La fine di Trump: una causa per cui esultare?

— in gentile concessione del professor Boris Jul’evič Kagarlickij

Qualche giorno fa, navigando su Internet, sono arrivato a un confronto della rivolta del Campidoglio americano col tentato golpe di Mosca del 1991. Il parallelismo mi è sembrato piuttosto artificioso, all’inizio, ma osservando il dispiegamento degli eventi negli Stati Uniti seguiti al tentato colpo di stato, sono arrivato alla conclusione che il paragone sia valido.

Le azioni dei trumpisti erano, ovviamente, insane e politicamente senza scopo. Lo stesso si può dire sui leader del golpe di Mosca. Ma la somiglianza più importante tra i due eventi sta nel fatto che le azioni dei perpetranti, motivati dalla difesa delle istituzioni esistenti e dell’ordine costituito, ha consegnato la carta decisiva a quella sezione dell’élite determinata a ricostruire l’ordine a proprio piacimento. Le loro azioni, perciò, hanno dato avvio ai processi di collasso istituzionale e cambiamento radicale delle norme politiche. Ironicamente, agli occhi della società, coloro che ne rompono le norme non sono quelli che stanno distruggendo il vecchio ordine, ma quegli inetti che tentano di difenderlo.

Dopo la fine dell’insensato attacco al Campidoglio, e quando la folla manifestante è tornata a casa, l’élite politica metropolitana ha ricevuto sufficienti ragioni per un numero di misure prima considerate impensabili. Non solo le compagnie dei social media iniziano a introdurre la censura in una maniera straordinariamente coordinata (reti private differenti, di proprietà di compagnie apparentemente in competizione fra loro, sono finite in qualche modo a prendere esattamente le stesse decisioni), ma anche le banche hanno agito all’unisono, introducendo restrizioni alle donazioni politiche. E naturalmente, queste sono donazioni della gente comune e dei proprietari di piccole-medie imprese che usano i servizi bancari sottoposti al blocco.

La decisione di bloccare le piattaforme “estremiste” (Parler è il caso più celebre), è particolarmente significativo in contrasto allo sfondo di approvazione unanime da parte delle maggiori reti televisive (dalla CNN, liberale, a Fox News, conservatrice).

E qui c’è un altro parallelismo con gli eventi di Mosca del 1991: i capi del golpe, che hanno portato i carrarmati nelle strade di Mosca, non hanno suscitato molta simpatia nella società, così, successivamente, non molti si allarmarono per la persecuzione dei golpisti. Il significato pieno di questi eventi si è concretizzato solo più tardi, nel 1993. Ora i carrarmati stavano sparando al parlamento, difeso dalla società civile dai golpisti solo due anni prima. La repressione e i divieti negli Stati Uniti di oggi sono giustificati dalla necessità di lottare contro la destra radicale che, come la sua controparte moscovita, è incapace di suscitare solidarietà in qualunque persona ragionevole. I giullari idioti che hanno fatto irruzione nella Camera dei Rappresentanti americana appaiono ributtanti e la loro ideologia è un accumulo di insensate storie complottistiche e pregiudizi. Screditano solo ulteriormente il presidente che stanno provando a difendere, mentre il presidente stesso sembra uno sgradevole pagliaccio arancione. Tuttavia, questo è il fulcro: dapprima il sistema repressivo è provato sui gruppi che non provocano simpatia alla cittadinanza; una volta che il meccanismo è stato elaborato, viene poi applicato senza nessuna considerazione dell’opinione pubblica.

Chiunque ricordi i programmi della televisione russa nel 1993, quando i carrarmati di El’cin stavano facendo fuoco sul palazzo del parlamento a Mosca, ha avvertito un déjà-vu: la CNN e tutti gli altri notiziari via cavo si sono tramutati in un protratto «cinque minuti d’odio» colmo di termini, come «terroristi» ed «estremisti», usati per descrivere gli oppositori politici. I redattori dei programmi non fingono nemmeno di dare spazio a chiunque abbia un punto di vista diverso (figurarsi opposto). Lo spettatore è perciò soggetto a un’enorme massa di aggressione verbale, rendendo questi programmi pressoché indistinguibili dalla televisione russa del 1993. Solo la maggiore qualità del video e una meno ripugnante voce del conduttore americano permette di differenziare i due.

Contemporaneamente, sono in corso le preparazioni per mettere sotto accusa Donald Trump. Sembrerebbe che la vicenda sia completamente assurda, dal momento che l’attuale presidente americano ha solo pochi giorni rimasti nella Stanza Ovale e la risoluzione di impeachment, se seguita pedissequamente la procedura, entrerebbe in vigore non prima del 20 gennaio, quando Trump comunque trasferirà il potere a Joe Biden. Nonostante ciò, gli organizzatori dello stato d’accusa non celano nemmeno il loro vero obiettivo: l’impeachment è necessario non per sollevare Trump dall’incarico, ma per impedirgli di correre ancora alle presidenziali del 2024 e vincere le elezioni. Cosa pianificano di fare nel paese in quattro anni, i vittoriosi democratici, se temono un tale rivolgimento degli eventi? Se i leader democratici ritengono che Trump sia uno squinternato che ha governato con un’amministrazione completamente disastrosa (che ad ogni modo è vero per l’ultimo anno), allora qual è la loro opinione degli elettori americani? Pensano che la maggioranza dei loro concittadini sia composta di idioti a cui non deve essere dato il diritto di scegliere?

La giustificazione basata sulla nozione del sentimento estremista è solo ipoteticamente insita nel «maschio bianco» che non lavora, giacché questo gruppo è già una minoranza in contrazione negli Stati Uniti. La questione è che il supporto per Trump fra gli uomini bianchi è andato calando durante la sua presidenza, mentre è invece cresciuto fra le donne, i latinoamericani e persino gli afroamericani. In altri termini, il pericolo per l’establishment non viene dal «maschio bianco», ma da tutti quei segmenti che possono coagularsi attorno all’idea di rifiuto dell’élite esistente.

Introducendo la censura di Internet e il controllo sui servizi di donazioni politiche, le élite economiche statunitensi si appropriano del diritto di determinare a chi sia permesso di entrare in politica e come; quali opinioni siano accettabili da diffondere e discutere, e quali no. Inoltre, la lotta contro le idee che davvero meritano critica è ridotta alla messa al bando. Seguire delle giuste regole di discussione, argomentare basandosi sui fatti – questi metodi per fronteggiare gli avversari ideologici sono considerati inefficaci e irrimediabilmente obsoleti. Perché? Perché le idee e l’agenda promossa da queste élite non è meglio di quanto proibiscono.

L’ovvia lezione da tutto ciò è che la censura privata non è migliore della censura governativa, e benché gli inquilini del Cremlino gongolino davanti a questa situazione, anche loro appaiono abbastanza patetici. Dopo tutto, è insensato gioire pubblicamente del fatto che il tuo vicino si è rivelato essere tanto carogna quanto te. Entrambi dovete condividere il solo stesso destino. La sinistra, oltretutto, ha proclamato a lungo che la lotta contro i monopoli capitalistici e la lotta contro lo stato autoritario sono sostanzialmente la stessa lotta per la libertà.

C’è, comunque, una domanda ancora più importante: come organizziamo appropriatamente l’operato delle piattaforme di social media ampiamente utilizzate? La risposta è scontata: devono stare sotto il controllo pubblico, che a sua volta deve essere basato su regole chiare, comprensibili e approvate dalla maggioranza dei cittadini. Il trasferimento delle piattaforme alla pubblica proprietà, ad ogni modo, avrebbe senso solo in condizioni dove il controllo democratico è garantito, e l’amministrazione è condotta attraverso strutture rappresentative formate democraticamente. Siccome oggi la maggioranza delle piattaforme agisce a livello globale, anche l’amministrazione e il controllo dovrebbe essere fornito dalle strutture rappresentative internazionali. Ma è da notare come nessuno dei «politici seri», persino a sinistra, offra nulla di paragonabile a questo.

Oggi, la sinistra negli Stati Uniti applaude per la maggiore alle misure prese contro Trump e i suoi sostenitori. Tuttavia, il guaio è che dopo la sconfitta dei trumpisti, è il turno della sinistra. La logica oggettiva della lotta politica è che la sconfitta del populismo di destra in condizioni dove problemi concreti rimangono irrisolti (e nessuno degli attuali attori politici si è proposto di risolverli) crea i prerequisiti per l’insorgenza di un simile assalto contro la sinistra. E non appena la sinistra ha reali possibilità di lotta nell’implementare i propri obiettivi, l’intera forza della macchina di repressione sarà (probabilmente persino preventivamente) dispiegata contro di essa. Perciò, i sostenitori di Bernie Sanders non devono applaudire al giro di vite: loro saranno i prossimi.

 

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