gramsci, al contrario di Korsch, non credeva in una visione così utopistica dell’orizzonte comunista, non a caso il suo pensiero, così come quello di Kosík, non è caratterizzato dall’attacco alla quotidianità non sclerotizzata). Questa impostazione, avvalorata dalla presa in analisi della categoria della totalità, diede a Korsch gli strumenti per sottoporre a dura critica i principali nodi teorici della teoria ždanoviana e stalinista (più che leninista) della conoscenza intesa come mero rispecchiamento e riproduzione passiva: per Korsch questa non è che una banale riproposizione di un realismo meccanicistico ed ingenuo prekantiano, che ignora la relazione dialettica tra essere e coscienza. Tale teoria del rispecchiamento è peraltro consona al giacobinismo politico tipico di una certa impostazione sovietica, giacché include il riconoscimento dell’assoluta oggettività e necessità delle leggi che presiedono allo sviluppo sociale e che, sfuggendo alla coscienza immediata dei proletari, sono colte solo dal partito.

Sotto l’egida di tal ragionamento, vogliamo condurre lo stesso discorso attorno a Gramsci, mostrando come la questione della prassi dalla gnoseologia alla questione del partito sia di per sé un unicum.

I. La teoria del rispecchiamento bipolare: dove si era fermata l’Internazionale

Morto Lenin s’impose a livello gnoseologico nella cultura accademica moscovita (e socialista per riflesso) il dogmatismo della dottrina del Diamat, in cui la dottrina della conoscenza parte dall’assunto iniziale per cui «leggi del pensiero sono un semplice riflesso delle leggi della realtà» (Stalin), estremizzazione evidente del già difficile percorso gnoseologico della teoria leninista della conoscenza, percorso aperto da Materialismo ed Empiriocriticismo e finito sui Quaderni Filosofici. La definizione staliniana succitata deriva direttamente da una lettura volgare del Ludwig Feuerbach (pp. 51-55) di Engels, per cui sin da Materialismo ed Empiriocriticismo, Lenin si oppose alla forzosa concezione engelsiana data sulla Teoria del Rispecchiamento. Ripercorriamo il pensiero di Lenin sulla gnoseologia per capire sia dov’è questo platonismo capovolto nel Diamat ufficiale, sia le pazzie di Ždanov, sia ciò che mancava al lavoro quasi ineccepibile del caro Ul’janov. La Wiederspielungtheorie, nata sì con Engels con forti influssi hegeliani, fu del tutto modificata da Lenin già in Materialismo ed Empiriocriticismo, da cui gli assunti iniziali della legge rimasero praticamente invariati. Il primo è quello dell’oggettività o esteriorità del reale, cioè dell’essere materiale e sensibile, il secondo è l’affermazione della piena conoscibilità del reale da parte del pensiero, il terzo è l’affermazione dell’inesauribilità del reale da parte del pensiero:

«Il reale è comprensibile dalla mente, esso tuttavia non si risolve mai interamente nel pensiero».

Da questi assunti Lenin parte per una considerazione dimenticata dagli epigoni sovietici successivi, ovvero la distinzione tra il concetto filosofico e “scientifico” di materia, in cui Lenin afferma che, in quanto materialismo filosofico, il marxismo è interessato a far valere il concetto gnoseologico; il marxismo non ha e non deve avere nulla da dire circa le proprietà scientifiche di questa materia (cioè come essa risulti strutturata all’analisi di laboratorio), dovendosi in ciò rimettere interamente alle conclusioni del ricercatore:

«L’unica proprietà della materia il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico è la proprietà di essere una realtà obiettiva, di esistere fuori della nostra coscienza […] In gnoseologia il concetto di materia non ha nessun altro significato all’infuori di questo: realtà obiettiva esistente indipendentemente dalla coscienza umana e rispecchiata da essa […] oltre a questo riconoscimento della realtà obiettiva che è di ordine gnoseologico e che è già implicito nella ricerca concreta dello scienziato, il marxismo non ha alcuna condizione da porre allo sperimentatore»

V. I. Ul’janov Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, Lotta Comunista, pp. 243-245

Con questa affermazione cadono in concomitanza la necessità della strutturazione dialettica della scienza di Engels (che Gramsci, così come Lukács, non accettò in toto) e, ancora di più, della dialettizzazione delle scienze voluta da Ždanov. Infatti, la volontà di porre al pubblico la dialettizzazione delle scienze è un’inversione della normale logica lineare adatta alle scienze della natura: tale istanza, caratterizzata dall’ apriorismo tipico della filosofia idealista hegeliana per cui la natura, analizzata sotto i movimenti quantitativi e qualitativi nelle categorie della fisica, del chimismo e della biologia, era solamente l’alienazione ed allo stesso tempo l’accrescimento dell’idea in sé in idea fuori di sé. Un metodo idealista applicato ad una filosofia materialista che non poteva trovare, mediante un determinato metodo dialettico, nuove realtà (così come lo può invece fare il metodo sperimentale), relegandosi alle considerazioni meramente post festum l’esperimento. Questo particolare approccio portò ad enormi sbagli gli scienziati ed i pensatori della “dialettica della natura”: lo stesso Engels fu indotto a rifiutare, in nome della dialettica, il secondo principio della termodinamica (irreversibilità del processo di passaggio del calore tra un corpo caldo ed uno freddo) e l’interpretazione puramente selettiva dell’evoluzione. Più tardi, in nome sempre degli stessi principi, il materialismo dialettico russo ha opposto critiche alla teoria della Relatività Generale di Einstein. Come ciliegina sulla torta compaiono gli incitamenti di Ždanov ai filosofi russi di muovere all’attacco delle “diavolerie kantiane della scuola di Copenaghen”, cioè di debellare, con le armi del materialismo dialettico e di un determinismo a causalità lineare di ferro, il principio di complementarità di N. Bohr, il principio di indeterminazione di Heisenberg e l’equazione di Schrödinger, i capisaldi dell’attuale fisica quantistica, così come vi compaiono le accuse medievali di Lysenko contro i genetisti classici.

Lenin mostra per lo più di intendere bene che il materialismo in gnoseologia non significa soltanto esteriorità dell’oggetto rispetto al pensiero ma significa, ancora di più, eterogeneità dei due per il carattere non esauriente ma approssimato e relativo, cioè sempre correggibile, delle nostre conoscenze. Al contrario di Stalin, Ždanov ed, in parte, Engels, muovono invece dal pericoloso assunto tanto da affermare che «queste due serie» di leggi – legge dialettica della natura e legge dialettica della mente – siano «identiche nella sostanza» e differenti solo «nell’espressione» (Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach, La Città del Sole, 2009, pag. 51) (nel mondo esterno, le leggi della dialettica operano inconsapevolmente mentre nel nostro pensiero, invece, in modo consapevole). Posta tale identità tra leggi della mente e della natura, la loro compenetrazione si può immaginare che sia foriera di una verità perfetta e assoluta, anziché di una teoria della conoscenza come approssimazione.

Per Lenin, come già scritto nei commenti sottostanti, la Teoria del Rispecchiamento è una ripresa della teoria aristotelica della corrispondenza trasposta nel campo della conoscenza scientifica e perciò integrata (seppure insufficientemente) da una teoria della conoscenza sperimentale: egli non riesce a chiarire la differenza che vi è tra sensazione e concetto, oltre ad esserci un’assenza parziale, nel suo scritto, di una teoria dell’ipotesi e della legge scientifica propriamente detta.

L’ulteriore passo in avanti di Lenin sulla gnoseologia viene dato dai Quaderni Filosofici in cui viene fondata una teoria della conoscenza del marxismo sulla nuova scienza empirico-sperimentale (psicologia ecc.) senza cadere nelle aporie positivistiche ed empiriocriticistiche, inoltre criticando aspramente l’identità aprioristica tra leggi naturali e leggi del pensiero di Engels e Plechanov nella sezione A proposito della dialettica, ovviando ai problemi di Materialismo ed Empiriocriticismo e definendo necessario per il rispecchiamento l’astrazione delle sensazioni a concetti, dando tre termini di mediazione: la natura, la conoscenza umana e le forme di rispecchiamento. In questo modo si supera ogni rispecchiamento passivo della natura, innestando la categoria marxiana di una prassi unita indissolubilmente con il processo di conoscenza umano, che non è più inteso come bipolare ma tripolare.

II. La lettura gnoseologica

Gramsci intervenne nel dibattito marxista degli anni ‘30, sconvolgendolo introducendo la categoria di praxis desunta dall’undicesima Tesi su Feuerbach(E): le tesi di Lenin in merito ad un rispecchiamento tripolare venne tacitamente obnubilato dalla filosofia ufficiale sovietica, così come i suoi Quaderni Filosofici, dando la possibilità a Gramsci di essere il primo al mondo a discutere in modo organico e sistematico di cosa sia la prassi nella filosofia marxista.

Il suo discorso parte dai presupposti di un pensatore marxista a lui antecedente, Antonio Labriola: costui fu il primo ad usare la formula filosofia della prassi per indicare il marxismo come una teoria “critica”, pronta ad interpretare le contraddizioni sociali storicamente determinate, avendo al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque la concreta e materiale “prassi” umana.

Gramsci studia tale dimensione della prassi entro termini di famiglia hegeliana, giustapponendo alla trattazione dialettica della prassi come esposizione aperta dei tre momenti (studio che verrà meglio esplicitato nel prossimo capitolo), la giustificazione dell’universalità della dialettica in campo gnoseologico: superando la trattazione della Teoria del Rispecchiamento, Gramsci sembra implicitamente impugnare quasi lo spirito cartesiano del dubbio iperbolico per sottoporre a processo il primo assunto leninista, ovvero l’oggettività e l’esteriorità del reale.

La fortuna-sfortuna di Gramsci fu sia dover scrivere i Quaderni in carcere, sia scrivere quando il turbolento clima geopolitico mondiale consentiva ben poco alla beghe Terza Internazionale, omicidio Trockij permettendo: la sua visione poteva essere etichettata – a torto – come “idealismo” da materialisti più vicini al materialismo del Barone d’Holbach che a quello di Marx.

Il pensatore sardo parte infatti nel considerare la logica dialettica come l’unica che funge universalmente da strumento di indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della realtà, come unione di conoscenza e azione. Così si esprime in merito: 

«La dialettica è la dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica, [concependo il marxismo] come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l’idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie società. Se la filosofia della prassi non è pensata che subordinatamente a un’altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, p. 132

Tale trattazione rispetto al problema della conoscenza e alle implicazioni della logica contradditoria non è solo da attribuirsi alla scuola hegeliana: l’atipicità di una certa analogia tra Gramsci e le filosofie contraddittorie orientali porta ambedue a congiungere due visioni per cui il materialismo alla Holbachè esso stesso metafisica, fondando l’assioma secondo il quale la realtà oggettiva esiste indipendentemente dall’uomo. Tale visione comune è confortata d’altro canto dal mito del Dio creatore di una realtà oggettiva fuori da noi(F), complementare al mito di un uomo di costruzione trascendente alla natura finalizzato al godimento di una situazione ontologica privilegiata.

Partendo dal presupposto che l’uomo pensa per contraddizioni (una realtà diviene determinata quando c’è altro che la limita), secondo la filosofia brahmanica il potere fondamentale nell’universo supera sia la sfera concettuale che quella sensuale.

«Ma come osserva Zimmer, non esiste antagonismo tra “reale e irreale” in questa realizzazione strettamente non-dualistica.»

Eric Fromm, L’Arte di Amare, Mondadori, 2016, p. 45

Nella loro ricerca dell’unità dietro alla molteplicità, pensatori brahmani arrivarono alla conclusione «che i due opposti percepiti non riflettono la natura delle cose, ma della mente che percepisce. Il pensiero che percepisce deve superare se stesso, se vuole raggiungere una vera realtà.» (Ivi). Nel Rig-Veda, il principio è: «Io sono due, la forza della vita e la vita materiale, due ad un tempo.» (Ivi)

Pur Gramsci rifiutava la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica: in quanto noi siamo uomini che conosciamo la realtà, essendo noi fautori del divenire storico, si può giungere alla conclusione che, nel nostro processo di totalizzazione mai conclusa, la realtà e la conoscenza siano un divenire.

Bisogna soffermarsi su un punto particolare: quando Gramsci parla di materialismo storico, in egli riaffiora la polemica con Bucharin e la sua affermazione per cui «Marx adopera l’espressione “immanenza” in senso metaforico» (Fabio Frosini, Immanenza e Materialismo storico nei «Quaderni del carcere» di Gramsci, Quaderni Materialisti, 2012, p. 1): in effetti per Gramsci il termine “materialismo storico” è sempre stato considerato come monopolio del primo termine, mai del secondo suo associato. Secondo tal pensiero, un’adeguata interpretazione della nozione di materialismo storico comporta la sua caratterizzazione nei termini dell’immanenza come categoria della moderna filosofia immanentistica profondamente ripensata e depurata della sua metafisica.

«Non si dice nulla [sull’affermazione di Bucharin]: in realtà Marx dà al termine “immanenza” un significato proprio, egli cioè non è un proprio “panteista” nel senso metafisico tradizionale, ma è un “marxista” o un “materialista storico”.»

Ivi

Come può in tal caso esistere un’oggettività, extrastorica ed extraumana? Gramsci risponde a questa domanda ed alla domanda implicita dei pensatori brahmani: cosa vuol dire che la percezione deve superare sé stesso? Considerare la dimensione della prassi come dimensione che assume la totalità.

«La formulazione di Engels che l’unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all’uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo […]. L’uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie.»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, p. 142

Tale formulazione concorre con quella di “storicismo assoluto”gramsciano al fine di riporre come materia terrena questo dubbio(G) che agli occhi dei molti è puro idealismo: per Gramsci tale azione dev’esser fatta fatta nei termini della filosofia dell’immanenza e dell’umanesimo come “mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, umanesimo assoluto della storia”. Sotto questa linea Gramsci si afferma come filosofo autentico di antiche radici, con il suo discorso che conduce a interrogarsi sulla natura del pensiero ed a definirlo in termini di mondanizzazione e terrestrità. Karel Kosík, durante il convegno della Fondazione dedicata al filosofo sardo, dalle tesi di Gramsci e dalla sua formazione fenomenologica superò la succitata formulazione, dimostrando come già lo stesso Gramsci aveva posto in nuce gli strumenti per andare oltre il suo pensiero, estremizzandolo: la praxis, secondo la lettura del filosofo ceco, si afferma come la struttura del divenire che si svolge nella relazione uomo-mondo. Questa è la creazione del mondo socio-umano, in cui si attualizza la verità dalla rivelazione stessa della realtà.

Infatti, Kosík ben capì come la trattazione del filosofo sardo non assume nessun significato se al di fuori di quelli strettamente relativi alla concezione della mondanità e terrestrità del pensiero, «cioè alla negazione della sua spiritualistica autonomia e della sua idealistica indipendenza» (Fabio Frosini, Immanenza e Materialismo storico nei «Quaderni del carcere» di Gramsci, Quaderni Materialisti, 2012, p. 3). In seno a tale atteggiamento, Gramsci fonda una lotta per l’oggettività, demistificante, antidogmatica, volta a raggiungere «ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario» (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, p. 142).Da questo aspetto gnoseologico esso dimostra quanto formulerà Gargani anni dopo: la formazione del sapere non è una progressione lineare di tecniche conoscitive scisse dalla prassi sociale, ma è costituito da condotte e da abiti derivati dalle forme di vita come loro estensione. Sicché ogni modulo conoscitivo nasce dall’interiorità di determinate forme di vita, mettere a confronto le istituzioni della filosofia con gli abiti della condotta scientifica fa perdere a quest’ultimi il loro valore fondazionalista, revocandogli gli elementi religiosi che fungono da detriti. Questo già Gramsci lo capì in minima parte: per lui, il progresso, la razionalizzazione dello strumento tecnico, non spiega nulla, esso è solo espressione di una necessità storica (assetto storicistico)nei rapporti sociali di produzione che prendono forma solamente nella politica come piano storico dei rapporti di forza, estrinsecazione dei rapporti di potere tra individui. All’idea della necessità storica propriamente detta nella dottrina moderna, egli sostituisce una concezione «ipotetica» della necessità come una data struttura dei rapporti di potere e quindi la smaschera nella sua presunta obiettività(H). InfattiGramsci investe subito il concetto di scienza:

«è il concetto stesso di scienza, quale risulta dal Saggio popolare, che occorre distruggere criticamente; esso è preso di sana pianta dalle scienze naturali, come se queste fossero la sola scienza, o la scienza per eccellenza, così come è stato fissato dal positivismo […]. Il materialismo scientifico di Bucharin è il portato di una concezione antidialettica, dogmatica, prigioniera degli schemi astratti della logica formale»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, 2014, p. 1404, 1408

Il difetto di tale formulazione è ricalcare la critica del neo-idealismo italiano al sociologismo ed al dominio delle scienze della natura mediante i temi della critica al senso comune e all’ordinario intelletto umano: Gramsci rischia di eliminare per certi versi la scientificità dell’analitica marxista, perdendo alcune volte quella carica rivoluzionaria del far scienza in modo diverso che vide in Marx il creatore, col connubio tra scienza tedesca, scienza inglese e teoria critica (Bensaïd).

Il pregio è aver posto le basi per una critica continua alla dogmaticità scientista di alcune interpretazioni ed aver ridato nuovo respiro alla definizione della filosofia (nel suo più ampio significato di amore per il sapere), vista come funzionale alla militanza politica stessa, nella costruzione di una vera e propria egemonia antagonista.

III. Il Partito Politico ed il Nazional-Popolare

Se per Korsch la gnoseologia binaria del diamat era foriera del particolare assetto politico e strutturale del partito-strategia leninista, si può dire lo stesso per Gramsci.

Lenin voleva che l’avanguardia politica fosse composta principalmente da rivoluzionari di professione che vivessero a spese del partito, un’«organizzazione di rivoluzionari capaci di dirigere la lotta emancipatrice del proletariato» finalizzato a far superare «dall’esterno» (Daniel Guerin, Per un marxismo libertario, Massari, 2008, p. 89)della massa la concezione tradeunionistica, tale da far giungere in questa la coscienza di classe. L’avanguardia doveva essere concepita, nei termini usati da Blanqui, come «un’organizzazione militare fortemente disciplinata e gerarchizzata» per la quale Lenin sostiene che il proletariato si sottomette più facilmente dell’intellettuale a questa «giusta disciplina» perché è stato alla «dura scuola di fabbrica» (Vladimir I. Ul’janov Lenin, Che fare?), caratterizzata da un’obbedienza militare.

Ovviamente quest’ultima concezione venne corretta e riproposta da Lenin, dove pregio di tale ritrattazione inerisce la tematica della «libera individualità» (Ivi), apoteosi di quella visione osteggiata dai menscevichi per cui l’aderente al partito non era solo un numero destinato al rinvigorire le quote di votanti nel mero proselitismo, bensì era militante conscio della sua responsabilità di pensiero e di azione, cardine razionale del centralismo democratico di partito ed avverso ai «chiacchieroni» (Ivi),ovvero coloro che s’arrogavano il diritto di far critiche sterili senza prendere alcuna iniziativa in senso pratico.

Questo non salvò Lenin dal fargli affibbiare comunque il soprannome di giacobino o di neo-blanquista che lui completava con«legato indissolubilmente all’organizzazione del proletariato, consapevole dei propri interessi di classe». Questa realtà, «il reparto d’avanguardia, il dirigente dell’immensa massa della classe operaia» (Ivi), aveva una premessa di fondo che faceva decadere molte delle critiche dei menscevichi, ovvero quella appena citata: l’avanguardia è un’élite operaia che aspira a reclutare operai “avanzati” per trasformarli in rivoluzionari di professione, in dirigenti. Nel rapporto massa-partito però sussistette uno iato, ovvero essendo che «il partito non deve esser confuso con la massa» ma le masse devono «lavorare sotto il suo controllo stringendosi attorno a lui e gravitandone intorno», in questa dinamica è compito della dirigenza fondersi con le masse ma fino ad un certo punto poiché, solo pochi possono entrarvi, i pochi “avanzati” destinati a diventare dirigenti. Pur liquidando facilmente i menscevichi (Martynov, per esempio) Lenin non riuscì a liquidare tanto facilmente la Luxemburg e Trockij, i quali mostrano che una piccola minoranza dirigente rischia di dominare la classe a cui appartiene. Lenin risponde alle loro critiche di saper di aver esagerato in vista di un movimento operaio non ancora maturo, per eliminare il dilettantismo e l’incostanza («l’anarchia» per Lenin) aveva dovuto creare una tale concezione centralistica e minoritarista, concordando con i propri critici sull’aspetto che «la teoria rivoluzionaria non è un dogma ma si forma in stretto legame con la pratica di un movimento realmente rivoluzionario comprendente anche le masse» (V. I. Ul’janov Lenin, Estremismo, malattia infantile del Comunismo). In realtà Lenin aveva anche un altro motivo per sviluppare il concetto di avanguardia esterna, ovvero la sua persona: infatti la sua genialità compensava le contraddizioni pratiche dell’avanguardia esterna, tanto da far dire lo stesso Trockij che egli in gran misura esprimeva la pressione della classe sul partito e non rappresentava l’apparato. Il perseverare del concetto leninista porta così sia la Luxemburg che Trockij a condannare questo come «superato» (Lev D. Trockij, I nostri compiti), l’una che denuncia lo «spietato centralismo del partito strategia», l’altro a darle man forte denunciando il particolare volontarismo di Lenin, ambedue invocando l’esempio della Comune di Parigi come esempio di spontaneità in potenza alle masse. In seguito è bene ricordare che Trockij sconfessò il testo in cui lanciava le sue invettive, I nostri compiti politici, relegando quest’opera solo alla traduzione russa e allineandosi alla concezione leninista. 

Lenin stesso cercò negli anni di smorzare quelle contraddizioni che potevano determinare nel partito campo aperto ai fattori controrivoluzionari (come accadde con la salita al potere di Stalin, espressione delle forze negative della NEP), sia affermando la sua volontà di smantellare l’apparato oppressivo dello stato con Stato e Rivoluzione, sia cercando praticamente, fino alla sua morte, di ostacolare la salita al potere di coloro che potevano sfruttare le fragilità interne per prendere il potere, come ben testimonia la famosa opera di Lewin sugli ultimi sforzi di Lenin.

In tal contesto Gramsci si colloca tra i pensieri collaterali a tale dibattito, sia perché lui fisicamente non entrò mai come protagonista nel dibattito Luxemburg-Lenin-Trockij, sia perché il suo pensiero si può rintracciare come un qualcosa di totalmente nuovo e, allo stesso tempo, punto di mediazione tra la visione del partito di Lenin e la visione della Luxemburg. Già negli scritti pre-carcerari Gramsci definisce a priorila struttura del quadro dirigente di partito come intellettuale: in effetti è lo stesso modus vivendi del filosofo sardo che gli da la possibilità di strutturare su di lui l’esempio di militante tipo, distinto da quell’eclettismo che lo caratterizza nell’affrontare argomenti politici, filosofici, letterari e culturali.

Se finora Gramsci assumeva su di sé ogni sfumatura dell’azione di classe, compreso le contraddizioni stesse della classe operaia comprese durante il Biennio Rosso, la vera svolta che gli fece formalizzare l’ideazione di una nuova struttura di partito fu la necessità di adattare l’ente organizzativo della massa proletaria – che Marx vedeva come riflessione temporanea dei rapporti di forza nel circuito della produzione e Lenin come trasposizione costante e disciplinante della stessa classe in ambito specificamente politico – ad una nuova realtà che si era prefigurata con la sconfitta del movimento operaio, questa fautrice della nascita della reazione (la rivoluzione passiva fascista) e della profonda riflessione in cui Gramsci si chiedeva, entro i confini di un comune dubbio, le motivazioni di tale sconfitta.

Sin da subito capì che l’economia di mercato aveva messo ai margini ogni pensiero antagonista, per cui già da subito non si poteva valutare un’istanza dall’onestà dei personaggi politici: tale considerazione eliminò in toto ogni giustificazione ad personam sulla correttezza delle istanze da normalizzare che un qualsiasi candidato poteva proporre, spingendo Gramsci verso un’altra e più completa ricerca.

Egli inizia a riporre sempre più fiducia sul fattore istruttivo dei quadri dirigenti, preferendolo ad una parvenza del partito dell’onestà: i quadri fin da subito avrebbero dovuto introiettare il concetto per cui studiare i fenomeni politici in senso gramsciano non voleva dire solo strutturare i limiti sistemici dei rapporti di potere, ma stabilire le possibilità d’azione concrete dell’uomo politico. Non a caso molte note di Gramsci sono caratterizzate dallo studio dei fenomeni storici, concorrente all’elaborazione di una strategia che possa mirare all’azione politica ed alla conservazione del potere.

Tale procedimento in Italia ha un precedente storico, il precedente machiavellico del Principe, in cui l’autore prescrive all’ottimo principe le regole per  prendere e mantenere uno Stato: è infatti con Machiavelli che Gramsci inizia la disamina sulla strutturazione intima del partito, chiamato altresì “machiavellico”. In effetti, proprio come il Principe invocato da Machiavelli, Gramsci invoca un ente che possa elevarsi alla più pura rappresentazione della volontà collettiva nazional-popolare con l’irruzione delle masse subalterne (parte della piccola borghesia, per lo più impiegatizia, proletariato urbano e rurale, sottoproletariato) nell’ambito politico sotto un’unica bandiera (come intendeva Machiavelli in quel processo di integrazione designato nella formazione della milizia): tale espressione evoca sia in Gramsci che in Machiavelli lo spirito più organizzativo di uno pseudo-giacobinismo (il pensatore sardo ebbe diverse opinioni, anche assiologicamente contrastanti, sul giacobinismo) foriero di una rivoluzione nazionale.

Analizzando la genesi della produzione culturale italiana, Gramsci afferma che la costruzione della nazione non poteva far altro che riproporre i limiti che ne avevano ritardato la nascita sin dai tempi di Machiavelli: i limiti di una distanza tra intellettuali e masse popolari. Espressioni di tale forme di relazioni egemoniche squilibrate sono Gioberti e Mazzini, che rappresentano due poli opposti:

«Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l’Italia almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare una nuova dignità al pensiero italiano. Mazzini invece offriva solo delle affermazioni nebulose e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente napoletani, dovevano apparire come vuote chiacchiere.»

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, 2014, p. 2046

Gli intellettuali si affermavano nella loro visione del futuro stato italiano, ed il partito dei moderati poté egemonicamente esercitare nei confronti degli intellettuali una profonda influenza, ponendo come modello principale quello piemontese.

«L’emblema di tali intellettuali è Ugo Foscolo con i suoi Sepolcri, la maggiore “fonte” della tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle glorie nazionali. La “nazione” non è il popolo, o il passato che continua nel “popolo”, ma è invece l’insieme delle cose materiali che ricordano il passato.»

Ivi, p. 569

Pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali. L’Italia conservò una tradizione culturale che non risale all’antichità classica, ma al periodo dell’età classica dall’Umanesimo e dal Rinascimento: tale unità culturale fu la base del Risorgimento e del sostrato del nazionalismo popolare, essenza del nazionalismo francese, tedesco, o americano.

Così come avvenne sotto il ministero di Gentile, l’élite che poté favorire di una cultura cosmopolita fu  proprio quella classe dirigente sciovinista.

Nell’assenza di un vero e proprio pseudo giacobinismo culturale italiano che potesse disciplinare le masse, Gramsci trova in Gioberti il precursore del nazionale-culturale:

«[Gioberti scrive] nel Rinnovamento (Parte II, capitolo “Degli scrittori”) scrive: “…una letteratura non può essere nazionale se non è popolare; perché se bene sia di pochi il crearla, universale deve esserne l’uso e il godimento”.»

Ivi, p. 2047

Il canto del cigno nell’acume degli intellettuali risorgimentali è in assoluto De Sanctis, che ben afferma quanto fin d’allora si necessitava un nuovo atteggiamento verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è “nazionale”, diverso da quello della destra storica, più ampio e meno esclusivista. Da questa affermazione Gramsci pone le sue conclusioni sul fatto che una classe alla conquista dell’egemonia deve creare una nuova cultura (che è essa stessa espressione di un nuovo abito, un nuovo modo di visione del mondo) mediante un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva. Forte della sua analisi per cui la società industriale non porta solo ad un tipo di rapporto e modo di produzione ma anche un modo di pensiero, Gramsci analizza quanto il senso comune, spontaneamente o semi spontaneamente interiorizzato, governa le classi sociali e capisce quanto chi detiene l’egemonia non ha bisogno di instaurare una dittatura o uno stato di polizia.

Dalla sconfitta del Biennio Rosso, la lotta politica non potrà solo ambire all’occupazione di fabbriche, ma anche far prevalere la propria visione del mondo: la libertà d’azione si costruisce entro l’ambito simbolico per cui la battaglia per le idee diventa battaglia per l’egemonia culturale. Il partito diviene elaborazione culturale, voce di quel giacobinismo culturale gramsciano,dove la cultura non è solo ideologia, ma è anche la base per creare una nuova disposizione di corpi. Non c’è distinzione gerarchica tra cultura alta e cultura bassa, benché meno tra cultura borghese e proletaria, poiché ambedue necessarie per costruire quel piano di coscienza comune volto alla propria liberazione; nulla a che fare con la forzosa stigmatizzazione di ogni opera non aderente al realismo sovietico, per gran parte dei teorici russi unica forma nazionale di cultura proletaria.

Più simile a Gramsci è Lukács, che nei suoi saggi (come l’Estetica) è alla ricerca del tipico come risultato del cogliere il significato profondo della realtà storica, i suoi nodi centrali e decisivi, le sue tendenze di sviluppo, ed esprime tutto ciò  attraverso situazioni e personaggi: il pensatore ungherese costituisce la discriminante fra realismo (fondato sul tipo) e naturalismo (sull’astratta media), tra le opinioni storico-politiche di uno scrittore e il significato “oggettivo” della sua opera letteraria. Nonostante Gramsci non avesse quel ripudio dell’espressione esistenziale dell’essere umano e del naturalismo tipico di Lukács (e fenomeno logico della riappropriazione di quest’ultimo della teoria del Rispecchiamento leninista nella Ontologia dell’essere sociale e  ne L’Estetica), con Lukács ha in comune quella ricerca dell’“umanamente oggettivo” fondato dallo studio critico nella coscienza subalterna.

Da questo primo assunto possiamo ritornare ai riflessi del concetto gnoseologico di oggettività per Gramsci: l’essere sociale è formato dall’intima articolazione dialettica tra oggettività e soggettività, tra causalità e teleologia come aspetto qualitativo che guarda ad un fine reale, un’utopia concreta. Infatti esiste “egemonia” quando un gruppo sociale ottiene il consenso di altri gruppi per le sue proposte e, pertanto, quando l’azione teleologica del primo gruppo ha successo. Affinché ciò accada, è necessario che entrambi i gruppi condividano concetti e valori comuni: diventa oggettivo proprio quello che è universalmente soggettivo. Senza la creazione di questa intersoggettività, proposte come  quella del socialismo, per esempio, si conservano a un livello soggettivo di intenzioni. Gramsci poi non dimentica che, per aver luogo la formazione di questa universalità soggettiva, è necessario che siano date nella realtà le condizioni che permettano la loro conversione in oggettività nella causalità multipla tra oggettivo a soggettivo.

«Ma questa conversione della potenza in atto non accade senza la costruzione di una intersoggettività fondata nella convergenza di differenti azioni teleologiche.»

Carlos Nelson Coutinho, Gramsci e Lukács, Critica marxista, n.1, 2012

Tale realtà pone un’altra questione in merito alla figura del Partito: la sua struttura interna. Il partito gramsciano non è più il partito-strategia, è un partito egemonico che non può essere solo formato da eletti, ma dev’essere un’intellettuale collettivo che comprenda la massa subalterna senza avere l’ambizione di dirigere la classe, ma di trasformare i diretti in dirigenti in cui il popolo-nazione diviene soggetto della storia mediante l’unione tra i dirigenti politici di professione e gli esperti culturali: Gramsci pone ad intellettuale organico coloro che, come lui, con la loro poliedricità ed eclettismo, riescono a determinare quel passaggio – dal sentire al comprendere sino all’elaborazione – intrinseco in una connessione sentimentale tra intellettuali e subalterni.

Per Gramsci, tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che «non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens», in quanto,  ognuno è «un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale» (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, 2014, pp. 1550, 1551). Storicamente si formano particolari categorie di intellettuali detti organici, poiché in connessione coi gruppi sociali più importanti nei rapporti di potere egemonici (nulla a che vedere con la figura del centralismo organico bordighista).  Il gruppo sociale finalizzato alla lotta per conquistare l’egemonia politica tende a conquistare alla propria ideologia l’intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. La struttura complessa del partito aveva bisogno di enti mediani di coordinamento, che dovevano fungere da epicentro politico di formulazione e militanza che possa dare le basi, mediante l’azione e l’interazione locale, il pensare globale all’organo centrale tramite l’elaborazione dei dati: l’importanza direzionale data alla collettività diviene soluzione pedagogica, genesi del sincretismo tra gli studi di Antonio Labriola sulla pedagogia e il secondo fattore di influenza tra la teoria gnoseologica e la democrazia di partito.

Antonio Labriola fu de facto uno dei primi marxisti e marxologi italiani e fu in assoluto il primo che trattò l’elemento praxis come imprescindibile dalla filosofia marxista. Solo questa descrizione può bastare per evidenziare la sua enorme influenza su Gramsci, influenza che si riverbera indirettamente sulla stessa strutturazione pedagogica del partito: per Labriola era necessaria un’attenzione maggiore ai prerequisiti logici piuttosto che alla struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che egli chiama epigenesi analitica, il calcolo delle potenzialità del metodo d’insegnamento. Labriola aveva asserito la centralità dell’educazione alla socialità, espressione della ricerca critica e di dibattito e di sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al confronto: gli studi di Labriola su Socrate avevano messo in luce lo stretto legame tra la politica come pratica trasformativa con funzione pedagogico-maieutica e come pratica veritativa che, in quel “discorso” di foucaultiana memoria, avversava la dimensione sclerotizzata dei rapporti di potere compiuti nella pastoralità dell’atto. È il parlar franco, la parresia, la ricerca della verità come umanamente oggettiva passa per il confronto intersoggettivo dell’universalmente soggettivo: la ragione intersoggettiva al partito diviene espressione di un’azione teleologica riuscita.

Contro la sociologia che vorrebbe farne una classe senza forma, così come Gramsci anche la Luxemburg vede nella massa subalterna un insieme contraddittorio di soggettività dal cui scontro nasce la direzione politica. La massa diventa dunque luogo di un processo di disciplinamento, che per la Luxemburg non si esaurisce nella forma partito. Per lei le masse devono essere chiamate a una partecipazione costante e cosciente alla lotta, devono fare cioè in prima persona la propria parte.

«È nella lotta di classe che il proletariato chiarisce a se stesso gli scopi della sua azione, ma questa attività di chiarificazione vale anche per i quadri e i dirigenti del partito»

Fare la propria parte: Rivoluzione o Riforma Sociale, la disciplina di Partito per Rosa Luxemburg, seminario di Michele Cento e Roberta Ferrari

L’esperienza è il dato a partire dal quale e nel quale si producono soggettività (anche contraddittorie tra loro) e che va comunque superata. Nell’esperienza e nel suo superamento, che non è semplicemente “il dato” lineare e omogeneo, va pensata la libertà. La democrazia diviene processo disciplinare, che deve coinvolgere le masse perché questo le produce soggettivamente, ma deve anche dare loro qualcosa, la concretezza del potere politico, l’espressione «potentemente esercitata» (Antonio Gramsci, articolo Sindacati e dittatura, L’Ordine Nuovo, 1919) dal partito come «potenza della coscienza di classe» (Ibidem), dove per potenza ci si riferisce a quel maximum espresso dalla  classe nel per sé. Con una bellissima espressione di Lukács: il  partito è «spinoziano» (György Lukács, Storia e Coscienza di Classe), ovvero è sia mezzo rivoluzionario che fine disalienante della rivoluzione, all’interno del partito si sottrae dall’eteronomia le libere individualità e le si disciplina entro nuovi e dinamici rapporti di potere intersoggettivo.

Per Lenin la rivoluzione è quella determinazione immediata della presa di potere, effetto della necessaria precipitazione del processo rivoluzionario, quando invece per la Luxemburg come per Gramsci, la presa di potere è l’intero processo stesso in cui creare una direzionalità antagonista. Entro questa definizione, si rientra col testo della Luxemburg, Riforma Sociale o Rivoluzione. La Luxemburg non parla mai del socialismo come qualcosa di radicalmente diverso dall’esistente, una terra promessa da raggiungere, ma come una specifica condizione di possibilità, dove si può giocare il potere politico. In questo senso, la riforma è lo spazio di disciplinamento biopolitico della rivoluzione. La riforma è il luogo in cui i subalterni smettono di pensarsi come tali, esprimendosi in una relazione di potere non più sclerotizzata: ecco qual è quella costante che il partito deve tenere in mente sia prima che dopo il primo limite della rivoluzione, la dialetticità tra dittatura del proletariato e democrazia, non intesa come assolutezza degli opposti di Kautsky, per cui la democrazia è quella reazionaria, ma come metodo indissolubile per determinar la stessa dittatura del proletariato, in cui partito certo ha quadri dirigenti, ma anch’essi nel discorso tra realtà soggettive della massa devono incanalare e guidare il potenziale rivoluzionario espresso dal proletariato e, insieme ad esso, devono fare esperienza nella lotta di classe, in simbiosi con quella del proletariato.

L’organizzazione della classe per Lenin non consiste solo nel momento direttivo, perché il proletariato deve fare esperienza sul terreno della lotta. Pur da questo presupposto comune ai tre pensatori, i tre percorsi infatti si dividono perché per Rosa Luxemburg l’esperienza nella lotta di classe detiene un primato politico sul momento direttivo, ma non perché lei sia una rivoluzionaria romantica che idealizza la spontaneità sovversiva delle masse; Gramsci invece si pone nel mezzo dei due, affermando quasi dialetticamente quanto il momento direttivo e la lotta di classe non possono né porsi gerarchicamente né essere uno indipendente dall’altro.

Note

  • A. Teoria inerente all’impossibilità di congiungere il Marx “giovane” ed hegeliano, che legge il fenomeno alienante entro puri rapporti qualitativi, col Marx “maturo” e “scienziato”, che predispone il suo apparato di ricerca entro meri aspetti quantitativi incentrati sul valore di scambio della merce e sull’espressione di questo come tempo di lavoro socialmente necessario, da cui si trae tutta la disquisizione sul valore-lavoro.
  • B. Si veda la I sezione del capitolo «Tra gnoseologia e Partito» 
  • C. Si pensi solamente al grande economista sovietico Isaak Rubin che, nel risolvere il problema della corrispondenza tra i prezzi di produzione e il valore incorporato nella merce (dopo l’inserirsi del fattore dell’uniformità del saggio di profitto settoriale, rompendo l’uniformità di composizione organica presente nel primo libro di das Kapital), reintrodusse la categoria dell’alienazione nell’analisi economica marxiana (instaurando tale categoria qualitativa su quella quantitativa del valore) e, così facendo, creò quei presupposti per una critica strutturale al non-socialismo staliniano che lo fecero giustiziare nelle Purghe.
  • D. I concetti di Struttura e Sovrastruttura (o Superstruttura) introdotti da Marx nell’Ideologia Tedesca corrispondono il primo alla strutturazione economica nei rapporti di produzione di una determinata società,  il secondo agli ambiti politici, giuridici e culturali
  • E. «I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo» (Karl Marx, Tesi su Feuerbach)
  • F. Sembra essere addossata al dualismo cristiano la distinzione di pensiero ed essere e, quindi, l’eterogeneità o esteriorità di quest’ultimo rispetto al primo: meditando su quest’operazione sembra che Gramsci voglia essere mediatore tra quell’eredità della critica idealistica hegeliana contro il materialismo e la Reflexionsphilosophie ed il materialismo classico del mondo marxista. In tal senso, le incertezze interpretative devono essere totalmente distolte sia dal misticismo engelsiano (vedere punto primo di «Tra gnoseologia e Partito») da una parte, che dal misticismo hegelo-crociano dall’altra, con i conseguenti problemi di sorta: Gramsci si pone a medium, mai negando espressamente l’esistenza di una realtà esterna dal pensiero (sicché lo stesso Gramsci capì la necessità di una tale realtà per l’affermazione dell’esistenza della coscienza) né imponendo a questo il rispecchiamento diretto dalla materia.
  • G. Nelle Tesi su Feuerbach, la trattazione dialettica della “sensazione” esplicita il bisogno di Marx di uscire dalle sabbie mobili del “realismo ingenuo”, ormai prostrato al dubbio cartesiano: «il mondo in nessun caso è però un prodotto del concetto che pensa al di fuori o al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione e che genera se stesso, bensì un prodotto dell’elaborazione in concetti dell’intuizione e dell’immagine» (Grundrisse). In questa affermazione di Marx, sembra proprio che le “idee” cartesiane, e l’“intuizione” e l’“immagine” che troviamo nel passo di Marx siano esattamente la stessa cosa. Lo stesso filosofo di Treviri  esplicita il fatto che il “mondo reale” del quale sta parlando non è altro che un agglomerato di “intuizioni” e di “immagini”: una operazione mentale automatica, ma sempre un’elaborazione mentale mediante rappresentazioni. Gramsci (sotto l’egida di Engels) e, ancor di più, Kosík, fonderanno la giustificazione dell’esistenza della verità mediante il precorso di attualizzazione inter-soggettiva.
  • H. cfr. Eclissi della Ragione di M. Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo di T. Adorno, Dialettica Negativa di T. Adorno, L’Uomo ad una Dimensione di H. Marcuse

Bibliografia della I parte

  • Pier Paolo Pasolini, Le Ceneri di Gramsci, Garzanti Libri, 2014
  • Alessandro Monchietto, Marxismo e Filosofia in Costanzo Preve, Petite Plaisance, Pistoia, 2007
  • Vladimir I. Ul’janov Lenin, Materialismo ed Empiriocriticismo, Lotta Comunista
  • Friedrich Engels, Ludwig Feuerbach, La Città del Sole, 2009
  • Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce
  • Eric Fromm, L’Arte di Amare, Mondadori, 2016
  • Fabio Frosini, Immanenza e Materialismo storico nei «Quaderni del carcere» di Gramsci, Quaderni Materialisti, 2012
  • Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, 2014
  • Daniel Guerin, Per un marxismo libertario, Massari, 2008
  • Vladimir I. Ul’janov Lenin, Che fare?
  • Vladimir I. Ul’janov Lenin, Estremismo malattia infantile del Comunismo
  • Lev D. Trockij, I nostri compiti
  • Carlos Nelson Coutinho, Gramsci e Lukács, Critica marxista, n.1, 2012
  • Fare la propria parte: Rivoluzione o Riforma Sociale, la disciplina di Partito per Rosa Luxemburg, seminario di Michele Cento e Roberta Ferrari

 

Prima Parte,

Atene, 20 ottobre 2018
Udine, 19 novembre 2018

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