— Emanuele
Molto spesso, nelle figure istituzionali, si sostiene un’azione e un pensiero politicamente neutrale. Sebbene ciò sia auspicabile, almeno apparentemente, per quegli incarichi di mera rappresentanza istituzionale, quali il Presidente della Repubblica, del Senato o della Camera, questa volontà in merito alle cariche pubbliche si riflette soprattutto per i ruoli rappresentativi studenteschi: si sente spesso declamare, come una qualità, l’assenza di pensiero politico proprio dal «futuro della democrazia», come si apostrofa spesso la gioventù studentesca.
La contraddizione che emerge è particolarmente profonda: se si ritengono i giovani come garanti intrinsechi di un futuro per la democrazia (intesa come “istituzioni repubblicane” attuali, vedasi altrimenti Democrazia diretta: tra i 5Stelle e i Soviet), ma d’altra parte si supporta culturalmente un appiattimento relativista del pensiero politico, favorendo cori sempre più percepiti neutrali, propositivi e rosei, allora si considera come democratico un pensiero tollerante – ma non integrativo –, relativista e senza alcuna propensione all’effettivo cambiamento istituzionale, politico, sociale ed economico. È di fatto proprio quel pensiero che viene aspramente condannato da destra in quanto “buonista”, ovvero favorevole a tutte quelle istanze liberali di diritti civili a cui il conservatorismo si è sempre opposto, ma che tuttavia, sotto le condanne, si accetta per la seconda parte, ovvero per un’inerzia sostanziale verso il bisogno, pur diffusamente percepito, di un cambiamento reale. Così si dispiegano tutte quelle affermazioni tanto inconsistenti quanto gridate, di “manovre del popolo” scritte a Bruxelles, di “governi del cambiamento” che continuano sulla linea dell’austerità. Rimane attesa, tuttavia, una critica seria a quell’atteggiamento da sinistra arcobaleno che non si accori con la destra conservatrice, ma che al contempo superi, marcando le necessità di un vero cambiamento sociale ed economico, il belletto liberale di un sistema crudele.
Ad ogni modo, contrariamente a questa impressione generale che assume la neutralità come virtù, il pensiero politico è doveroso per coloro che hanno incarichi istituzionali, perché significa avere dei progetti sistematici e delle volontà su come migliorare, almeno solo la gestione, la società e i rapporti fra gli individui. Una totale e remissiva neutralità di pensiero politico, benché a parole dovrebbe garantire un’equità tra le varie ideologie, in realtà si fa portavoce di un generale soffocamento di tendenze miglioratrici strutturalmente, in quanto considerate come fastidiosi ed equipollenti colori di bandiere sostanzialmente non dissimili. Come se avere un pensiero politico sia un vezzo, un’opinione puramente personale totalmente inutile, e sia addirittura dannoso per l’agire istituzionale, in quanto potrebbe soffocare un pluralismo esclusivamente parolaio.
In questo contesto, il ruolo delle utopie, ovvero di quei luoghi teorici che, per virtù umane o naturali, non esistono, è essenzialmente di sperare in un raggiungimento di quei valori per cui le utopie vengono costruite: uguaglianza, libertà, umanità. Le utopie servono per camminare, per darsi un obiettivo ultimo da raggiungere, e per non cadere nel fanatismo, in cui si sovrappone l’ideale e i valori per cui si lotta alla loro funzione per l’uomo, o all’utile umano in generale. Inoltre, la parola utopia, coniata da Thomas More nel suo libro omonimo, deriva dal greco, ove ού, non, e τόπος, luogo, definiscono l’inesistenza, al momento di cui si parla, di questi luoghi e di questi valori nella misura in cui sono condensati in una nuova società.
L’approccio di More nella redazione della sua opera è particolarmente interessante, siccome nel primo libro il filosofo inglese descrive la società in cui vive, all’epoca di Enrico VIII, mettendone in luce gli aspetti negativi – come ad esempio «quando le pecore mangiano gli uomini», intendendo che, per aumentare i profitti dall’allevamento delle pecore che producevano l’allora rinomata lana inglese, si convertirono al pascolo numerosi campi aperti di cui i contadini più poveri si servivano per sopravvivere – e nel secondo libro ribalta la situazione inglese descrivendo l’isola di Utopia.
D’altra parte, l’aspirazione ai valori e alle istanze tali in una migliore ma inesistente società è piuttosto logica: come si può sperare all’interno di ciò che è stato attuato, senza alcuna istanza che trascenda la realtà contemporanea? Per questo, le utopie devono essere inesistenti proprio per permettere agli uomini la tensione verso di esse e verso un continuo miglioramento delle condizioni della propria vita, soprattutto sociali e umane, data l’estraniazione generale verso il profitto e un incompleto benessere puramente materiale che è il fulcro della società occidentale.
Concludendo, le utopie sono necessarie e doverose, giacché senza utopie, ovvero senza una sistematizzazione di quelle istanze e di quei valori verso cui l’uomo spera, tende e agisce, si procede verso un eterno presente, senza più un’umana tensione al miglioramento dell’ambiente, creato dall’uomo, in cui si vive. Proporre visioni neutraliste, senza speranza, incentrate solo sulla fattibilità materiale e sull’approvazione o meno da parte del mercato, in qualità di regolatore della vita pubblica secondo le affermazioni dei suoi tecnici governi applicatori, è di nessuna utilità per un vero progresso umano e sociale, ma anzi, fissa in uno stadio sempre più contraddittorio il mantenimento artificiale di una società – l’attuale – in decadenza.
La condanna dell’utopia si definisce quindi come la condanna delle possibilità umane, e di un miglioramento continuo per l’uomo, che riesca perciò a trapassare il capitalismo.