Gli strateghi del capitale: uno stimolo pessimista per ripensare la transizione

Il libro di Gianfranco La Grassa Gli strateghi del capitale. Una teoria del conflitto oltre Marx e Lenin rappresenta il punto di arrivo della lunga parabola intellettuale di La Grassa e del suo personale ripensamento della teoria marxista. 

  1. Ripensare il marxismo

Per La Grassa la scienza disantropomorfizza e per questo motivo le scienze naturali si sono dovute liberare di ogni forma di animismo. Concetti come forza o magnetismo possono portare ad alcuni errori perché fanno credere all’esistenza di qualità intrinseche alla materia di cui sono costituiti i corpi fisici. Si tratta, invece, di caratteristiche delle funzioni che esercitano in determinate condizioni di intreccio e interazione reciproca. La matematica aiuta, esattamente come il linguaggio, a sfuggire da ogni punto di vista sostanziale. Esiste una fondamentale unitarietà di metodo tra tutte le scienze, incluse quelle sociali. Concetti come formazione sociale o modo di produzione non fanno eccezione. Lo scienziato deve limitarsi alle funzioni di dati soggetti e descriverne i caratteri per costruire l’intelaiatura della società. La scienza non serve a rispondere alle domande essenziali che l’uomo si pone circa la sua esistenza o i fini ultimi della sua vita ma deve forgiare strumenti per orientare le nostre azioni in una realtà complessa come la società umana. Quindi la scienza non risponde a domande sull’essenza umana e neanche deve porsi simili questioni ma allo stesso tempo lo scienziato sociale non deve indagare la realtà per imbrigliarla in schemi teorici che orientano l’interpretazione e l’azione nella società con lo stesso spirito che guida il lavoro degli scienziati che interpretano la natura. Analizzare le forme storiche delle relazioni sociali ha bisogno di strumentazioni teoriche tanto quanto l’analisi del moto degli astri o delle reazioni chimiche ma lo spirito che muove le analisi nei vari rami delle scienze non è uguale. 

In Marx è sempre stata presente una pulsione all’oggettività scientifica che nasceva dal suo essere un rivoluzionario e dal non volersi limitare ad analizzare il mondo in cui viveva ma a trasformarlo. Per conseguire un simile scopo non era sufficiente l’adesione morale ad un progetto politico ma studiare le sue condizioni di possibilità attraverso l’analisi della struttura interrelazionale e interazionale tra le varie classi. Questo costituisce il campo della lotta e del possibile mutamento dei rapporti di forza. L’unità del metodo scientifico non deve far dimenticare che esiste una differenza nell’approccio tra analisi della realtà naturale e sociale. Marx doveva formulare dei concetti utili non per comprendere l’Uomo ma le funzioni dei gruppi di individui riuniti in classe e le loro interazioni. Sotto questo aspetto il lavoro svolto era simile a quello di un fisico o di un chimico ma si poneva delle finalità di carattere sociale diverse da chi indaga solo la realtà naturale scegliendo di rivoluzionare la forma di società studiata. Questo preambolo ci serve per capire come funziona la sua teoria scientifica che La Grassa spiega utilizzando un’analogia che viene dall’astronomia. L’uomo, inizialmente, era naturalmente convinto che il Sole girasse intorno alla Terra ma questo era solo un moto apparente. In un secondo momento interviene la scienza per scoprire il moto reale, quello della Terra che gira intorno al suo asse terrestre. A Marx interessa il disvelamento del moto reale celato, dal senso comune, dal moto apparente. Sviluppando questa riflessione La Grassa è in grado di spiegare il senso del ramo scientifico fondato da Marx, ovvero la Critica dell’economia politica. La critica rappresenta il tentativo compiuto, via ipotesi, di disvelare il moto reale della struttura capitalistica dei rapporti sociali nascosti da quello apparente di cui si interessa, in maniera esclusiva, l’economia politica dei dominanti in questa specifica forma di società. Per questo motivo La Grassa difende la teoria del valore. La sua azione di disvelamento è capace di mostrare che dietro la superficiale realtà dello scambio di equivalenti, ovvero la superficie del mercato, c’è uno scambio ineguale tra tempo di lavoro erogato dal lavoratore salariato nel processo produttivo di merci e il tempo di lavoro speso per produrre le merci di consumo necessarie al mantenimento e alla riproduzione del portatore della capacità di erogare lavoro produttivo. Il lavoratore che diventa un salariato non è più uno schiavo o un servo della gleba grazie ad una complessa trasformazione di carattere storico dei rapporti sociali. Solo facendo ricorso alla ricerca storica, da questo punto di partenza, si arriverebbe a dire che è avvenuta una mercificazione generale e ormai i lavoratori sono diventati liberi possessori di una merce particolare venduta, tramite intermediazione di moneta, in cambio di altri prodotti necessari alla propria vita. Solo utilizzando il microscopio della ragione possiamo disvelare la realtà reale dietro quella apparente, da non confondere con l’irrealtà. Il lavoro salariato non è solamente un cambiamento di forma rispetto al lavoro schiavistico o alla servitù della gleba ma solo l’analisi di questa mutazione colta con la potenza astraente consente il disvelamento. La teoria del valore è frutto di un pensiero astraente, come ogni pensiero scientifico, che fissa la sua attenzione sul mutamento delle forme per smascherare ciò che l’economia politica dei dominanti nasconde. I lavoratori sono liberati dai vincoli di dipendenza di tipo schiavistico o feudale ma l’emolumento acquisito dal capitalista che possiede i mezzi di produzione non è altro che plusvalore apparso nella forma del valore secondo cui lo scambio avviene, in media, a partire dalla legge dell’equivalenza. Se questa equivalenza non viene rispettata c’è qualcuno che guadagna quello che l’altro perde, senza un di più che non può essere visto al livello dello scambio mercantile. Questo plus può essere visto solo attraverso l’astrazione a partire da uno scambio particolare che presuppone specifici caratteri per chi compra e per chi vende la merce forza lavoro. Simili caratteri sono legati alle funzioni esplicate da tipologie differenti di classi di individui nel processo produttivo di beni che poi verranno immessi nel mercato e scambiati tra loro, in media, come equivalenti. Nell’ipotesi scientifica di Marx c’è una distinzione tra il potere di disporre dei mezzi di produzione e la funzione della loro mera messa in moto attraverso la propria forza lavorativa. Quindi capitalisti e operai sono maschere di rapporti sociali di forma peculiare che si instaurano a seguito di processi spazio-temporali concreti e non vanno confusi, dice La Grassa, con gli essere umani considerati nell’ambito della loro vita pratica quotidiana. Questo aspetto viene analizzato in un successivo momento e con altre finalità ma prima serve la comprensione scientifica dello scambio ineguale presente dietro lo scambio mercantile di equivalenti. Coloro che sono soddisfatti della vita sociale dei nostri tempi preferiranno concentrare l’attenzione al livello degli scambi mercantili e riveleranno, in questo modo, l’eguaglianza delle possibilità di tutti gli individui che svolgono le loro funzioni di compera e vendita delle merci. Chi però avverte la sopraffazione, la prepotenza e la violenza del capitalismo orienterà oltre lo sguardo, superando il livello dello scambio mercantile ma sempre tenendo a mente che nelle nostre osservazioni della realtà non dobbiamo introdurre la nostra indignazione morale o l’impulso a cambiare questa società per renderla migliore. Il rischio è scambiare i nostri desideri per le nostre possibilità reali di trasformare questa società. In definitiva per La Grassa la teoria del valore ha carattere scientifico perché si tratta di un mezzo di comprensione e interpretazione del movimento intrinseco ai rapporti di produzione capitalistici. Questa indagine è al centro delle riflessioni di Marx e ha avuto conseguenze notevoli quando è stata applicata ad una società in cui i lavori sono eseguiti privatamente, cioè unità produttive fra loro autonome e in concorrenza, e si socializzano indirettamente con l’intreccio e interazione nel mercato. La più importante delle quali per La Grassa è la tesi secondo cui all’interno di questo sviluppo sociale del capitalismo c’è la tendenza alla centralizzazione monopolistica dei capitali che porterà ad una divisione finale della società tra un ristretto gruppo di rentier ad un polo e all’altro polo, antagonista, il lavoro collettivo cooperativo, cioè l’insieme del lavoro direttivo ed esecutivo. Questa previsione, dice La Grassa, non si è mai realizzata e neanche abbozzata. Un simile processo rendeva la rivoluzione ineluttabile ma oggi per La Grassa occorre prendere atto che il capitale non è la barriera a se stesso e il suo sviluppo conosce onde cicliche che non danno alcuna certezza sulla sua fine. Sappiamo solo che come ogni altro organismo vivente o qualsiasi altra forma di società, prima o poi dovrà morire per lasciare spazio ad altro. In ogni caso l’economista veneto sostiene che il capitalismo non dovrà lasciare spazio al comunismo per dinamiche endogene, come sosteneva Marx. Questo ci porta ad analizzare i problemi del marxismo come teoria scientifica. In primo luogo il lavoratore collettivo cooperativo, dal primo dirigente all’ultimo manovale, non si è formato. Questo lavoratore avrebbe dovuto rovesciare il capitalismo e impedire la formazione di un’altra società basata sull’appropriazione del pluslavoro di una maggioranza da parte di una minoranza. Come corollario della sua formazione c’era la convinzione teoricamente fondata secondo cui le potenze mentali della produzione sarebbero andate integrandosi in una cooperazione sempre più stretta, portando alla nascita del general intellect. Già lo sviluppo del movimento operaio in Germania mostrò come il processo capitalistico non portava nella direzione né del lavoratore collettivo né del general intellect. Ciò portò Karl Kautsky, fondatore del marxismo come dottrina, a cambiare con la classe operaia il soggetto della trasformazione. Fu una distorsione realista nata dalla presa d’atto che i possessori delle potenze mentali della produzione si stavano staccando da questa classe per affiancarsi alla proprietà capitalistica diventando specialisti borghesi, per usare un termine di Lenin. Si tratterebbe di soggetti di cui gli operai devono servirsi ma di cui non possono fidarsi e l’alleanza con questo gruppo sociale non era scontata ai fini della transizione al socialismo. La classe operaia doveva conquistare la propria supremazia ideologica e numerica nella società perseguendo fini universali di liberazione da ogni forma di sfruttamento visto che il capitalismo era letto come l’ultima possibile struttura dei rapporti sociali fondata sull’appropriazione del pluslavoro dei molti da parte dei pochi. La forma valore nascondeva questa appropriazione ma la direzione dello sviluppo del capitale l’avrebbe nuovamente messa in risalto spingendo per una riorganizzazione della produzione sociale capace di rendere visibile e misurabile la forma valore per poterla indirizzare verso il conseguimento di scopi collettivi posti dalla comunità dei produttori. Non ci si rese conto, dice La Grassa, che la mancata formazione del lavoratore collettivo rendeva simili ipotesi irrealistiche. La sussunzione reale del lavoro nel capitale doveva portare a concludere che gli operai sarebbero stati espropriati di tutto il loro savoir faire e dell’autonoma capacità di mettere in moto processi produttivi tecnologicamente e organizzativamente sempre più complessi in cui era sempre maggiore l’impiego della scienza e della tecnica, sia nell’organizzazione che nella produzione. Anche se il numero di operai fosse aumentato ai ritmi delle prime fasi dell’industrializzazione, queste tute blu non sarebbero state capaci di conquistare l’egemonia perché espropriati delle fondamentali potenze mentali della produzione. A questa conclusione si poteva giungere anche indagando come la borghesia aveva prevalso sull’organizzazione sociale di tipo feudale, ovvero prima conquistando l’egemonia nell’organizzazione e conduzione della produzione e poi conquistando il potere politico. Questo passaggio non venne portato a termine dai mercanti ma dagli artigiani perché quest’ultimi possedevano le potenze mentali della produzione e quindi potevano dirigere la produzione oltre ad essere i proprietari dei mezzi di produzione. La classe operaia, espropriata della parte più qualificata e rilevante dell’attività lavorativa, era condannata ad una subordinazione che dalla sfera produttiva si estendeva a quella politica e culturale, cioè dove si esercita le vera e propria capacità egemonica nella società. La Grassa così può affermare che la classe operaia sia stata la meno rivoluzionaria di tutte le classi subordinate succedutesi nella storia dell’umanità, anche meno degli schiavi. In ogni caso nessuna classe subordinata è stata capace di orientare la trasformazione di una forma societaria verso un altro modo di produzione. Per questo motivo bisogna accogliere positivamente la revisione del marxismo con avanzamento teorico di Lenin che riconobbe, nella sostanza, la non rivoluzionarietà della classe operaia ancora, in ogni caso, ritenuta la classe fondamentale del capitalismo destinata ad essere numericamente maggioritaria nel corso dello sviluppo di questo modo di produzione. Lenin non portò a conclusione teorica il suo ragionamento sviluppato nel Che fare?. Se la cavò con la distinzione tra classe in sé e per sé che consentì di ritenere la classe operaia, come classe in sé, nella posizione di antagonista decisivo della borghesia pur chiarendo che lasciata alla sua spontaneità non aveva consapevolezza dei suoi compiti rivoluzionari. Per questo era essenziale il ruolo svolto dal partito, inteso come avanguardia della classe operaia, formato da rivoluzionari di professione reclutati tra gli operai e gli intellettuali, cioè persone appartenenti per status alla classe dominante che rompevano con essa grazie alla comprensione scientifica del movimento della società nel suo insieme da cui si traeva la conclusione della necessità, intrinseca al modo di produzione capitalistico, di una sua trasformazione verso il socialismo e il comunismo. Lenin parlò anche dell’aristocrazia operaia che godeva delle briciole dello sfruttamento imperialistico nelle aree precapitalistiche ma fece della spontanea mancanza di una coscienza rivoluzionaria da parte della classe operaia un principio generale. La Grassa sostiene che la principale intuizione di Lenin risiede nell’aver compreso che la contraddizione capitale/lavoro, lasciata a se stessa, al suo libero e spontaneo manifestarsi, era capace solo di lotte redistributive ma non di rivoluzionare l’assetto dei rapporti di produzione capitalistici. A ciò si deve aggiungere la consapevolezza leniniana sulla natura politicamente più avanzata delle masse d’Oriente rispetto a quelle d’Occidente. Mancò il passo successivo: accettare che la trasformazione del capitalismo in comunismo non è una necessità dettata da una legge storica perché non è intrinseca alla dinamica della formazione sociale capitalistica. 

Bisogna ora capire per La Grassa quale sarebbe la logica dominante nel modo di produzione capitalistico. Secondo la scienza sociale, sia dominante che marxista, il capitalismo si regge sulla razionalità del minimo mezzo o massimo risultato. Per i dominanti il capitalismo è la società in cui questa legge viene espressa meglio mentre per Marx era solo una tappa nell’evoluzione storica delle formazioni sociali umane e ha spiegato come in questa società tale legge si esprimesse tramite lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e l’appropriazione di pluslavoro/plusvalore da parte dei possesori dei mezzi di produzione per mezzo dell’attività dei venditori di forza lavoro salariata. Marx sostiene che questa tensione del capitale al massimo profitto è l’applicazione, secondo le modalità storiche tipiche del capitalismo, del principio del minimo mezzo o massimo risultato e per questo motivo ritiene questo modo di produzione una tappa necessaria per accedere ad una società comunista dove vige uno sviluppo senza precedenti delle forze produttive per dare ad ognuno secondo i suoi bisogni. Questo principio avrebbe svolto una funzione centrale anche nel comunismo, infatti ad essere messa in discussione è solo la sua applicazione all’estorsione di pluslavoro/plusvalore. Una simile conclusione è figlia della centralità data alla contraddizione tra capitale e lavoro che necessariamente ci farebbe andare nella direzione del comunismo ma solo mediante il più alto impiego di questa razionalità e la formazione del lavoratore collettivo cooperativo. Per La Grassa con la caduta della prospettiva della creazione di questo soggetto rivoluzionario, sostituito dalla classe operaia priva delle potenze mentali della produzione, le organizzazioni di classe, partiti e sindacati, si sono piegate al massimo dispiegamento di questa razionalità in cambio della partecipazione agli utili, ovvero una meno diseguale distribuzione del reddito, migliori condizioni di vita, coinvolgimento nella conduzione dell’economia e della società, in ogni caso capitalistiche, e la loro difesa perché nel frattempo si è persa di vista la possibilità di realizzare una diversa forma di società sempre mediante questa razionalità. La Grassa non vuole contestare la razionalità del minimo mezzo o massimo risultato, chiunque lo faccia, infatti, è destinato al minoritarismo programmatico e cercato, cioè alla sconfitta. L’economista veneto contesta la sua centralità nel capitalismo con un’operazione simile a quella svolta con gli scambi equivalenti. Siamo davanti ad una realtà apparente, ma sempre reale, che ne nasconde una più profonda. La tensione all’impiego del minimo mezzo regge la produzione capitalistica, cioè tutti i processi di trasformazione di input in output. Queste attività si svolgono in unità produttive relativamente autonome e indipendenti nell’organizzazione della trasformazione che entrano in interrelazione e interazione competitiva nel mercato. Queste unità si chiamano imprese. A questo punto si può sostenere che la sfera economico-produttiva sia quella dominante nel capitalismo e seguire la strada dell’economicismo che sostiene come ogni azione umana tenda al massimo utile e questo sarebbe lo scopo principale delle imprese in questa sfera sociale dominante. Qualora ci si rifacesse ai limiti della razionalità strumentale, si parlerà di profitto adeguato all’imperfezione della conoscenza umana e di tutte le variabili in gioco nel fenomeno produttivo. In alternativa si può sostenere la centralità della sfera del potere o quella ideologico-culturale nella nostra società, magari affermando che la trama decisiva dei rapporti sociali risiede nel linguaggio, nella comunicazione o nell’interazione di carattere simbolico. Si arriva così a credere che le società umane si trasformano e ramificano in base all’evoluzione di un’unica sfera, pervasiva dell’insieme sociale in tutte le epoche storiche. In questo modo si perde la differenza storicamente determinata tra forme di società diverse come concepita da Marx con i concetti di formazione sociale e modo di produzione. La Grassa percorre una strada diversa. Sostiene che il capitalismo è caratterizzato da una specifica struttura dei rapporti sociali in cui la sfera economico-produttiva è molto dinamica e influenza in maniera determinante le altre. Questa singolarità storica ha permesso al capitalismo di sviluppare enormemente le forze produttive rendendolo superiore a tutte le altre forme di società. Tuttavia per La Grassa la regola del minimax-minimo o massimo risultato con un dato impiego di mezzi funziona solo dentro i confini dell’organizzazione dei fattori produttivi chiamata impresa. Questa razionalità, almeno nei grandi oligopoli, è affidata a manager salariati. Nel mercato prevarrebbe un diverso principio chiamato strategico ed è proprio di uno strato superiore di possessori reali e controllori di grandi imprese che sono indipendenti dal possesso della proprietà giuridica di queste realtà. Per un lungo periodo storico, soprattutto negli USA, c’è stata una reale tendenza nelle unità produttive di grandi dimensioni a riscontrare un possesso da parte dei manager senza proprietà giuridica di pacchetti azionari di controllo. Attualmente la proprietà azionaria è uno dei caratteri del possesso reale, ovvero della capacità di orientamento e guida delle politiche di mercato in senso ampio attuate dalle grandi imprese. Questo non vale nelle piccole imprese dove il predominio della proprietà non è mai stato messo in discussione. Per La Grassa, però, non bisogna fissare l’attenzione sulla proprietà o meno delle imprese per individuare la causa del potere reale di disposizione su di esse perché al massimo è un elemento tipico di una data fase dello sviluppo del capitalismo. Il possesso reale è la capacità e il potere di condurre politiche imprenditoriali nell’ambito della competizione che ogni impresa sostiene con le altre imprese per ottenere la supremazia sul mercato. L’efficiente coordinamento delle varie attività interne all’impresa è subordinato agli sforzi per il predominio nel suo ambiente formato dall’insieme delle imprese in competizione. I criteri che questo livello dello scontro segue sono diversi dalla razionalità del minimo mezzo. L’efficienza è al servizio dell’efficacia e se entrano in contrasto prevale la seconda. Per il capitale il problema principale non è l’ottimale combinazione dei fattori produttivi o il massimo profitto da ottenere con i metodi del plusvalore, soprattutto relativo. Si segue il principio dell’efficienza economica, cioè il principio della massima economizzazione dei mezzi, solo se questa è in accordo con l’efficacia dell’attività finalizzata a prevalere nell’ambiente mercantile. Si tratta di uno spazio i cui confini e la cui trama sono determinati dall’interrelazione interna tracciata dai conflitti tra le imprese in lotta. L’efficienza che tende ad inseguire il massimo profitto è il fondo da cui attingere per svolgere con efficacia la competizione interimprenditoriale. Questo è il fine ultimo perseguito dai capitali e rende l’efficacia una priorità rispetto all’efficienza, producendo anche sprechi di risorse. Il predominio orienta il comportamento di tutti i capitalisti e di ogni gruppo che svolge una funzione imprenditoriale. Durante il dispiegamento di questa funzione si realizza il possesso reale dei mezzi di produzione organizzati nell’ambiente dell’unità capitalistica. Questa razionalità strategica per La Grassa è dominante in tutte le forme storiche di società finora conosciute ma si manifesta sempre in forme e sfere sociali diverse. Nelle società precapitalistiche è stata predominante nella politica e per ottenere la supremazia culturale mentre nel capitalismo essa, per la prima volta, penetra nell’intera sfera della produzione. Lo sviluppo delle forze produttive e il loro rivoluzionamento tecnologico e organizzativo sono il risultato di una forma dei rapporti sociali in cui la razionalità del conflitto per la supremazia diventa decisiva nella sfera economica della società. A partire da essa questo conflitto si allarga e impregna l’intera formazione sociale capitalistica. Solo in questo senso si può parlare di dominanza dell’economia nel capitalismo. Il dominio non si ottiene perché si possiede una maggiore ricchezza o si utilizzano i migliori metodi per estrarre plusvalore. La tensione alla ricchezza e all’estrazione del plusvalore sono un risultato del dinamismo impresso alla sfera produttiva dalla lotta per il predominio dove è in funzione la razionalità strategica. In questo modo può emergere una supremazia, più o meno salda, che non è esprimibile con criteri come massima o adeguata. La Grassa arriva a concludere che questa tipologia di conflitti è ciò che costituisce la storia. Il conflitto di classe più acuto e squassante è sempre stato, in tutta la storia delle società umane, quello interdominante. Per Marx la trasformazione rivoluzionaria di una forma storica di società non è mai stata compiuta dalle classi oppresse ma la classe operaia avrebbe fatto eccezione per via della formazione del lavoratore collettivo cooperativo a seguito dei processi di centralizzazione monopolistica dei capitali di cui abbiamo già parlato. Per La Grassa, venuta meno questa ipotesi, occorre avere la forza, se si crede al marxismo in quanto scienza, di rivedere le nostre formulazioni e ipotesi a seguito degli errori commessi e della loro mancata realizzazione. Dobbiamo elaborare nuove ipotesi più realistiche e per farlo La Grassa mette da parte la contraddizione capitale/lavoro come contraddizione rivoluzionaria. I salariati, tranne nelle prime fasi di sviluppo del capitalismo quando ampie masse contadine sono sradicate dalle vecchie abitudini e condizioni sociali e inurbate per essere trasformate in operai dell’industria, non hanno alcuna radicalità trasformatrice. Possono solo dare luogo a lotte, anche acute, di tipo sindacale per modificare i rapporti di forza all’interno dello scontro per la redistribuzione della ricchezza. Si tratta di un tipo di conflitto intrinseco e congeniale allo sviluppo del capitalismo stesso che non lo mette in alcun modo in discussione. Le lotte più dinamiche, capaci di sconvolgere gli assetti del capitalismo in una data epoca o fase, e dove possono emergere decisioni politiche anticapitalistiche sono quelle interdominanti che possono avere come complemento quelle tra dominanti e dominati. Fuori da questi scontri, quando lo sviluppo del capitalismo è relativamente ben coordinato e si scontra con fenomeni di crisi non eccessivamente acuti, le lotte tra dominanti e dominati non producono alcun effetto di radicale trasformazione ma solo una deriva riformista e tradunionista, come evidenziato da Lenin nel Che fare? mentre analizzava i comportamenti dei sindacati degli operai inglesi.  

  1. Le intuizioni senza svolta teorica di Lenin

Il ripensamento del marxismo di La Grassa prosegue affrontando la figura di Lenin. Per l’economista veneto il rivoluzionario russo pone il problema della natura non antagonistica della contraddizione capitale/lavoro. Essa non è quella fondamentale e decisiva per la rivoluzione contro il dominio del capitale ma Lenin si limitò ad intuire ciò, seguendo questo pensiero nella pratica senza trarne le conseguenze per una revisione teorica dell’originario apparato teorico marxista. La critica di La Grassa non si limita alla classe operaia ma anche al rapporto tra dominanti e masse delle aree capitalisticamente sottosviluppate. Vengono scartate tutte le teorie terzomondiste sinora elaborate, da quella dello scambio ineguale fino ad arrivare ai teorici dell’economia-mondo che reputa, con la loro distinzione tra centro, semiperiferia e periferia, troppo statici nel segnare le differenze tra queste aree oltre ad immaginare un costante trasferimento di risorse o di plusprodotto dalla periferia al centro producendo ricchezza ad un polo del mondo e miseria all’altro polo. L’analisi migliora qualora vengano presi in considerazioni elementi di carattere ideologico-culturale come quello religioso, etnico e nazionale. Quest’ultimo venne ignorato dalle organizzazioni marxiste che lottavano nel Terzo Mondo nella teoria ma non nella pratica effettiva. Oggi dovremmo essere in grado di iniziare un movimento verso una costruzione teorica più coerente con queste intuizioni leniniste, dice La Grassa. Siccome, abbiamo detto, solo il conflitto interdominante, pur in presenza del necessario movimento delle masse, è in grado di aprire a mutamenti radicali è interessante, per sviluppare il ragionamento, tornare alle riflessioni leniniste sull’imperialismo che contengono un prezioso nocciolo razionale da valorizzare. Per Lenin l’imperialismo non è guidato dalla necessità di trovare sbocco alle merci ma da quella di garantire ai capitali adeguati profitti. A questa considerazione si deve aggiungere quella sulla centralizzazione monopolistica dei capitali che esige l’intervento degli Stati, in quanto macchine da guerra al servizio della borghesia, per poter spingere più a fondo l’investimento dei capitali in altri paesi grazie alla vittoria di alcune borghesie su altre borghesie competitrici a livello mondiale. Un altro problema centrale nella riflessione di Lenin è la finanziarizzazione perché l’esportazione di capitali a cui pensa è il prestito statale o privato all’estero in zone riservate al controllo di certi sistemi economici capitalisticamente avanzati aiutati dalla potenza militare dei loro Stati. In queste analisi, dice La Grassa, l’errore fondamentale di Lenin si trova nella tesi dell’imperialismo come ultimo o finale stadio dello sviluppo capitalistico quando in realtà era una fase di lungo periodo di quest’ultimo e non irreversibile. In Lenin però c’è l’intuizione fondamentale, non sviluppata fino in fondo, della legge dello sviluppo ineguale dei vari capitalismi che merita di essere discussa abbandonando la curvatura impressa ai suoi ragionamenti da parte del rivoluzionario bolscevico. Quella di Lenin non fu la gramsciana rivoluzione contro il Capitale perché semplicemente si convinse, in base all’analisi della situazione storica concreta del suo tempo, che l’espansione del capitalismo sarebbe avvenuta producendo continue diseguaglianze tra i diversi paesi capitalisti o che lo stavano per diventare con il risultato di generare sempre maggiori conflitti tra questi paesi. Il risultato sarebbe stato un sempre maggiore disordine globale, maggiori sofferenze e una crescente miseria, soprattutto nelle aree sottoposte al dominio imperialista o coloniale, che avrebbero portato ad una serie di ondate rivoluzionarie capaci di affossare il capitalismo. La rivoluzione negli anelli deboli avrebbe semplicemente rappresentato l’avvio di un processo rivoluzionario globale che si sarebbe esteso ai paesi capitalisticamente più sviluppati ma questa tesi nasce dall’intuizione dello spirito pratico di Lenin. Per La Grassa il rivoluzionario russo, come Mao, capì che le forze della trasformazione vincono non dove sono più forti ma dove l’avversario, cioè la borghesia capitalistica, è più debole. 

A questo punto, per ritornare al problema della legge dello sviluppo ineguale, conviene andare verso l’analisi della struttura generale del capitalismo che per Lenin è l’anatomia e la fisiologia del corpo costituito dalla società capitalista. Ad un altro livello di astrazione sarebbe poi necessario ricoprire ossa e nervi con sangue e carne grazie ad un’analisi più concreta delle varie situazioni particolari. A questo gradino teorico, più vicino al livello empirico dei fenomeni storici, Lenin inserisce la legge dello sviluppo diseguale dei paesi capitalisti mentre La Grassa la vuole portare ad un livello teorico più elevato, al livello della formazione economico-sociale di Lenin e del marxiano modo di produzione. Nel Capitale Marx formula un’analisi della forma capitalistica dei rapporti sociali incentrata sul rapporto tra capitale e lavoro salariato. La dinamica della riproduzione di questa forma è legata alla creazione del plusvalore in quanto funzione della forza lavoro. Se passiamo dal modo di produzione alla formazione sociale si poteva al massimo supporre l’esistenza di una commistione tra questo modo di produrre e altri, precedenti a quello capitalistico o vie intermedie come l’artigianato in via di trasformazione in manifattura. Lo sviluppo ineguale di Lenin riguarda la differenza, presente nei vari paesi capitalistici, tra estensione e forza del modo di produzione capitalistico e gli altri modi di produzione ancora intrisi di forme dei rapporti sociali precapitalistici. Quelle di Lenin sono minime correzioni a Marx che servono per prendere atto della fase monopolistica delle imprese e del predominio della finanza e dei rentier sul capitale produttivo. Per correggere queste riflessioni La Grassa riprende Schumpeter che considera lo sviluppo economico come una serie di stadi successivi contraddistinti da ondate di innovazione che coinvolgono tanto i processi tecnico-produttivo quanto il lancio di nuovi prodotti o la scoperta di nuove fonti di energia. Questa analisi soffre di uno schema lineare che vede il capitalismo come una serie di stadi in successione interrotta da periodi di crisi letti come fasi di stagnazione o recessione causata dalla fine di un’ondata innovativa mentre un’altra è ancora in embrione. C’è la percezione della lotta tra dominanti per la supremazia ma è limitata allo scontro tra innovatori e tradizionalisti. Come Marx, Schumpeter sostiene che la sfera economico-produttiva è dominante nel capitalismo ed entrambi partono dalla supposizione, solo teorica, di una situazione di equilibrio tra i diversi settori della produzione. Lo squilibrio sarebbe prodotto dalla dinamica del sistema, per motivi intrinseci allo sviluppo capitalistico. In ogni caso tra i due ci sono differenze sostanziali. Per Marx al centro del capitalismo c’è l’estrazione del plusvalore dai lavoratori in Schumpeter invece troviamo l’iniziativa degli imprenditori innovatori ma entrambi lasciano sullo sfondo il conflitto interdominante. Quello che Schumpeter però consente di fare è iniziare a parlare di geopolitica e geoeconomia allargando il discorso dell’analisi leniniana dell’imperialismo.

A questo punto si può tornare alla revisione del marxismo di La Grassa. In primo luogo va messo in primo piano, tra tutti i conflitti presenti nella società capitalistica, quello tra i vari gruppi di dominanti inteso come scontro tra contrapposte strategie. Si tratta di una dinamica incessantemente squilibrante e in alcune fasi o aree geografico-politiche può prendere forme talmente intense da mettere in moto processi di ristrutturazione rivoluzionaria dei rapporti tra dominanti e tra essi e i dominati. Le classi subalterne possono essere spinte alla rivolta da condizioni di vita sempre peggiori causate da guerre, impoverimento generale o gravi sconvolgimenti sociali. In queste situazioni intervengono gli agenti strategici che tentano di conservare o di mutare l’assetto sociale vigente. Coloro che vogliono il cambiamento si possono porre due obiettivi contrapposti. Il primo è orientare il sommovimento verso obiettivi di mutamento dei rapporti sociali rispetto alla dominante forma capitalistica della riproduzione mentre altri hanno come scopo ristrutturare e dare nuovo slancio a questa forma in determinate aree della società capitalistica mondiale in cui questa riproduzione affronta serie difficoltà a causa degli squilibri prodotti dalle rivolte. Il primo passo teorico da fare per La Grassa è analizzare il conflitto strategico che ha i maggiori effetti squilibranti, seppur nell’ambito dell’allargamento dei rapporti sociali capitalistici, cioè quello tra dominanti. Una simile operazione parte dalla sfera economica perché solo nel capitalismo questa lotta esiste anche a questo livello ma ha bisogno di una diversa concezione dell’impresa. Le imprese, prese singolarmente, sono organizzazioni in cui l’attività è retta dalla razionalità del minimo mezzo o del massimo risultato con lo scopo di produrre profitti. Questi vengono usati per innovazioni di prodotto o tecnologiche oppure per acquisire nuovi mercati. La questione decisiva è capire chi controlla l’utilizzo di queste risorse. Una simile funzione è svolta da gruppi di agenti che hanno il potere sulle imprese e le utilizzano come strumenti per portare avanti un conflitto per la supremazia capace di generare anche ricchezza tramite la vittoria nella competizione economica, la sottomissione delle imprese concorrenti o la loro fuoriuscita dal mercato. Senza questa lotta per la supremazia, utilizzando solo la razionalità del minimax, l’arricchimento sarebbe troppo lento e non verrebbe tesa allo spasimo neanche la razionalità strumentale. Il massimo profitto per La Grassa è fine per l’impresa in sé e per sé perché serve a migliorare l’impiego delle risorse ma è anche e soprattutto un puro mezzo in relazione alla lotta per la supremazia. I gruppi dominanti non sono i possessori delle potenze mentali della produzione, cioè i manager, ma coloro che sanno esercitare delle funzioni strategiche di lotta per prevalere in un determinato spazio sociale. Queste lotte implicano l’utilizzo di mezzi da acquisire in forma di merce, quindi di denaro. In quest’ottica viene letta anche la finanza che per La Grassa non è mai totalmente parassitaria. Assume questa forma solo in alcune fasi e danneggia anche il dispiegamento del conflitto per la supremazia, fondamentale per lo sviluppo delle forze produttive. Questa funzione è assunta proprio quando acquisisce la sua preminenza nella sfera economica e si autonomizza dalla produzione favorendo la produzione di denaro per mezzo di denaro. Possiamo quindi concludere, limitandosi alla sola economia, che il conflitto strategico interimprenditoriale è il fattore di maggiore dinamismo nel capitalismo ma causa anche lo sviluppo ineguale tra i vari settori dell’economia e le branche produttive. Un simile scenario non va letto con le lenti di Schumpeter perché non è una semplice lotta tra conservatori e innovatori con la vittoria finale dei secondi che segna il passaggio ad una diversa fase del capitalismo. La situazione è più complessa e vede la formazione, grazie alla concorrenza interimprenditoriale, di alleanze molteplici e mutevoli anche tra innovatori e conservatori non nettamente definite e stabili dentro una specifica congiuntura temporale o area socio-economico del sistema capitalistico globale. Questo schema si inserisce in una visione alternativa dello sviluppo capitalistico dove non esiste alcun limite ultimo e insuperabile ma tantomeno porta il capitalismo ad una situazione di equilibrio e omogeneità nella struttura dei rapporti socio-produttivi che sono attraversati da periodici sconvolgimenti di cui l’elemento propulsore principale è il conflitto strategico tra dominanti. Ne consegue che la direzione di sviluppo del capitalismo può essere compresa solo a partire dalla strutturazione dell’insieme dei dominanti e le modalità del loro reciproco affrontarsi. La razionalità di questo scontro non è orientata al minimax ma si avvale delle funzioni manageriali per altri obiettivi. In poche parole l’impresa come unità produttiva è subordinata all’impresa come mezzo del conflitto strategico per la supremazia. Essa va intesa come una politica funzionale al conseguimento del predominio e non del massimo sviluppo delle forze produttive che è un obiettivo subordinato a quello fondamentale essendo un mezzo per procurarsi l’alimento finanziario necessario alle lotte. Ogni forma di cooperazione porta al suo contrario, cioè allo scontro, generando la tendenza principale e permanente allo squilibrio e l’alterazione dei rapporti di forza tra gruppi contrapposti già al livello della sfera economica che periodicamente può trovare una momentanea stabilità intorno ad un centro di predominanza. Da ciò ne consegue che il capitalismo non è semplicemente un modo di produzione, di sviluppo delle forze produttive o di estrazione del plusvalore dai dominati ma è soprattutto una particolare modalità storica del conflitto tra dominanti per il predominio nella società che trova nella sfera economica la principale fonte di sostentamento. Tuttavia, per essere veramente efficace, il conflitto strategico ha bisogno anche di adeguate condizioni politiche. Certamente è importante innovare o abbassare i costi di produzione ma non basta se contemporaneamente non viene riconfigurata l’articolazione dei rapporti nello spazio sociale in cui si svolge lo scontro tra dominanti e in questo modo imprimere una trasformazione decisiva alla propria supremazia. Per fare ciò si utilizzano gli apparati ideologici di Stato di Althusser, cosa che dimostra la centralità degli Stati nel capitalismo e l’impossibilità di un accordo definitivo per creare organismi super partes per coordinare pacificamente gli affari di un capitale mondiale privo di attriti. Il capitalismo non riuscirebbe a sopravvivere senza conflitto tra capitalisti perché essi non sono semplici proprietari ma agenti strategici del conflitto. Quindi la politica è essenziale per la spartizione delle sfere di influenza del mondo che segue fasi policentriche, come l’epoca dell’imperialismo descritta da Lenin, o monocentriche dove momentaneamente prevale una singola potenza. In tutto ciò il comunismo viene ridotto a una possibilità tra le tante priva di qualsiasi necessità storica perché nessuno può garantire che il capitalismo sia l’ultima forma sociale divisa in classi dominanti e subordinate.

3. Una breve conclusione critica

Il libro di Piotr Zygulski Il meccanico del marxismo riporta alcune voci critiche rispetto a queste conclusioni di La Grassa. Ad esempio Tosel nel 2008, all’interno del Dizionario del Marxismo Contemporaneo, sostiene che l’insufficienza esplicativa della teoria del valore abbia portato l’economista veneto a sviluppare un’analisi del capitalismo in cui la centralità della proprietà sarebbe stata rimpiazzata dal conflitto strategico tra agenti sociali dominanti nel campo dell’economia, della politica, dell’ideologia e della cultura. Emiliano Brancaccio e Rosario Pantalano, invece, reputano interessante l’applicazione di queste teorie nel campo della politica internazionale perché costringono il lettore a scegliere tra schierarsi con il monocentrismo americano in declino oppure sostenere il possibile futuro mondo policentrico ma rimproverano a La Grassa l’abbandono di ogni legge di tendenza del capitalismo, in particolare quella della centralizzazione dei capitali. A nostro avviso questa scelta deriva dalla costante sottovalutazione dell’economia nell’analisi del capitalismo sostituita sempre di più con la geopolitica, ovvero lo scontro tra Stati per l’egemonia. In questo modo le sue tesi sono scientificamente indebolite e tendenzialmente producono errori di valutazione come una costante sopravvalutazione della reale forza di un paese economicamente più simile al Terzo Mondo che ai paesi capitalisticamente sviluppati come la Russia di Putin. Per tornare a Brancaccio e Pantalano, nella loro critica a La Grassa sostengono che il processo di centralizzazione è il detonatore del conflitto inter-capitalistico e della possibile successiva crisi. Inoltre al suo interno sarebbero già contenute sia la razionalità strumentale che quella strategica. Per esempio la forma di difesa nazionale può essere letta come una reazione strategica di contrasto alla spina monocentrica alla centralizzazione dei capitali. Un ultimo timore che viene espresso è l’arrivo ad una classificazione più ambigua con l’abbandono della soggettività di classe di tipo marxista. Questo punto ci consente di agganciare le critiche mosse da Augusto Illuminati. Il rifiuto di La Grassa dell’ipotesi marxiana del legame tra centralizzazione dei capitali e formazione dell’operaio combinato collettivo, capace di unire potenze mentali e tecniche e così soppiantare una piccola aristocrazia finanziaria parassita ha come logica conseguenza la negazione della natura transmodale della classe operaia. Tuttavia, dice Illuminati, se valutiamo la categoria di proletariato come categoria politica per essenza e definita dal fatto di occupare una posizione, essa è strutturalmente indefinita o non identificabile con una figura sociale particolare. Si tratta di qualcosa che di volta in volta porta avanti le istanze di chi è escluso dai giochi. Ciò che emerge è la necessità di ridefinire la teoria della transizione tra i modi di produzione. Il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente e, dice Illuminati, esso non ha un soggetto che pratichi ciò esaurendolo. In ballo ci sono una pluralità di parti escluse dal gioco delle classi dominanti ma prive di una missione storica e una composizione sociale definita una volta per tutte perché essa dipende dalle metamorfosi dei rapporti di produzione e dal successo o meno dei tentativi di andare verso un altro modo di produzione. Il proletariato, quindi, è solo il prodotto di una congiunzione tra composizione di classe e azione politica come saranno tutti i suoi successori. La Grassa, insomma, ci sfida, anche se non accettiamo le sue conclusioni pessimistiche, a concepire da capo la transizione.

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