Introduzione
Se pensiamo ai maggiori contributori della teoria economica marxista, difficilmente ci viene in mente Bruno Jossa. In generale, il nome dell’economista di Portici non è molto conosciuto nel dibattito pubblico, se non consideriamo i suoi studenti e una stretta cerchia di specialisti. Io purtroppo non sono stato uno dei suoi studenti, ma ho avuto il piacere di incontrare la sua opera nel lontano 2018, mentre ero in cerca di teorie economiche socialiste alternative alla pianificazione centralizzata. Da allora ho avuto modo di leggere diversi suoi libri e, con mia somma gioia, sono riuscito a scrivere la mia tesi di laurea magistrale sulla sua teoria del socialismo.
Ecco, Jossa si è occupato di molti argomenti all’interno della sua produzione scientifica (p. es. macroeconomia1Jossa B., Musella M., Macroeconomia. Modelli elementari, Giappichelli, Torino, 2017 o economia dello sviluppo2 Jossa B., Economia del sottosviluppo, Il Mulino, Bologna, 1973), ma il suo contributo più importante riguarda certamente la teoria economica del socialismo di mercato. Jossa ha avuto il merito di scavare nella storia del pensiero economico per far emergere una tradizione “nascosta” del pensiero economico socialista3 Jossa B., Socialismo e Mercato. Contributi alla Teoria Economica del Socialismo, ETAS, Sonzogno, 1978, e di ricavarci un modello economico. Il soggetto di questo articolo sarà proprio una valutazione del modello economico proposto da Jossa, sia nei suoi vantaggi che nelle sue criticità.
Prima di entrare nel merito, due considerazioni. La prima riguarda il titolo. Ho chiamato Jossa “marxista neoclassico”, perché nonostante i suoi intenti e diversi concetti che usa siano interni alla tradizione marxista, egli non accetta la teoria marxiana del valore e offre un’analisi normativa più che esplicativo-ricostruttiva. Con questo voglio dire che, invece di costruire un modello che si basi su dei pattern empirici di cui dare ragione, egli (come ogni neoclassico che si rispetti) parte da un modello astratto, lo confronta con le “imperfezioni” della realtà e propone di adattare la realtà ad esso 4 Per questa distinzione metodologica il mio riferimento è Shaikh A., Capitalism. Competition, Conflict, Crises, Oxford University Press, 2016.
Queste due caratteristiche della teoria di Jossa mi permettono di aprire la seconda considerazione. Io credo che siano entrambe dei vulnus, e gran parte delle ricerche economiche a cui mi sto dedicando sono un tentativo di “superare Jossa conservandolo”5Un altro elemento che avrei preferito fosse più presente è un maggiore utilizzo di formule e grafici a sostegno della teoria. Il libro più soddisfacente in questo senso è Jossa B. & Cuomo G., The Economic Theory of Socialism and the Labour-managed Firm, Elgar, Brookefield (US), 1997, nello specifico il Capitolo 8. Nonostante ciò, il gruppo di lavoratori più attivo politicamente in Italia che ha preso la strada dell’autogestione si è ritrovato a praticare alcune idee che Jossa propone. Anche solo questo singolo fatto dovrebbe far luce sull’importanza della sua teoria per la lotta politica dei giorni nostri.
Il Modello di Jossa
Il modello proposto da Jossa è un sistema di imprese cooperative che ha le seguenti caratteristiche fondamentali:
- È un sistema di mercato, dove produttori e consumatori fanno liberamente le loro scelte in base ai calcoli della preferenza individuale e i prezzi sono determinati dal gioco della domanda e dell’offerta. Questo significa anche che ogni lavoratore sceglie liberamente la propria attività professionale e può sempre cambiare l’occupazione prescelta, e che le imprese possono, in linea di massima, licenziare i lavoratori;
- Il lavoro salariato è abolito e tutto il surplus viene ripartito fra i lavoratori dell’impresa. Il reddito dell’impresa di cui si appropriano i lavoratori è uguale alle entrate (ottenute dalla vendita dei prodotti) meno le imposte ed i costi (materie prime, semilavorati, interessi, costi di gestione). Ovviamente, essendo un sistema di mercato, il reddito dell’impresa muta in base all’andamento degli affari;
- I redditi da lavoro sono separati dai redditi di capitale, per cui in teoria si deduce che questo tipo di impresa può finanziarsi solo con capitale di prestito e al capitale verrà pagato un reddito fisso, indipendentemente dai risultati dell’attività economica.6 Per Jossa questa separazione è fondamentale, siccome “un grande vantaggio della separazione tra redditi di lavoro e redditi di capitale è che, togliendo ai lavoratori delle imprese più efficienti il guadagno dei redditi di capitale, le disuguaglianze distributive, che nel capitalismo sono dovute ai redditi di capitale, saranno per questo ridotte” Jossa B., Un Socialismo Possibile, p. 74, Il Mulino, Bologna, 2015 Per rendere possibile l’autofinanziamento, l’impresa deve assegnare ai soci obbligazioni per un ammontare pari agli utili a cui ogni socio avrebbe avuto diritto se l’autofinanziamento non fosse stato deciso, e deve attribuire ai creditori non soci il diritto di percepire gli interessi sulle somme prestate con precedenza rispetto ai possessori delle obbligazioni assegnate ai soci che hanno deciso l’autofinanziamento7 Ibidem;
- Il reddito dell’impresa viene ridistribuito fra i lavoratori pro quota. Per evitare tensioni, l’assegnazione delle percentuali va fatta prima che la produzione cominci e deve essere regolata per legge o per accordi collettivi. Da ciò si evince che i lavoratori tenderanno a rendere massimo il reddito che ognuno di loro guadagna, quindi il fine dell’impresa cooperativa sarà quello di rendere massimo il reddito medio per lavoratore. Questo consente di formulare la seguente regola economica, operante all’interno di questo tipo di unità produttive: “una cooperativa di produzione ha interesse ad assumere lavoratori fin quando la produttività marginale del lavoro è maggiore del reddito medio dei lavoratori già occupati”, perché ciò tenderà a far crescere il reddito medio dei lavoratori.8 Jossa riprende questa legge economica sul funzionamento delle cooperative da Benjamin Ward, in Ward B., The Firm in Illyria: Market Syndacalism, in American Economic Review, vol. 48, n. 4, settembre 1958, un saggio pionieristico e molto influente per gli studi sulle imprese cooperative. Limitarsi a questa legge è però riduttivo. Secondo Jossa infatti, per fare un’analisi più realistica, bisogna tenere conto anche di altri princìpi operativi: la riduzione dello sforzo produttivo, la piacevolezza del lavoro svolto e le questioni politiche interne a ogni impresa democratica. Inoltre, se viene accettata l’ipotesi della licenziabilità dei lavoratori, bisogna tenere conto che l’obiettivo della massimizzazione della sicurezza del posto di lavoro può non essere compatibile con quello del massimo reddito pro capite, perché il primo a confronto è meglio garantito dal massimo sviluppo dell’impresa (massimizzazione del fatturato nel breve e nel lungo periodo). Considerato tutto ciò, Jossa formula un nuovo principio generale di comportamento del suo modello di impresa cooperativa: la massimizzazione del benessere dei soci di maggioranza (quelli che prendono le decisioni nell’impresa), che comprende sia i guadagni monetari, sia il consumo collettivo, sia altri benefici non pecuniari. Egli assicura inoltre che ciò non si tradurrà in una tocquevilliana tirannia della maggioranza, perché quella che è la minoranza in un determinato momento può poi divenire in un secondo momento parte della maggioranza;
- L’autogestione delle imprese si esplica attraverso il principio democratico “una testa, un voto”. Ma poiché è comunque richiesta una certa organizzazione gerarchica all’interno delle imprese per risolvere il problema del coordinamento, è necessario un sistema democratico di elezioni in base al quale i lavoratori scelgano e all’occorrenza sostituiscano i propri manager (che possono anche essere scelti all’interno dell’impresa stessa, ma che devono essere liberamente revocabili), che avranno affidati dai soci lavoratori certi compiti stabiliti in via generale per legge o dallo statuto dell’impresa approvato dall’assemblea, anche se nelle questioni più importanti devono essere sentiti i soci lavoratori (per esempio le assunzioni, i licenziamenti o gli investimenti principali). Inoltre, dato che le imprese gestite dai lavoratori avranno bisogno di dirigenti capaci, probabilmente vi sarà un mercato di manager;
- Le cooperative possono essere sia piccole che grandi, ma è più importante che siano medio-grandi;
- La proprietà degli strumenti di produzione dei beni capitali e della terra è pubblica, per cui i lavoratori non sono i proprietari delle imprese, ma i loro gestori. Jossa ci tiene a dire che la proprietà pubblica dei mezzi di produzione in questo contesto è un risultato non di scelte politiche o ideologiche, ma dovuto alla natura stessa di quest’impresa cooperativa. Separare i redditi da lavoro dai redditi di capitale comporta infatti che la proprietà dei mezzi di produzione non possa essere attribuita ai lavoratori, perché questi potrebbero decidere di lasciare l’impresa o venire licenziati perdendo ogni diritto sulla stessa, o potrebbero voler vendere la loro quota di beni capitali dell’impresa, con gravi conseguenze per il funzionamento di essa. La proprietà non può inoltre essere attribuita a un soggetto privato esterno ai lavoratori, dato che così avremmo un ritorno al modo di produzione capitalistico. Questo implica che: a) l’impresa cooperativa può assumere personalità giuridica così da vedersi attribuiti in proprietà gli strumenti della produzione; b) ai lavoratori è consentito abbandonare tutti assieme l’impresa solo se essi rimangono titolari in solido dei debiti da questa contratti, per evitare lo scarico dei debito sullo Stato nel caso in cui gli affari vadano male; c) gli impianti comprati per decisione dei soci-lavoratori diventano dello Stato non appena installati, con l’ovvio corollario che nessun socio che vuole andare via può pretendere che l’impresa smantelli parte dei suoi impianti per pagargli una quota di proprietà dell’impresa; d) l’impresa ha, come attivo, il valore dei beni capitali di cui dispone (somma del valore attuale di tutti gli investimenti fatti in passato) e, come passivo, l’ammontare dei debiti sottoscritti ma non ancora estinti.9 Credo che questa idea, ossia la proprietà pubblica degli impianti con gestione dell’impresa da parte dei lavoratori, sia molto in linea con le richieste avanzate dai lavoratori dell’ex-GKN: “il tipo di intervento pubblico a cui ci richiamiamo non esiste e non può darsi senza controllo sociale diffuso, crescente, dal basso. La classe dirigente del nostro intervento pubblico si forma nelle mobilitazioni sociali, sindacali, politiche, nelle pratiche di autogestione, mutualistiche, di comunità.”, cit. in https://insorgiamo.org/intervento-pubblico/
Secondo Jossa, un sistema di cooperative che rispetta queste caratteristiche opera un vero e proprio capovolgimento del rapporto capitale-lavoro. Infatti, abolendo il salario (e quindi la mercificazione della forza-lavoro), qui il potere decisionale sull’impresa risiede nei lavoratori (anche attraverso i manager), e sono loro ad appropriarsi del surplus. Al capitale, espropriato del potere decisionale e della proprietà dei mezzi di produzione, rimane solo un reddito fisso (l’interesse).
Il Principale Vantaggio del Modello
Nei suoi libri, Jossa si concentra sui diversi vantaggi che il suo modello offrirebbe rispetto al modo di produzione capitalistico (maggiore democraticità, maggiore produttività del lavoro, migliore distribuzione del reddito, ridimensionamento dei monopoli e della speculazione finanziaria, ecc.)10Una esposizione succinta di questi vantaggi si trova nel Capitolo 3 di Jossa B., Cooperativismo Capitalismo e Socialismo, NovaLogos, Aprilia, 2012. Dal punto di vista economico però, il vantaggio più interessante che questo modello sembra offrire riguarda la sua tendenza a far scomparire la disoccupazione. Per dimostrare questo punto, Jossa prende in considerazione tre paradigmi economici che spiegano la disoccupazione: neoclassico, keynesiano e kaleckiano. La teoria neoclassica ha a sua volta tre teorie della disoccupazione: la teoria dei salari di efficienza, la teoria degli insiders-outsiders e la teoria dell’isteresi. Vediamo il tutto in dettaglio.
La disoccupazione neoclassica
In generale, la teoria neoclassica della disoccupazione si basa su un’imperfezione di mercato, ossia sull’alto costo della forza-lavoro. Come abbiamo visto però, nel modello di Jossa il costo della forza-lavoro semplicemente non esiste: il salario è abolito in favore di una quota percentuale di ciò che resta dopo la sottrazione dei costi ai ricavi. Vediamo come questa caratteristica si riflette nelle tre teorie specifiche della disoccupazione neoclassica:
- Secondo la teoria dei salari di efficienza, il salario di equilibrio si fissa a un livello più alto di quello per cui domanda e offerta del lavoro sono eguali a causa di tre effetti: l’effetto incentivo (retribuendo bene un lavoratore, questo si sentirà gratificato ricambiando con un maggior impegno lavorativo); l’effetto rotazione (pagando meglio i lavoratori, sono incentivati a non andare via, così l’impresa non deve assumerne altri e farsi carico dei costi di addestramento); l’effetto selezione (vi è il desiderio da parte dell’impresa di attirare e trattenere i lavoratori migliori). Ora, sebbene la spinta a retribuire bene i propri lavoratori per dimostrare che il loro lavoro è apprezzato, il desiderio di non cambiare spesso gli addetti per non doverne sopportare i costi e il tentativo di attrarre e mantenere i lavoratori migliori siano questioni centrali per ogni tipo di impresa, che sia capitalista o democratica, l’impresa del tipo di Jossa non può raggiungere questi obiettivi aumentando il compenso pattuito per i lavoratori, perché i lavoratori non sono retribuiti con un salario, ma con una quota predeterminata democraticamente del reddito guadagnato dall’impresa. Questo tipo di disoccupazione non è quindi semplicemente possibile.
- Per la teoria degli insiders-outsiders, la classe lavoratrice è divisa in due tronconi, gli “interni” (appunto insiders), ossia i lavoratori già occupati, e gli “esterni” (outsiders), che potrebbero essere definiti come quei lavoratori non ancora assunti a pieno titolo. Per la loro posizione, gli insiders hanno una certa influenza sul livello dei salari, mentre gli outsiders non diventano subito insiders quando vengono assunti, siccome la regola generale dei licenziamenti, che fa sentire al sicuro gli insiders, è che gli ultimi ad essere assunti perdono per primi il lavoro. L’idea principale di questa teoria, che serve a spiegare perché nel capitalismo non vi è concorrenza a ribasso dei salari quando vi è disoccupazione, è la considerazione relativa alla cooperazione fra i lavoratori nelle attività produttive, che è maggiore o minore a seconda della loro coesione: gli insiders giudicherebbero scorretta la sostituzione di alcuni lavoratori con altri a salari più bassi, rifiutandosi di collaborare coi nuovi arrivati, mentre gli outsiders non hanno interesse ad offrire i loro servizi a salari più bassi, perché sanno che sarebbero male accolti dagli insiders, ed entrambe le cose potrebbero ridurre di molto la produttività. Anche questa teoria è invalida nel sistema cooperativista di Jossa. Nonostante l’autodifesa degli interessi dei due tronconi accomuni sia l’impresa democratica che quella capitalistica, lo strumento con cui questa si concreta dal lato degli insiders non può che essere diverso, sempre a causa dell’abolizione del salario. Gli insiders infatti hanno un reddito che è determinato dalle forze del mercato, che le imprese tendono a massimizzare, e non hanno il potere di far salire i salari in modo che si generi disoccupazione.
- Per la teoria dell’isteresi, il saggio di crescita dei salari monetari tende a salire fino al livello per il quale gli insiders restano occupati e le imprese non sono spinte ad assumere nuovi lavoratori al fine di massimizzare il salario di coloro che già lavorano. Anche in questo caso, non essendoci il salario, la teoria non vale. Anzi, per massimizzare il reddito medio dei propri lavoratori, la cooperativa di Jossa ha convenienza proprio ad assumere lavoratori, almeno fin quando la produttività marginale del lavoro è maggiore del reddito medio dei lavoratori già occupati.
La disoccupazione keynesiana involontaria
Dopo aver trattato la teoria neoclassica, Jossa si chiede se il modello sia immune anche alla teoria della disoccupazione keynesiana. Per rispondere al quesito, deve preliminarmente verificare la validità, all’interno del sistema, della cosiddetta legge di Say (per cui in un regime di libero scambio sono impossibili crisi prolungate, dato che l’offerta crea la domanda) e del secondo postulato dell’economia classica (per cui l’utilità del salario, per un dato ammontare di lavoro occupato, è uguale alla disutilità marginale di quell’ammontare di occupazione).
Come nel capitalismo, così anche nel modello di Jossa la legge di Say non vale, siccome in entrambi i sistemi le imprese investono fin quando l’efficienza marginale del capitale eccede il tasso d’interesse, per cui la domanda globale può fluttuare. Il 2° postulato della teoria classica è invece valido nel modello di Jossa, ma in maniera “modificata”, ossia passando da un ragionamento sull’utilità del salario a uno sull’utilità delle ore di lavoro. Questo significa che, siccome i lavoratori sono in tutto e per tutto liberi di organizzarsi, lavoreranno per il numero di ore che assicura ad essi la massima soddisfazione, ossia fin quando l’utilità marginale della merce prodotta non diventa uguale alla disutilità marginale del lavoro necessaria a produrla. Ciò fa sì che anche la disoccupazione keynesiana involontaria, di regola, in questo modello non esiste. 11Jossa B., Un Socialismo Possibile, p. 146, Il Mulino, Bologna, 2015
Quale potrà essere allora la possibile reazione dell’impresa democratica a una crisi da domanda globale nello scenario delineato, per il quale non è validità la legge di Say, ma è valido il secondo postulato dell’economia classica? Jossa risponde che, per il modo peculiare in cui sono prese le decisioni sui licenziamenti (decisioni in assemblea), per evitare di creare un clima di sospetto reciproco e danneggiare la solidarietà fra i membri, le imprese sono incentivate a ridurre la settimana lavorativa piuttosto che a licenziare.12 Jossa B., Un Socialismo Possibile, p. 147, Il Mulino, Bologna, 2015
Se la disoccupazione in questo sistema non può essere né per alto costo del lavoro, né di tipo keynesiano, sarà giocoforza solo di tipo strutturale, ossia disoccupazione dovuta al poco capitale esistente. 13E Jossa mostra come questa sarebbe comunque inferiore a quella presente nel capitalismo, perché, a parità di tecniche produttive da adottare, l’assenza di un salario fa sì che le opportunità di investimento siano migliori nel suo sistema rispetto a quello capitalistico: Jossa B., Un Socialismo Possibile, p. 152, Il Mulino, Bologna, 2015 Jossa però non si ferma qui e argomenta anche che, in caso di un aggravarsi della disoccupazione strutturale per ragioni cicliche, lo Stato potrebbe fare politiche in favore dell’occupazione in maniera più “tranquilla” rispetto al modo di produzione capitalistico. E questo ci porta a ragionare su un terzo tipo di disoccupazione, quella “politica” o kaleckiana.
La disoccupazione politica kaleckiana
In Aspetti Politici del Pieno Impiego, un articolo divenuto famoso nei circoli economici eterodossi, Michal Kalecki nota che, nonostante in termini puramente economici il pieno impiego sia qualcosa di desiderabile sia per i lavoratori che per i capitalisti, “la premessa che il governo di uno Stato capitalistico manterrà il pieno impiego, se soltanto saprà come farlo, non è assolutamente ovvia”, dato che “l’avversione del grande capitale al mantenimento del pieno impiego tramite le spese statali ha a questo proposito un’importanza fondamentale”. 14Kalecki M., Political Aspects of Full Employment (1943), in Selected Essays on the Dynamics of the Capitalist Economy 1933-1970, Cambridge University Press, Cambridge, 1971 Perché questa avversione dei capitalisti nei confronti della piena occupazione? Kalecki percorre tre strade per spiegare questo fenomeno.
La prima riguarda la generale avversione dei capitalisti contro l’ingerenza del governo sulle questioni che concernono l’occupazione, che Kalecki imputa al non voler perdere la capacità di controllo della politica governativa che i capitalisti hanno in un regime di laissez faire. 15Ivi, p. 139, trad. mia
La seconda riguarda la direzione della spesa pubblica verso investimenti pubblici e sovvenzioni al consumo. Nel primo caso, a fare problema è la possibilità che il governo allarghi il proprio intervento in aree in cui il settore pubblico andrebbe a competere con il capitale privato, dato che ciò “potrebbe aver un effetto negativo sul rendimento degli investimenti privati, e la caduta di questi potrebbe compensare l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione”; nel secondo caso, nonostante lo Stato non interferisca con alcuna attività imprenditoriale, il problema dei capitalisti sarebbe che questo tipo di interventi cozza con la loro morale lavorista. 16Ivi, p. 140, trad. mia
La terza, quella decisamente più interessante, ci dice che la possibilità concreta del lavoratore di rimanere disoccupato ha un enorme effetto disciplinare, a cui i capitalisti non rinuncerebbero nemmeno a fronte dei vantaggi economici che trarrebbero dal pieno impiego. E qui voglio citare Kalecki:
In un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. È vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di piena occupazione, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. Persino la crescita dei salari derivante dalla posizione più forte dei lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un accrescimento dei prezzi che di una riduzione di profitti e in tale maniera verrebbe a colpire soprattutto gli interessi dei salariati. Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.
Kalecki M., Political Aspects of Full Employment (1943), in Selected Essays on the Dynamics of the Capitalist Economy 1933-1970, Cambridge University Press, Cambridge, 1971, pp. 140-141, trad. mia
Gli argomenti esposti da Kalecki sulla difficoltà di fare politiche di piena occupazione nel modo di produzione capitalistico, che riguardano motivazioni quali il controllo della politica governativa, l’imposizione di una morale lavorista e l’effetto disciplinare della disoccupazione, non sembrano essere valide all’interno del modello di Jossa, perché i lavoratori non sono una categoria diversa dai gestori delle imprese. Ciò vuol dire che se queste argomentazioni sono corrette, lo Stato potrebbe finalmente essere libero di fare efficacemente politiche che accrescano il livello del reddito e dell’occupazione. E questo, per il principio dell’acceleratore (secondo cui la variazione dello stock aggregato di beni capitale dipende, più che dal tasso di interesse, dall’andamento della domanda aggregata di beni e servizi), accrescerebbe fortemente la spinta ad investire, andando così a ridurre a sua volta la disoccupazione strutturale.
Vie Per la Realizzazione del Modello
Jossa non si concentra solo sulla costruzione e i benefici del suo modello, ma ci dice anche le vie percorribili per realizzarlo. I “nomi” che utilizzerò per indicare queste vie sono stati creati da me e non da Jossa, ma ritengo comunque che catturino bene le sue proposte. Qui non mi limiterò a esporre le vie, ma argomenterò i loro pro e contro.
La via della decisione politica
La prima è la via della decisione politica. Questa politica del lavoro prevede che, per via legislativa o esecutiva, il soggetto sovrano emani un atto che “trasformi le azioni delle imprese esistenti in obbligazioni di pari valore e proibisca al contempo, nei limiti in cui ciò sia ritenuto opportuno, l’assunzione di lavoro salariato”. 17Jossa B., Un Socialismo Possibile, p. 185, Il Mulino, Bologna, 2015 In pratica, questa politica andrebbe a trasformare, di colpo, tutte le S.p.A. in cooperative. Io ritengo questa una via poco percorribile oggi, per motivi di natura politica e economica.
Innanzitutto, da un punto di vista politico, è necessario che ci sia un movimento o un partito di lavoratori che sia favorevole al cooperativismo in maniera compatta e che riesca a prendere il potere. Considerando che i movimenti politici più vicini alle tematiche descritte sono quelli socialisti democratici e comunisti, e data la loro grande frammentazione, la scarsa popolarità di cui godono e, soprattutto nel caso dei secondi, la loro concezione della transizione socialista come pianificazione centralizzata, viene difficile pensare che questi movimenti possano raggiungere i requisiti menzionati.
Ma anche nel caso in cui apparisse un partito cooperativista coeso e molto popolare, vi sarebbero delle difficoltà di natura economica. La conversione delle azioni in obbligazioni non crea grandi problemi agli azionisti di minoranza (o che hanno investito solo a scopo di reddito). Ma dato che in un mercato in equilibrio il valore di borsa delle azioni è il valore che gli azionisti attribuiscono ai loro titoli, per gli azionisti di maggioranza ciò sarebbe disastroso. È impossibile ritenere che questi sarebbero disposti a cedere il controllo dell’impresa e a vendere le loro azioni a prezzo di mercato e, per questo motivo, nel momento in cui il parlamento si avviasse a prendere la decisione della conversione, vi sarebbe una fuga di capitali verso l’estero da parte degli azionisti di controllo.
Per evitare ciò, si potrebbe discutere di proibire la fuga all’estero delle imprese, ma in questo caso le imprese potrebbero avviare la fuga durante questa discussione, o ancora peggio, potrebbero tagliare la testa al toro e avviare la fuga al momento della vittoria alle elezioni del partito cooperativista. Un’altra soluzione interna a questa pratica sarebbe quella di pagare agli azionisti la differenza fra valore attribuito e valore di borsa delle azioni, che richiederebbe una contrattazione fra Stato ed azionisti. Ma anche questa non sembra una buona soluzione: ciò renderebbe la decisione del parlamento un accordo più che un atto di autorità (e se si pensa che il potere dei capitalisti sia illegittimo, c’è risarcimento che tenga) e farebbe lievitare i costi della transizione in maniera esorbitante. Sembra quindi che siano preferibili vie più graduali.
La via dell’azione sindacale
A tal proposito, la seconda è la via dell’azione sindacale. Secondo questa pratica, bisogna trasformare in imprese cooperative quelle imprese capitalistiche che i capitalisti non riescono più a gestire. Ad un elevato livello di organizzazione del movimento dei lavoratori, invece di aspettare che le imprese capitalistiche vadano in difficoltà per motivi legati al solo ciclo economico, i sindacati potrebbero organizzare scioperi mirati verso quelle imprese in cui i capitalisti stanno avendo difficoltà di gestione, sia per cause economiche che di conflittualità tra parti sociali, allo scopo di trasferire la gestione ai lavoratori. Nel caso di una reazione della classe padronale il movimento potrebbe poi utilizzare la carta dello sciopero generale. Nonostante la sua maggiore gradualità, anche questa via non è esente da problemi, sempre di natura politica ed economica.
In primo luogo, la via dell’azione sindacale sembra necessitare di un grado di conflittualità fra le parti sociali e di una coscienza di classe da parte dei lavoratori che ad oggi non sembra all’orizzonte. Inoltre, per come ve l’ho descritta, questa via sembra l’idillio dello spontaneismo, una sorta di politica soreliana che prescinde dalle organizzazioni del movimento dei lavoratori. Eppure, senza partiti e sindacati sarebbe difficile trasformare l’insorgenza in convergenza, cioè coordinare gli scioperi delle singole unità produttive e dar loro uno sbocco politico trasformativo.
Certamente, questo aggiunge dei livelli di complessità al nostro ragionamento. Senza sindacati favorevoli a un movimento più ampio, il rischio è quello di praticare l’autogestione in maniera corporativa, chiusa nelle mura del singolo impianto.18 La questione dei sindacati è ancora più spinosa, perché in un certo senso stiamo chiedendo loro di agire contro i loro interessi burocratici: è difficile infatti immaginare che ruolo possa avere un sindacato all’interno di un sistema di imprese à la Jossa, dato che i lavoratori non percepiscono più un salario e dato che non ci sono più capitalisti contro cui recriminare per avere migliori condizioni sul posto di lavoro. Invece, senza partiti rappresentativi del movimento, capaci di prendere il potere, di legittimare e formalizzare la conquista dell’autogestione, questa si ridurrebbe a una prova di forza contro l’apparato repressivo statale e la reazione capitalista. 19E questo lo stiamo vedendo benissimo nel caso dell’ ex-GKN
Passando ai problemi economici della via dell’azione sindacale, lo stesso Jossa rileva come, anche non trasformando le imprese medio-piccole, in uno scenario del genere i grandi capitalisti potrebbero sia non investire nel paese20Jossa B., Un Socialismo Possibile, p. 183, Il Mulino, Bologna, 2015, sia optare per una fuga di capitali vendendo e scorporando gli impianti delle imprese esistenti, di fatto eliminando il posto di lavoro.
Tuttavia, esistono delle politiche che permettono ai lavoratori di prendersi l’impresa anche senza uno scenario conflittuale. Si tratta del right of first refusal (il diritto di prelazione dei lavoratori nei confronti dell’impresa) e del workers buyout (il processo che prevede l’acquisizione di un’azienda in crisi o destinata alla chiusura da parte dei lavoratori dipendenti stessi). Entrambe assegnano ai lavoratori la capacità e alcune risorse per acquistare l’impresa a rischio di fallimento, di vendita, di chiusura per delocalizzazione o in difficoltà per un ricambio generazionale senza eredi interessati, prima che altri possano rilevarla. Si tratta di politiche non necessariamente collegate alla transizione verso un sistema di imprese cooperative: queste esistono anche in Stati che accettano il modo di produzione capitalistico, come la stessa Italia (pensiamo alla l. 49/1985, Legge Marcora). Di certo però i problemi politici menzionati permarrebbero.
La via dell’incentivo
La terza via, ancora più graduale della seconda, è la via dell’incentivo. Seguendo questa strada bisognerebbe considerare l’impresa jossiana come un “bene meritorio”, ossia quel tipo di bene meritevole di tutela pubblica indipendentemente dalla richiesta che ne fanno i potenziali utenti, dato che è rivolto al soddisfacimento di bisogni importanti per la collettività. Nei confronti dei beni meritori il bilancio pubblico ha il compito di garantire una produzione ottimale, rispetto a quella che si determinerebbe laddove il suo livello fosse rimesso alla sola dinamica del mercato.
Considerando i benefici in termini di democraticità, occupazione e più equa distribuzione del reddito che un sistema di cooperative apporterebbe, non è difficile capire perché queste siano un bene meritorio. Il ragionamento è quindi il seguente: poiché questo tipo di impresa offre molti vantaggi rispetto a quella capitalistica, si dovrebbero concedere benefici fiscali e creditizi alle cooperative che rispettano i requisiti di Jossa, in modo da far sì che queste possano vincere la concorrenza con le imprese capitalistiche.
Questo tipo di politica costituisce inoltre una risposta a un problema tipico della letteratura sull’autogestione. A mio avviso infatti, chi propone modelli di socialismo di mercato tende a non menzionare il problema della riproduzione. Si parla sempre di come si possa attuare il passaggio di gestione dai capitalisti ai lavoratori, ma ci si focalizza sempre sulle imprese già esistenti, mai su come si possano far nascere nuove imprese cooperative al posto di quelle capitalistiche. La via dell’incentivo mira proprio a rendere più appetibile, attraverso l’intervento politico, la creazione di imprese democratiche ex novo.
Anche questa via non è esente da problemi. Innanzitutto, si rischia di creare delle imprese capaci di riprodursi e vincere la selezione della concorrenza solo grazie all’incentivo pubblico, motivo per cui il programma di incentivi andrebbe calibrato in maniera specifica21 In questo può aiutarci uno studio di Ben-Ner, che mostra la vitalità delle imprese cooperative grazie alle agevolazioni che seguono alla fase della nascita: “le funzioni imprenditoriali in un’impresa esistente sono meno gravose che in un’impresa non ancora creata, le esigenze di capitale sono, di regola, più basse e i costi per tenere su l’impresa sono ridotti”, in Ben-Ner A., The Life Cycle of Worker-Owner Firms in Market Economies: a Theoretical Analysis, 1988, in Journal of Economic Behavior and Organization, vol. 10, p. 296, trad. in Jossa B. L’Impresa Democratica, Carocci, Roma, 2008, p. 123. Un’ulteriore difficoltà della via sta, paradossalmente, nella sua gradualità: un governo filo-capitalista ostile alla democrazia nelle imprese potrebbe mettere fine al programma di incentivi, terminando la transizione.
Criticità
Una delle maggiori obiezioni che viene fatta al modello dell’autogestione si basa su una mera osservazione empirica: se l’impresa cooperativa è superiore all’impresa capitalistica (e di rimando, se un sistema di cooperative è superiore al sistema capitalistico) com’è possibile che fino ad oggi siano presenti così poche cooperative di produzione in rapporto alla loro controparte? Per rispondere a questa domanda bisogna prendere in considerazione i motivi per cui e il modo con cui nasce un’impresa.
Per quanto riguarda l’impresa capitalistica, questa sorge “allorché qualcuno che abbia un capitale proprio decide di assumere altri alle proprie dipendenze, sapendo che, con buone probabilità, egli potrà dare certe garanzie di solvibilità”. Ma ciò significa che “chi ha un capitale a disposizione e capacità organizzative non ha convenienza a fondare una cooperativa, ove dovrà condividere con altri poteri e guadagni; e preferirà fondare un’impresa capitalistica, ove sa di poter conservare tutto il potere se resta unico proprietario, e di appropriarsi di tutto il surplus”.22Jossa B. L’Impresa Democratica, Carocci, Roma, 2008, p. 122 Se invece la forma dell’impresa fosse cooperativa, oltre a dover prendere le decisioni chiave in maniera democratica secondo il principio “una testa, un voto”, il socio che avesse l’idea di investire non avrebbe diritto al totale dei guadagni da lui creati, sia perché questi andrebbero divisi fra i soci, sia perché egli non avrebbe diritto a guadagni ulteriori che l’impresa continuerà ad avere per suo merito dopo che egli avrà lasciato l’impresa.
Inoltre, in generale, chi ha denaro da prestare chiede garanzie per il rimborso del prestito, ma i lavoratori, in quanto tali, non hanno un loro patrimonio da offrire in garanzia. Motivazioni basate sul potere politico all’interno dell’impresa, sul guadagno personale e sulla distribuzione del reddito frenano quindi chi ha buone capacità imprenditoriali e un buon capitale proprio di partenza dal fondare imprese del tipo di Jossa. Va inoltre osservato che, perché un’impresa nasca come cooperativa, i soci lavoratori che la fondano devono essere attivi al suo interno in quattro aree particolari: ideazione e piano d’azione di un’attività da svolgere, assunzione dei rischi di perdite, provvista di capitale e assunzione dei costi d’avvio. Ben-Ner, studioso di imprese cooperative, ha osservato che i lavoratori, rispetto agli imprenditori-capitalisti, sono svantaggiati in ciascuna area. 23Ben-Ner A., The Life Cycle of Worker-Owner Firms in Market Economies: a Theoretical Analysis, 1988, in Journal of Economic Behavior and Organization, vol. 10, pp. 289-290
A livello di teoria della scelta razionale, sembra quindi che solo i soggetti con poco o senza capitale proprio e senza particolari doti imprenditoriali abbiano interesse a fondare un’impresa democratica, e con ciò ci risulta più chiaro sia il motivo per cui le imprese cooperative sono meno rappresentate rispetto alle imprese capitalistiche, sia perché le imprese cooperative di grandi dimensioni o che operano in settori ad alta intensità di capitale sono per lo più derivate dalla trasformazione di imprese capitalistiche. Questa è la grande criticità dell’opzione cooperativa, che del resto è stata rilevata e messa in risalto sia da storici24Zangheri R., Galasso G., Castronovo V., Storia del Movimento Cooperativo in Italia, Einaudi, Torino, 1987 e Cole G. D. H., Storia del Pensiero Socialista, Vol. 1: I Precursori, Laterza, Bari, 1967-1968 che da diversi teorici25 Putterman L., Some Behavioural Perspectives on the Dominance of Hierarchical over Democratic form of Enterprise, in Journal of Economic Behaviour and Organization, vol. III, Elsevier, 1982 e Gunn C. E., Cooperatives and Market Failure: Workers’ Cooperatives and System Mismatch, in Review of Radical Political Economics, vol. 38, n. 3, Estate. Si tratta quindi di un problema che è da sempre percepito come un problema chiave dell’espansione del movimento.
Un altro problema rilevante per noi socialisti e comunisti è il seguente. Nonostante si possa argomentare efficacemente che il sistema di Jossa ribalta i rapporti fra Capitale e lavoro, rimane comunque un sistema di mercato. Questo significa che nella società permarrebbe la concorrenza con tutti i suoi corollari, come le procedure di efficientamento delle imprese (gerarchie, licenziamenti, controlli sui lavoratori) e le crisi economiche, effetti che difficilmente la nostra sensibilità riesce a ad accettare.26 Jossa comunque prova ad argomentare che questi effetti potrebbero essere mitigati dal suo modello, p. es. in Jossa B., Cooperativismo Capitalismo e Socialismo, NovaLogos, Aprilia, 2012 pp. 126-131.
Si tratta di un problema ancora più rilevante se pensiamo al fatto che l’alternativa a una società di mercato, ossia una società a pianificazione, non si è dimostrata capace di riprodursi in modo migliore di quella capitalista. Questo non vuol dire che dovremmo valutare un’opzione solo in base all’esperienza storica, ma sicuramente questa non può essere ignorata. E l’esperienza storica ci insegna proprio che all’interno di società a pianificazione si sono riprodotte dinamiche classiste.27 Bettelheim C., Le Lotte di Classe in URSS, Vol. 1 e 2, PGreco, 2024
Insomma sembra che le alternative al capitalismo che il movimento dei lavoratori e i suoi intellettuali hanno prodotto non riescano a superare tutti i problemi che il capitalismo pone. Da parte mia, credo comunque che l’autogestione in generale sia la via corretta, siccome si tratta di una pratica nata dalla classe lavoratrice stessa, e mette al centro la questione economica e politica del soggetto che gestisce i mezzi di produzione.
Bibliografia
Ben-Ner A., The Life Cycle of Worker-Owner Firms in Market Economies: a Theoretical Analysis, 1988, in Journal of Economic Behavior and Organization, vol. 10, pp. 289-290
Bettelheim C., Le Lotte di Classe in URSS, Vol. 1 e 2, PGreco, 2024
Cole G. D. H., Storia del Pensiero Socialista, Vol. 1: I Precursori, Laterza, Bari, 1967-1968
Gunn C. E., Cooperatives and Market Failure: Workers’ Cooperatives and System Mismatch, in Review of Radical Political Economics, vol. 38, n. 3, Estate
Jossa B., Economia del sottosviluppo, Il Mulino, Bologna, 1973
Jossa B., Musella M., Macroeconomia. Modelli elementari, Giappichelli, Torino, 2017
Jossa B., Socialismo e Mercato. Contributi alla Teoria Economica del Socialismo, ETAS, Sonzogno, 1978
Jossa B., Cooperativismo Capitalismo e Socialismo, NovaLogos, Aprilia, 2012
Jossa B., Un Socialismo Possibile, Il Mulino, Bologna, 2015
Jossa B., L’Impresa Democratica. Un Sistema di Imprese Cooperative come Nuovo Modo di Produzione, Carocci, Roma, 2008
Jossa B. & Cuomo G., The Economic Theory of Socialism and the Labour-managed Firm, Elgar, Brookefield (US), 1997
Kalecki M., Political Aspects of Full Employment (1943), in Selected Essays on the Dynamics of the Capitalist Economy 1933-1970, Cambridge University Press, Cambridge, 1971
Putterman L., Some Behavioural Perspectives on the Dominance of Hierarchical over Democratic form of Enterprise, in Journal of Economic Behaviour and Organization, vol. III, Elsevier, 1982
Shaikh A., Capitalism. Competition, Conflict, Crises, Oxford University Press, 2016
Zangheri R., Galasso G., Castronovo V., Storia del Movimento Cooperativo in Italia, Einaudi, Torino, 1987
Buonasera, le scrive un allievo del Prof.Jossa, precisando che l’inizio dell’attività scientifica di detto economista, in ordine a questa tematica, risale addirittura al 1975 e che prima della pubblicazione del 2018 che lei indica come prima sua lettura, c’è tutta una copiosa sua letteratura che, probabilmente, lei dovrebbe approfondire.
Invero, se lo facesse, probabilmente, non denominerebbe neanche il suo un “marxismo neoclassico”.
Con ciò le evidenzio che il suo scritto contiene molte imprecisioni sia nella descrizione del modello d’impresa democratica così come delineato da Jossa sia, conseguentemente, in tutte quelle che evidenzia come criticità che, invero, da detto studioso sono state ben superate con argomentazioni molto solide oltre che corrette dal punto di vista scientifico e che, probabilmente, lei non conosce.
A tal proposito, ci sono 2 opere, una del 2000 e l’altra del 2005 che non vedo citate nella bibliografia e che invece sono estremamente determinanti, al fine della esatta comprensione del suo pensiero economico.
Comunque, è bene parlarne, perchè un socialismo possibile esiste e questo dovrebbe ben comprenderlo, innanzitutto, l’attuale rappresentanza politica che oggi si dichiara di sinistra.
Infine, non in ordine di importanza, a meno che non mi sfugga la visione ed in tal caso le chiedo scusa, faccio rilevare che detto scritto non risulta firmato e ciò non ritengo che sia molto apprezzabile.
Disponibile ad un approfondimento, non sul web ovviamente, la saluto cordialmente.
Buonasera avvocato Grillo, mi chiamo Sergio Crescenzi. e sono l’autore dell’articolo. è vero, non mi sono firmato, nel collettivo abbiamo deciso di fare così per adesso. Per correttezza, abbiamo comunque scritto al professor Jossa inviandogli l’articolo, e lui ci ha risposto complimentandosi e dicendo che si tratta di una recensione molto competente, che si sente di accettarla quasi in toto e che potrebbe risponderci. A tal proposito, potrebbe dirmi dove secondo lei avrei descritto in modo improprio il modello proposto dal professore?
Sono consapevole del fatto che conosco una minima parte degli scritti di Jossa. Non mi ritengo un esperto e non sono un accademico. Ho voluto comunque scrivere un articolo in merito perché ritengo sia importante parlare del pensiero del professore e perché si tratta di un autore che per la mia formazione è stato molto importante. Potrebbe dirmi il titolo delle due opere a cui lei si riferisce? Così provvederò ad approfondire.
Un ultimo commento sul “marxismo neoclassico”. Sapevo bene che il titolo avrebbe causato polemiche, non è il primo che me lo contesta. Potremmo non essere d’accordo sulle definizioni, ma il motivo per cui l’ho chiamato così credo di averlo spiegato nell’articolo, perlomeno dal lato “neoclassico”: il metodo di costruzione del modello. Il suo “marxismo” sta invece, a mio modo di vedere, nel fatto che il professore pone la questione a mio avviso centrale del marxismo: quella della gestione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori. Questo obiettivo è per me, ben più di altre caratteristiche (p es teoria del valore), il minimo comun denominatore del marxismo.
Buonasera, Sergio Crescenzi, l’intento della mia risposta non era polemico e mi dispiace assai che abbia potuto suscitarle questa impressione, tant’è che io concludo dicendo: “ben venga la riapertura di un dibattito sul socialismo possibile”.
Le opere di cui parlo che costituiscono la summa del pensiero economico di Jossa sono:
1) La teoria economica del socialismo e l’impresa autogestita (G.Giappichelli Editore, 2000);
2) La teoria economica delle cooperative di produzione e la possibile fine del capitalismo (G.Giappichelli Editore, 2005).
Il suo può definirsi (è una definizione che il Prof.Jossa stesso dà e che, tra l’altro è anche titolo di un’altra sua opera) un marxismo rinnovato.
Lo spazio web è angusto per aprire un dibattito.
Sarebbe più appropriato un confronto in un convegno magari con il Prof.Jossa stesso e con il Prof.Ernesto Screpanti.
Entrambi, nel 2014, pubblicarono nel 2014 su Sbilanciamoci.it il “Manifesto per l’autogestione”.
Il prof.Screpsnti, riprendendo la tematica e proseguendola, l’anno scorso ha pubblicato “Liberazione-Il movimento che abolisce lo stato di cose presente”.
Io cercherò di organizzare un convegno tematico il prossimo autunno presso l’Università Federico II di Napoli.
Spero di riuscirci.
In ogni caso, ha la mia mail ed in privato posso darle anche il mio recapito mobile.
Spero di essere stato chiaro nello spiegarle che la mia risposta non aveva alcun intento polemico.
Saluti
Si figuri, e mi scuso se ho dato l’impressione di essermela presa. Anzi, tendenzialmente preferisco le critiche ai complimenti, perché mi permettono di crescere e di migliorare. In proposito, la ringrazio per le sue indicazioni bibliografiche, ne approfitterò. E spero riesca a organizzare il dibattito a cui ha accennato. Servono decisamente più iniziative che abbiano al centro il tema dell’autogestione, in un dibattito in cui purtroppo Stato e socialismo sono considerati ancora come equivalenti. Nel nostro piccolo, il macrotema che abbiamo scelto per questo mese voleva essere proprio un modo per accendere discussioni in merito.