Il tono è perentorio, tipico di chi non ammette replica alcuna: in questo momento non ci importa chi lo ha detto, a noi importa il momento in cui lo si deve dire. Lo si deve affermare quando l’uomo si riappropria del sacrosanto diritto di parlare in merito la sua libertà concreta, oltre gli artifizi retorici passati e presenti che vorrebbero far di tale momento mera e vacua astrazione. Lo stesso momento che oltre settant’anni fa si presentò insistente a coloro che, uomini di scienza e coscienza, scelsero di essere antieroi, in una società dove l’eroe era il figliol prodigo degli odi di partito. Questo momento, penetrante come un tarlo, viene a definirsi come tedio della coscienza: è qualcosa che scatta nell’anima di chi, non più scoglio inerme oggetto ai corsi e ricorsi della marea, si stanca di quell’indifferente attendismo, malato di morte, rappresentato dal suo motto che tanto consola quanto ottunde: «il tempo è galantuomo».
Oggi, formalmente, si celebra la conseguenza che portò al compiersi simbolico del fine preposto da coloro che decisero per la libertà: come ben si sa, il 25 aprile è una data, purché simbolica, ma proprio la sua natura di data, può facilmente essere dimenticata: l’uomo che dimentica, a tal proposito, confonde spesso la celebrazione col celebrato credendo che la pura funzione possa esentarlo dal capire il suo significato profondo e riverberarlo nell’intera propria esistenza. E infatti, oggi, vorrei con voi celebrare ciò che non si può ridurre a liturgia o puro momento istituzionale: non più il suo fine, ma quel momento di presa di coscienza che fu individuale, responsabile, umano, che non può e non deve essere dimenticato, pena il ritorno nella barbarie o, ancora, il ripresentarsi di nuove e peggiori.
Sia ben chiaro, lungi da me andar contro la pratica storica ormai sedimentata nel nostro quotidiano, che non è la pratica dell’analitica storica (cercando, il più possibile, di depurare la storia dal suo aspetto inviolabile, genealogico e dogmatico), bensì è la storia come mezzo per la pratica politica.
Lungi da me parlare di fascismo, ormai per tanti termine desueto, indicante un periodo storico determinato e, a detta dei tanti, troppo lontano per tangere a noi. D’altronde, mi sento di spezzare una lancia a loro favore: se la massima espressione di fascismo che possiamo rilevare al giorno d’oggi è la salda e frequente convinzione che il 25 aprile sia una diatriba tra fascisti e comunisti (non rilevando nemmeno le molteplici voci che parlavano in nome della Resistenza), se i massimi esponenti di quell’ideologia sono coloro che giustificano le loro azioni adducendo a scuse che vanno dall’esoterico al merchandising, non vedo cosa ci sia da preoccuparsi di fronte a personaggi che, a mio malgrado, vogliono rappresentare la caricatura di loro stessi.
Spero di convenire con voi sul fatto che questa giornata, ripeto, celebrazione della presa di coscienza di coloro che andarono contro il nazifascismo, abbia un duplice scopo: ripudiare quella logica del numero, dell’efficientamento, dell’essere umano inteso come pezzo presente in larga parte in questa società, a priori delle opinioni politiche di ciascuno perché connaturata nelle azioni quotidiane e, allo stesso tempo, far capire che questa logica, di cui massimo esponente fu all’epoca il nazifascismo, nasce quando l’individuo abbandona la propria socialità, si fa indifferente, abbandona la responsabilità della propria libertà e la cede a terzi, quando non è più partigiano.
Se si prende un buon dizionario di italiano come la Treccani e si cerca la voce partigiano, si ritrova forse il significato più puro del termine: è partigiano chi si schiera, chi parteggia, chi assume in essere quel momento, libertario per natura, che vuole affermare le diversità, i propri credo, i propri sogni, a priori della riscossione dei consensi a cui questi potranno andare incontro.
Essere partigiano vale a dire essere per natura repellente all’abulia, al nichilismo ed all’omologazione. Essere partigiano non è qualcosa che risponde ad un eco lontano: essere partigiano vuol dire esprimersi nella propria interezza, essere partigiano sono i ragazzi che lottano per un futuro migliore, da Libera ai ragazzi di FridayforFuture, essere partigiani vuol dire urlare a gran voce: ora, per la libertà, parlo io.
— Elia Pupil
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