Hobbes e la Teologia Politica

Articolo apparso su LON – L’Ordinovista il 21/04/2020

1. Introduzione

Nelle Lezioni sulla Storia della Filosofia, John Rawls, per introdurre la sua interpretazione di Hobbes, dice:

«Lascerò da parte alcune cose, e spiegherò perché. La prima cosa che ignorerò sono gli assunti teologici di Hobbes. Hobbes spesso si esprime come un credente cristiano, e non metto in dubbio né nego che in un certo senso lo fosse, sebbene quando si legge il suo lavoro si capisce perché ci sia stato chi lo ha negato. O ad ogni modo ci si è chiesti come potesse affermare ciò che affermava e allo stesso tempo essere credente, in un qualche senso ortodosso dell’espressione. Perciò intendo lasciare da parte questi assunti teologici ortodossi e assumerò che nel libro ci sia un sistema politico e morale secolare. Questo sistema politico e morale secolare è completamente intelligibile per quel che concerne la sua struttura teorica e il contenuto dei suoi principi anche quando tali assunti teologici vengono messi da parte. In altre parole, non abbiamo bisogno di tenere conto di questi assunti teologici per capire come sia fatto il sistema secolare. Anzi, è proprio perché, o almeno in parte perché possiamo lasciare da parte questi assunti che la sua dottrina rappresentò un affronto all’ortodossia del tempo. Nel pensiero ortodosso, la religione dovrebbe giocare un ruolo essenziale nella comprensione del sistema di idee politico e morale. Se non è così, allora questo già di per sé è un problema. La religione, il pensiero ortodosso, non giocava alcun ruolo essenziale nella visione di Hobbes. Perciò credo che tutte le nozioni usate da Hobbes, come ad esempio la nozione di diritto naturale, di legge naturale, di stato di natura, e così via, possono essere definite e spiegate indipendentemente da qualsiasi retroterra teologico. E lo stesso vale anche per il contenuto del sistema morale, laddove per contenuto intendo ciò che dicono effettivamente i suoi principi. Ciò significa che il contenuto delle leggi di natura, che la retta ragione ci invita a seguire, e anche il contenuto delle virtù morali, come le virtù della giustizia, dell’onore, e simili, possono essere tutti spiegati senza fare ricorso ad assunti teologici e possono tutti essere compresi all’interno del sistema secolare.»

Io credo che queste affermazioni siano sostanzialmente delle sciocchezze. Di più, credo siano delle sciocchezze che sottolineano l’appartenenza di Rawls a un tipo specifico di pensiero politico: sto parlando del liberalismo, ovviamente. Solo un liberale infatti può credere di fare i conti con il capostipite del pensiero politico moderno, la cui ossessione sono le guerre civili di religione, senza considerare la religione e la teologia come fattore essenziale del suo sistema. Hobbes non si poteva immaginare una politica puramente laica, che non menzionasse la religione, perché così non avrebbe risposto ai problemi dell’epoca, e infatti non è stato così sciocco. Non considerare questo, oltre a impedirci di comprenderlo per bene, è fargli un gran torto. Scopo di questo scritto sarà dunque motivare questi miei caustici giudizi e ribaltare completamente le affermazioni di Rawls: non si può capire il sistema hobbesiano senza tener conto dei suoi assunti teologici e senza riconoscere il ruolo fondamentale che in questo gioca la sua interpretazione della religione cristiana. Per farlo però, mi è necessario prima di tutto introdurre il concetto di teologia politica.

2. Cos’è la teologia politica?

Per spiegare cosa si intende quando si parla di teologia politica, un lemma le cui due parole che lo compongono si caricano di un’enormità di significati, è forse meglio dire prima cosa esso esclude. Innanzitutto, questa esclude che sia avvenuta la grande separazione di cui la modernità si fa portatrice, ossia la sconnessione fra religione e politica. Chi utilizza il dispositivo della teologia politica (un dispositivo genealogico e post-dialettico, analogo in questo alla biopolitica) lo fa in genere per criticare il compiuto agnosticismo della politica o, detto in altri termini, la compiuta autosufficienza della ragione in filosofia politica: in ogni caso, si tratta di una operazione critica che vuole smascherare la pretesa della filosofia politica moderna di avere una fondazione o una giustificazione pienamente razionale di un ordine, mostrando che alla sua origine vi è un fondamento che il discorso razionale non riesce a digerire, ma allo stesso tempo ne è condizione di possibilità che lo sviluppo del discorso reca sempre con sé. Corollario di questa prospettiva sono sia l’impossibilità della perfetta immanenza sia l’impossibilità di pensare e fare politica senza il ricorso ad un qualche tipo di sdoppiamento, perciò la teologia politica è fare i conti con la trascendenza.
Vedendo ciò che la teologia politica nega, ci rimane fra le mani una definizione minima di ciò che essa afferma: la politica ha un rapporto pregnante con la religione e, di rimando, con la teologia e con il sacro. Questo rapporto pregnante può essere declinato essenzialmente in cinque modi:

  1. la religione (intesa come paura e spiegazione non scientifica dei fenomeni) viene strumentalizzata da parte dei politici per ottenere obbedienza; questo tipo di rapporto è presente, ad esempio, in Machiavelli;
  2. la politica si fonda sulla religione, che la precede e da cui ne viene dedotta; questa è la politica dei fondamentalisti, islamici e non, come i controrivoluzionari cattolici (de Maistre, de Lamennais, de Bonald, Donoso Cortés);
  3. la politica si sacralizza, per cui le élite politiche convogliano su di sé e sulla propria prassi le stesse emozioni, della stessa intensità e della stessa qualità, che in genere vengono catalizzate dalla religione; questa è la politica di quelli che vengono chiamati “totalitarismi”, interpretata in questa maniera da Löwith e Voegelin;
  4. la storia politica si fa religione civile, con un culto pubblico incentrato sul concetto si ricordo (monumenti, atti compiuti nella fondazione della comunità politica) per garantire una sana e duratura coesistenza della comunità politica; un esempio di questo discorso è presente in Rousseau;
  5. Il discorso sulla secolarizzazione, che fa emergere il rapporto esistente fra modalità dell’argomentazione teologica o dell’esperienza religiosa e modalità attraverso cui si fa filosofia politica o si esperisce l’unità politica; un esempio magistrale di questa fondamentale intuizione è Carl Schmitt.

Quest’ultimo punto è quello in cui la prospettiva genealogica della teologia politica ha più brillato ed è quello di cui mi occuperò maggiormente nella trattazione di Hobbes. Già qui però mi è possibile giustificare una mia affermazione precedente. Avevo detto infatti che solo un liberale poteva credere di fare i conti con Hobbes rimuovendo dalla trattazione il suo aspetto teologico. Ma questa affermazione, dato ciò che ho detto, si può generalizzare di modo che suoni così: solo un liberale può pensare di fare i conti con i classici del pensiero politico moderno, senza affrontare la sfida della teologia politica. Questo perché il pensiero politico liberale, di stampo razionalistico, si fa portatore non critico delle istanze della modernità, ne accetta l’autorappresentazione. Pretende di nascere contro la religione, non di derivare da essa; pensa di essere superiore al pensiero teologico, in quanto quest’ultimo si fonda sul principio di autorità, mentre il primo dice di sé di essere autosufficiente. La teologia politica, in base a ciò che ho detto, è invece proprio lo strumento che serve a smascherare questa autorappresentazione e a restituirci un tema fondamentale che percorre tutti i grandi classici del pensiero politico. Vediamo adesso l’esempio hobbesiano.

3. Hobbes e la politica divina

Del rapporto fra religione e politica Hobbes parla già nel primo libro del Leviatano, al capitolo XII. Qui la religione viene interpretata come frutto dell’ansia che deriva dall’ignoranza delle cause e della paura delle cose invisibili. Il bersaglio specifico è però la religione pagana, chiamata assurda perché vede del sacro in ogni cosa, e il suo rapporto con la politica, utile a mantenere il popolo obbediente e pacifico. Più avanti egli sembra compiere una mossa ingiustificata quando contrappone la religione pagana alla religione ebraico-cristiana, chiamando quest’ultima «religione vera», impiantata da Dio attraverso la rivelazione sovrannaturale. Questa scelta arbitraria risulta tuttavia più chiara nel momento in cui si va a leggere il libro III del Leviatano, sede della teologia politica hobbesiana.
Nel III libro (Uno Stato Cristiano) Hobbes fa sostanzialmente una grande opera di filologia critica del testo biblico, in cui si intrecciano due operazioni: la rilettura del rapporto fra Cielo e Terra e quella della storia sacra biblica. Per quanto riguarda la prima questione, attraverso la reinterpretazione di alcuni concetti biblici egli fa collassare la prima dimensione sulla seconda: tutto ciò che dopo Cristo avviene fra gli uomini è mondano, l’esperienza umana conosce solo la dimensione terrena. Ad esempio, al concetto di spirito sono attribuiti vari significati, nessuno dei quali però allude al rimando a una dimensione ultraterrena; il regno di Dio a cui si fa riferimento quando Cristo afferma «il mio regno non è di questo mondo» non, è secondo Hobbes, un regno spirituale altro rispetto a quello terreno, ma è un regno spostato in un futuro indefinito (in cui ci sarà la seconda venuta di Cristo) rispetto a quello presente; l’inferno corrisponde invece all’impossibilità della resurrezione con la seconda venuta di Cristo. A ciò si affianca la rilettura della storia sacra biblica, in cui Hobbes individua due fratture fondamentali: la richiesta da parte del popolo ebraico di un regno non sacerdotale e la venuta di Cristo. A partire dalla creazione infatti, Dio non ha semplicemente esercitato il proprio Regno naturale su tutto il creato, ma ha anche avuto dei sudditi peculiari: gli ebrei, il popolo eletto. Partendo da Abramo, con cui Dio stipula il patto, e passando per Mosè fino a Saul, il popolo di Israele era governato dai sacerdoti e dai profeti, fino a quando «sorse un’altra generazione, che non conosceva il Signore né le opere che aveva compiuto per Israele, ma faceva ciò che è male agli occhi del Signore e serviva Baal» (Giudici 2,10-11). Alla richiesta di questi di un Re che li comandasse come accadeva per ogni altra nazione, Dio acconsentì a ritrarsi. La seconda frattura fondamentale avviene con Gesù, il cui compito è quello di rinnovare il patto con Dio dopo il tradimento degli Israeliti e offrirsi in sacrificio per lavare via i peccati di coloro che gli si sarebbero sottomessi per fede. Egli quindi recita due ruoli durante il suo soggiorno sulla Terra: proclamare se stesso come il Cristo e persuadere e preparare gli uomini (con l’insegnamento e i miracoli) a vivere in modo tale da essere degni dell’immortalità nel momento in cui egli fosse tornato.

Cosa c’entra tutto ciò con la filosofia politica di Hobbes? Ebbene, questo tipo di interpretazione del testo biblico apre la strada per una potente teologia politica dell’assenza, una teoria della secolarizzazione che non si limita a un banale render privato il problema religioso, ma anzi mostra come una politica laica, che rende un fatto privato la credenza religiosa, dipenda allo stesso tempo dall’uso pubblico della religione cristiana. Prima di tutto, attraverso il collasso della dimensione celeste su quella terrena, Hobbes rende impossibile l’idea di derivare un ordine politico da un insieme di princìpi ultraterreni: l’unico modo per obbedire a Dio è quello di rispettarne la volontà, che è resa manifesta nelle leggi naturali, la cui prima è “vivere in pace”. Dio diventa così una coazione trascendentale all’ordine, ciò che rende l’ordine possibile, senza il quale il contratto non partirebbe nemmeno: la sicurezza che è possibile costruire un ordine ci è data proprio dal fatto che è Dio a comandarcelo. Ma perché questo Dio deve essere proprio il Dio ebraico-cristiano? Perché è il cristianesimo l’unica religione che toglie il sacro dal mondo. È questo ciò che Hobbes evince dalla sua interpretazione della storia sacra biblica: a differenza del paganesimo, che vede il sacro in ogni ente terreno, nell’Antico e nel Nuovo Testamento abbiamo le due cesure fondamentali a cui ho accennato prima. Con la prima, Dio concede di ritrarsi (notare sempre che è Dio a volere la sua assenza), facendo perdere il potere politico a sacerdoti e profeti; con la seconda, Gesù, proclamandosi Messia e sacrificandosi promettendo una seconda venuta, è stato l’ultimo dei profeti: dopo di lui non sono più possibili né profezie né miracoli. In questo modo, attraverso questa interpretazione, è possibile evitare le guerre civili di religione e rispondere ai problemi dell’epoca, perché è proprio sul tentativo di far prevalere la propria concezione del sacro su quella dell’altro che le guerre civili di religione scoppiano, ed è proprio in uno spazio svuotato di sacro che il Leviatano, il vero Stato cristiano, si fonda.
È per vivere in pace (e quindi obbedire al comando di Dio) che si costruisce il Leviatano: questo è al tempo stesso prodotto della ragione umana e luogotenente di Dio, la macchina all’interno della quale è possibile vivere seguendo le leggi divine attendendo la seconda venuta di Cristo.

Bibliografia

Rawls J., Lezioni di Storia della Filosofia Politica, Feltrinelli, 2011, Milano

Hobbes T., Leviatano, Bompiani, 2001, Milano

Hobbes T., Leviatano, BUR, 2015, Milano

Galli C. – Che Cosa Significa Teologia Politica?

Galli C. – Laboratorio di Analisi Politica sulla Teologia Politica

Schmitt C., Sul Leviatano, Il Mulino, 2001, Bologna

Scattola M., Teologia Politica, Il Mulino, 2007, Bologna

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