Papa Francesco: lavoro, migranti, ambiente e movimenti. Un bilancio di un pontificato anomalo

A prefazione del seguente saggio, sentiamo l’esigenza di esprimere lo spirito con cui cerchiamo di dirimere la discussione circa la liceità o meno per il movimento socialista di affrontare il fenomeno Bergoglio, onde evitare accuse di papismo o di antiteismo ideologico. Pensiamo che sia necessario analizzare il fenomeno Bergoglio come singolarità nell’areale della reazione, studiando le plasticità di questa e riprendendo quelli che sono i portati importanti, ecologisti e sociali, del compianto Pontefice, senza creare miti ex nihilo e senza accettare ipostasi dell’Assoluto: per nominar profeti, ci basta la nostra sinistra di classe e laica, che da un secolo e mezzo propone figure alla stregua dei migliori e piú ripudiabili santini manco fossimo in un triste convegno di perpetue e baciapile. Analizziamo il fenomeno per due motivi principali. Il primo perché crediamo che Papa Francesco sia stato, nel patrimonio culturale e nella sua dimensione media e mediata, uno dei personaggi che più negli ultimi anni ha contribuito a riconvocare ex novo forme comunicative politicamente in disuso, relegate per lo più alla pragmatica politica a cui tutti noi siamo partigiani; pratiche minoritarie queste, con lui gradualmente ri-affrancate nella comunicazione di massa, liberandole dalla selettività della messa all’indice berlusconiana di temi come la povertà, il lavoro, il Terzo Mondo, l’ecologismo. Tutte quelle cose da “comunisti” che trent’anni di berlusconismo ha narcotizzato e risemantizzato, complice il quarantennio di feroce anticomunismo overt e ciellino dei predecessori di Bergoglio, e degli almeno cent’anni precedenti di anticomunismo covert e quantomeno istituzionale della storia vaticana. Se bisogna dare un merito alla figura di Papa Francesco, non è quello di aver sviluppato una nuova, e non necessaria, teologia della liberazione, quanto di aver inserito pesantemente i temi sovracitati e stigmatizzati nel dibattito cattolico di massa oltre alla semplice ritualità, usando le strutture di diffusione istituzionale, funzioni della reazione, a questo favore. Il secondo motivo consiste nel fatto che l’analisi degli onori e dei dolori di un patriarcato non deve inibirci nel comprendere come, nonostante singolarità lodevoli come Papa Francesco, don Gallo o Alex Zanotelli, l’istituzione Chiesa sia un’istituzione di sua natura conservatrice, a noi socialisti e razionalisti naturalmente distante, cosí come qualsiasi religione abramitica, che col senso della trascendenza impone una gerarchia naturale, dogmatica e classificatoria, in cui il potere teologico-politico è un unicum indivisibile. Sotto questo punto di vista, dare la colpa ad un Papa di essere intollerante nei confronti di chi richiede i propri sacrosanti diritti civili è come accusare un pesce del fatto che debba nuotare per sopravvivere. Questo vuol dire che il Papa, come qualsiasi oggetto storicamente determinato, ha avuto la sua individuazione culturale in un contesto religioso, cattolico, in commistione con la cultura ispanica tipicamente fallocratica e machista, reperibile ancora di più nei singolari trait d’union tra certa sinistra sudamericana, il peronismo culturale tipicamente argentino e la visione del cristologico e del sacro come archetipi profondamente radicati nelle credenze popolari. Ciò ci fa giungere alla fine di questa doverosa introduzione: cosa ci lascia praticamente Bergoglio? Al movimento socialista può aver costruito dei ponti di comunicazione ulteriori col mondo cattolico, ma quando questi ponti sono da sfruttare? Quando le alleanze globali con le identità teologico-politiche abramitiche in sede tattica, o le ibridazioni locali contingenti, possono garantire un payoff nel risultato pratico senza creare mostri? Ricordiamoci delle esperienze sudamericane degenerate, ricordiamoci delle pericolose galanterie tra gruppi etnonazionalisti, come i gruppi sionisti, ed il socialismo, ricordiamoci dell’esperienza iraniana e delle delegazioni del PCF a casa di Khomeini, con i relativi apprezzamenti verso il pericoloso islam politico. Si può parlare di fase minima e di alleanze solo nel momento in cui la controparte non può nuocere all’intersezionalità della lotta, sia a livello culturale che a livello materiale. Ciò vuol dire che una ricostruzione antidogmatica del nazional-popolare passa sì per alleanze di rito, ma solo nel caso il movimento socialista sia strutturato in maniera sufficiente da non abdicare alla propria funzione di gatekeeper intersezionale.

1. Capire la storia di Papa Francesco

Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi in Papa Francesco. Questa economia uccide iniziano le loro riflessioni analizzando le reazioni e le critiche suscitate dalle parole di Papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium, in cui condanna con forza un’economia basata sull’esclusione e sull’iniquità, definendola un sistema che “uccide”. Il pontefice denuncia l’indifferenza della società di fronte a tragedie come quella di un anziano che muore di freddo per strada,diversamente da notizie come il ribasso di due punti in Borsa che finiscono facilmente per occupare i titoli dei giornali. Smonta inoltre le teorie della trickle-down economics, secondo cui la crescita economica generata dal libero mercato porterebbe automaticamente a maggiore equità e inclusione sociale, una convinzione che definisce ingenua e mai verificatasi nella realtà. Al contrario, osserva come gli esclusi continuano ad attendere giustizia mentre il potere economico si concentra nelle mani di pochi. Queste affermazioni hanno scatenato aspre reazioni, soprattutto in ambienti conservatori e finanziari, dove alcuni hanno bollato Francesco come “marxista” o addirittura “leninista”. Le critiche più dure provengono da chi ritiene che il Papa, essendo latinoamericano e proveniente dalla fine del mondo, non comprenda appieno i meccanismi dell’economia globale e demonizzi ingiustamente il capitalismo, considerato da molti l’unico sistema in grado di ridurre la povertà. Alcuni commentatori cattolici lo hanno accusato di essere “pauperista”, quasi che parlare troppo dei poveri e degli emarginati fosse un eccesso ideologico. Altri hanno liquidato le sue parole come eretiche o politicamente scorrette. Tuttavia le posizioni di Francesco non sono affatto rivoluzionarie perché si inseriscono in una solida tradizione della Dottrina Sociale della Chiesa, spesso dimenticata o volontariamente ignorata. Vengono citati, ad esempio, San Giovanni Crisostomo, che nel IV secolo esortava a onorare Cristo nei poveri anziché con ornamenti liturgici, e Pio XI, che nell’enciclica Quadragesimo anno del 1931 condannava il “funesto ed esecrabile internazionalismo bancario” e il potere dispotico di pochi sul sistema economico. La resistenza alle parole di Francesco, dunque, non nasce da un reale contrasto dottrinale bensì da un malcelato disagio verso chi mette in discussione l’assunto che capitalismo e cristianesimo siano necessariamente alleati. Molti cattolici, soprattutto in Occidente, hanno accettato acriticamente l’idea che il libero mercato sia l’unico sistema possibile, arrivando a considerare le disuguaglianze e le crisi finanziarie come inevitabili “effetti collaterali”. Di fronte a questa mentalità il Papa invita invece a un esame di coscienza collettivo, ricordando che il “protocollo” su cui saremo giudicati è quello del Vangelo di Matteo (25, 31-46), in cui Cristo si identifica con gli affamati, gli assetati e gli emarginati. Resta da chiedersi come mai queste posizioni, un tempo patrimonio comune del cattolicesimo sociale, oggi appaiano così radicali persino a molti credenti. La risposta sta in un progressivo allontanamento dalla tradizione magisteriale, sostituita da un approccio selettivo che privilegia alcuni valori (come la difesa della vita o la famiglia) mentre relega la giustizia sociale a tema da cattocomunisti. Francesco, con il suo stile diretto e la sua insistenza sui poveri come “carne di Cristo”, sfida questa deriva, riportando la Chiesa alle sue radici più autentiche. La sua battaglia non era ideologica ma pastorale: chiese ai cristiani di non accontentarsi di una fede privatizzata e di impegnarsi per un mondo più giusto, senza cedere alla rassegnazione di chi considera immutabile l’ordine economico esistente. L’elezione di Papa Francesco il 13 marzo 2013 segnò fin da subito una svolta nel modo di concepire il ministero petrino, con un’attenzione particolare e immediata verso i poveri che divenne il cuore del suo pontificato. Quel giorno, nel conclave svoltosi sotto una pioggia incessante, il cardinale Jorge Mario Bergoglio fu eletto al quinto scrutinio (ma sesta votazione, a causa di un incidente tecnico: una scheda in più era stata accidentalmente inserita nell’urna durante la quinta votazione, rendendo necessario ripetere lo spoglio). Mentre i voti a suo favore aumentavano, il futuro Papa fu confortato dall’abbraccio del cardinale Cláudio Hummes, arcivescovo emerito di San Paolo e suo caro amico, che gli sussurrò: “Non dimenticarti dei poveri!”. Quelle parole, come lo stesso Francesco avrebbe poi raccontato, risuonarono profondamente nel suo cuore e lo spinsero a scegliere il nome Francesco, ispirandosi a San Francesco d’Assisi, il santo della povertà, della pace e della custodia del creato. Tre giorni dopo l’elezione, il 16 marzo, in un incontro con i giornalisti, il nuovo pontefice spiegò il significato di quella scelta, sottolineando come non fosse dettata da un ragionamento astratto bensì da un’intuizione nata in quel momento di fragilità e grazia. Alcuni avevano ipotizzato che il nome potesse riferirsi a San Francesco Saverio o a San Francesco di Sales, tuttavia Bergoglio chiarì che era proprio al Poverello d’Assisi che pensava: “Francesco è l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato” e aggiunse con passione: “Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!”. Questa visione non era nuova per Bergoglio che già da arcivescovo di Buenos Aires aveva fatto della vicinanza agli ultimi una caratteristica del suo episcopato. Ora, da Papa, quell’impegno assunse una dimensione universale, fondata nella radicalità del Vangelo. Durante una veglia di Pentecoste in piazza San Pietro, il 18 maggio 2013, rispondendo a una domanda su come vivere una “Chiesa povera per i poveri”, Francesco tracciò una netta distinzione tra l’agire cristiano e quello delle organizzazioni mondane: “La Chiesa non è una ONG”, disse, “perde il sale se diventa solo una struttura efficiente”. Al centro doveva esserci l’incontro con Cristo, specialmente nei sofferenti, perché “andare verso i poveri significa andare verso la carne di Cristo”. Con parole dirette e spesso provocatorie il Papa denunciò la cultura dello scarto che tratta gli esseri umani come rifiuti mentre idolatra il profitto. Raccontò un antico midrash ebraico sulla Torre di Babele, dove un mattone caduto era considerato una catastrofe mentre la morte di un operaio passava inosservata. “Oggi succede lo stesso”, osservò Francesco: “Se crollano i mercati è un dramma, ma se muore un senzatetto non è notizia”. Per lui, questa era la vera crisi che era “una crisi dell’uomo” che rischiava di perdere la propria dignità di “immagine di Dio”. L’alternativa proposta fu una cultura dell’incontro, dove la fede si traduce in prossimità, anche verso chi la pensa diversamente. Citando un’esperienza personale, descrisse come, quando confessava chiedesse ai fedeli non solo se facessero l’elemosina ma se guardassero negli occhi i poveri e ne toccassero le mani: “Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo”. Per Francesco la povertà, oltre ad essere una questione sociologica, era “una categoria teologale” legata al mistero stesso di Dio che si è fatto uomo nella condizione più umile. La sua insistenza su una Chiesa “incidentata” più che chiusa e malata, su una fede che esce dalle sacrestie per sporcarsi le mani nella realtà, divenne un marchio distintivo del suo magistero. In un’epoca di scandali finanziari e disuguaglianze crescenti, le sue parole suonavano come un richiamo profetico: “Non possiamo diventare cristiani inamidati, che parlano di teologia sorseggiando il tè”. Dovevano invece essere “coraggiosi”, cercando “quelli che sono la carne di Cristo”. In tutte queste idee emerge l’esperienza maturata in oltre vent’anni di episcopato a Buenos Aires, una megalopoli lontana dall’Europa e emblematica delle contraddizioni della globalizzazione. La sua formazione pastorale e la sua visione teologica furono profondamente segnate dalla crisi economica e sociale che sconvolse l’Argentina all’inizio del nuovo millennio, culminata nel drammatico dicembre 2001, quando il crollo finanziario trascinò nella disperazione milioni di persone. In quel periodo, Bergoglio, da poco nominato cardinale, fu testimone diretto delle sofferenze del suo popolo: vide con i propri occhi la repressione delle proteste, come quando la polizia caricò una donna in Plaza de Mayo, e intervenne personalmente per denunciare le violenze ma più delle proteste rumorose a colpirlo furono le lacrime silenziose delle famiglie che, di notte, piangevano per l’umiliazione della povertà improvvisa, come raccontò in un’intervista del 2002 al giornalista Gianni Valente. La crisi argentina era, per Bergoglio, il sintomo di un collasso morale più profondo. Riprendendo le parole della lettera dei vescovi argentini del 2001, denunciò le radici del disastro: la corruzione sistemica, l’evasione fiscale dilagante, il liberalismo e quella che definì la “tirannia del mercato”, un sistema che anteponeva il profitto alla dignità delle persone. Con parole durissime parlò di un vero e proprio “terrorismo economico-finanziario”, i cui effetti erano sotto gli occhi di tutti: l’impennata della povertà, il crollo della classe media e almeno due milioni di giovani lasciati senza studio né lavoro. Richiamandosi alla Dottrina Sociale della Chiesa, in particolare all’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI, Bergoglio condannò quello che chiamò l’”imperialismo internazionale del denaro”, una forma di idolatria moderna che riduce l’uomo a merce e cancella persino il diritto al lavoro, trasformando le persone in scarti della società. Queste riflessioni trovarono ulteriore sviluppo durante la Conferenza di Aparecida del 2007, dove Bergoglio, in qualità di presidente della commissione redattrice del documento finale, sottolineò con forza le “scandalose iniquità” dell’America Latina, un continente in cui la crescita economica non aveva affatto ridotto la povertà, generando fratture sociali sempre più profonde. In quell’occasione criticò senza mezzi termini i poteri finanziari globali, accusandoli di essere “eticisti senza bontà”, cioè di predicare regole astratte mentre ignoravano la sofferenza concreta delle persone. Per Bergoglio la Chiesa non poteva rimanere in silenzio di fronte a queste ingiustizie e doveva opporsi con coraggio, rimanendo sempre ancorata alla tradizione biblica e alla Dottrina Sociale cattolica. La sua risposta pastorale a queste ingiustizie fu una Chiesa che viveva in mezzo alla gente. Celebrava messe tra i cartoneros, i raccoglitori di cartone delle discariche, e nelle villas miserias, i quartieri più poveri di Buenos Aires, sostenendo i sacerdoti che lavoravano in prima linea. Condannò con forza la schiavitù moderna, denunciando le condizioni disumane in cui versavano molti lavoratori sfruttati nella stessa capitale argentina. In un discorso alla Caritas nel 2009 criticò apertamente lo stile di vita lussuoso di alcuni operatori caritativi, esortando a una povertà radicale e a un incontro autentico con i poveri, perché, come ripeteva spesso, “in ogni povero c’è Cristo che ci aspetta”. In un’altra occasione, durante una conferenza sul debito sociale nel 2009, Bergoglio definì immorale un sistema basato sulla perpetuazione delle disuguaglianze in un paese come l’Argentina che pure aveva tutte le risorse per evitarle. E nell’ultima lettera quaresimale da arcivescovo, nel 2013, pochi mesi prima di essere eletto Papa, tornò a denunciare l’”impero del denaro” e i suoi effetti demoniaci: la droga, la tratta di esseri umani, la violenza che dilagava nelle periferie. Egli non si limitò alla condanna, anzi, invitò a una conversione che non fosse solo individuale ma collettiva, perché, ricordava, la vera speranza nasce dalla vicinanza a chi soffre. Questa esperienza argentina, fatta di ingiustizie e di resistenza, avrebbe plasmato in modo indelebile il suo pontificato. La sua insistenza sull’opzione preferenziale per i poveri, spesso fraintesa come ideologia, era in realtà radicata nel Vangelo e nella convinzione che una Chiesa lontana dagli ultimi tradisce la sua missione. Da Papa, Francesco avrebbe portato questa visione su scala globale, denunciando le storture del capitalismo finanziario, la cultura dello scarto, l’indifferenza verso i migranti e le vittime della guerra. La forza del suo messaggio stava proprio nella sua coerenza: era lo stesso Bergoglio che, anni prima, aveva messo in guardia contro i rischi di una globalizzazione senza umanità e che ora, dalla cattedra di Pietro, continuava a indicare una strada diversa, quella di una Chiesa povera per i poveri. Non deve allora stupire se il suo primo viaggio apostolico in Italia, compiuto l’8 luglio 2013 fu a Lampedusa. Esso divenne un atto di accusa contro quella che lui stesso ha definito la “globalizzazione dell’indifferenza”. L’isola, avamposto delle migrazioni verso l’Europa, è diventata il teatro di una tragedia umanitaria: nei vent’anni precedenti oltre 25.000 persone avevano perso la vita nel Mediterraneo, annegate su barconi fatiscenti nella disperata ricerca di una vita migliore. Francesco, colpito dall’ennesimo naufragio di metà giugno 2013, ha voluto recarsi lì senza il seguito di autorità politiche, scegliendo invece di pregare insieme ai sopravvissuti e ai residenti, lanciando in mare una corona di fiori in memoria delle vittime. Con parole durissime il Papa ha paragonato il capitalismo sfrenato a Erode che “seminò morte per difendere la propria bolla di sapone” e ha condannato l’anonimato di chi, dietro decisioni socioeconomiche apparentemente neutre, apre la strada a drammi come quello dei migranti. “Chi ha pianto per questi fratelli e sorelle?”, ha chiesto più volte, denunciando l’anestesia del cuore di chi si chiude nel proprio benessere. La sua omelia, una delle più intense del primo anno di pontificato, ha rievocato le domande di Dio a Caino, “Dov’è tuo fratello?”, per sottolineare come l’ossessione del potere e del denaro porti a una “catena di morte” in cui il sangue del fratello diventa indifferente. Lampedusa, per Francesco, è un faro, un esempio di come dovrebbe essere l’accoglienza in un mondo che invece alza muri di egoismo. Questo tema ritorna con forza nel suo viaggio in Sardegna il 22 settembre 2013, dove la disoccupazione, che colpiva il 50% dei giovani e raddoppiava l’indice di povertà rispetto alla media nazionale, diventa il simbolo di un sistema malato. Ascoltando le testimonianze degli operai, come Francesco Mattana, disoccupato dal 2008, il Papa si è commosso e ha abbandonato il discorso preparato per parlare a braccio, con toni appassionati. Ha ricordato come suo padre, emigrante in Argentina durante la crisi degli anni ‘30, avesse sofferto la stessa mancanza di dignità legata all’assenza di lavoro. “Dove non c’è lavoro, manca la dignità”, ha ripetuto, sottolineando che non si tratta di un problema solo sardo o italiano ma della conseguenza di “un sistema economico mondiale che ha al centro un idolo: il denaro”. Francesco ha denunciato la cultura dello scarto che butta via anziani e giovani, privati di futuro, e ha invitato a lottare per un’economia che ponga al centro l’uomo e la donna, come voluto da Dio. “Non lasciatevi rubare la speranza”, ha esortato, paragonandola a braci sotto la cenere, da ravvivare con la solidarietà. La sua preghiera finale, improvvisata, è un grido contro gli idoli del profitto: “Signore, a Te non è mancato il lavoro, eri un falegname felice. A noi sì. Donaci la forza di resistere”. Questi temi sono stati ribaditi in altri interventi cruciali. Il 25 maggio 2013, nel convegno della Fondazione Centesimus Annus, Francesco ha definito la disoccupazione “la peggiore povertà materiale”, perché toglie dignità e ha chiesto di “ripensare la solidarietà” come riforma strutturale del sistema. A Rio de Janeiro, durante la GMG, ha esortato i potenti a non stancarsi di lottare per la giustizia perché “la cultura dell’individualismo non costruisce un mondo abitabile”. E il 1° maggio 2013, festa dei lavoratori, ha condannato i “sistemi che basano l’economia sullo sfruttamento”, negando salari giusti e calpestando la dignità umana. L’Evangelii Gaudium, la prima esortazione apostolica di Papa Francesco, rappresenta il manifesto programmatico del suo pontificato, delineando una visione rinnovata dell’evangelizzazione nella Chiesa contemporanea. Pur non presentandosi come un piano rigidamente strutturato, il documento si propone come una guida dinamica, una road map spirituale e pastorale che invita a innescare processi di riforma senza pretese di controllarne ogni sviluppo. Francesco rifiuta l’idea di imporre direttive dall’alto, preferendo invece stimolare un movimento di rinnovamento che parta dalle comunità stesse, chiamate a riscoprire la gioia del Vangelo e a liberarsi da tutto ciò che ne ostacola l’annuncio autentico. Al cuore dell’esortazione vi è il tema della gioia evangelica che trasforma radicalmente l’esistenza di chi incontra Cristo. “La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù”, scrive Francesco, sottolineando come questa esperienza liberi dal peccato, dalla tristezza e dal vuoto interiore. In netto contrasto con questa gioia, il Papa descrive il malessere della società consumistica, caratterizzata da una “tristezza individualista” che nasce dalla ricerca compulsiva di piaceri effimeri e dall’isolamento dell’io. Questo clima spirituale, avverte Francesco, contamina anche molti credenti, riducendoli a persone “risentite, scontente, senza vita” mentre il Vangelo offre invece una relazione viva con Cristo che accoglie ogni cercatore “a braccia aperte”. Sebbene l’Evangelii Gaudium non sia un documento di dottrina sociale, come lo stesso Papa precisa, rimandando al Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, esso affronta con forza temi cruciali come la povertà, l’ingiustizia e l’idolatria del denaro, inserendoli in una prospettiva evangelizzatrice. Francesco riprende le intuizioni di Paolo VI nell’Octogesima Adveniens del 1971, riconoscendo che la Chiesa non può offrire soluzioni universali alle complesse sfide globali e deve valorizzare anche gli insegnamenti delle conferenze episcopali locali, più vicine alle specificità culturali e sociali. Uno dei passaggi più incisivi e discussi è la denuncia di un’economia dell’esclusione e della iniquità, definita senza mezzi termini “un’economia che uccide”. Con linguaggio profetico, Francesco condanna la logica dello scarto, per cui intere masse di persone vengono trattate come merci di scarto, escluse non solo dai benefici del progresso ma addirittura dalla stessa appartenenza alla società. “Gli esclusi non sono ‘sfruttati’”, scrive, “ma rifiuti, ‘avanzi’”. Il Papa smaschera l’illusione secondo cui la crescita del mercato garantirebbe automaticamente maggiore equità. “Questa opinione, mai confermata dai fatti”, afferma Francesco, “esprime una fiducia grossolana e ingenua nei potenti dell’economia”. A questa deriva si lega la globalizzazione dell’indifferenza, concetto evocato già durante la visita a Lampedusa e ripreso nell’esortazione per descrivere l’anestesia delle coscienze di fronte alla sofferenza degli ultimi. “Quasi senza accorgercene”, osserva il Papa, “diventiamo incapaci di provare compassione”, mentre le tragedie umane si trasformano in “mero spettacolo” che non ci turba. Parallelamente Francesco condanna l’idolatria del denaro che da mezzo si trasforma in fine assoluto, generando una “dittatura di un’economia senza volto” e riducendo l’uomo a mero consumatore. Citando Pio XI e la Quadragesimo Anno, denuncia l’”imperialismo del denaro” e la tirannia dei mercati che impongono leggi spietate mentre gli Stati rinunciano al loro ruolo di garanti del bene comune. La risposta a queste distorsioni, per Francesco, non può che passare attraverso un’etica economica radicale che ponga al centro la dignità umana. Riprendendo San Giovanni Crisostomo, ricorda che “non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli” perché i beni materiali sono per loro natura destinati al bene di tutti. Il Papa esorta governanti e finanzieri a promuovere riforme che sottomettano il denaro alla logica del servizio perché “il denaro deve servire, non governare!”. Un altro nodo cruciale è il legame tra iniquità e violenza: finché permangono esclusione e disuguaglianza, osserva Francesco, nessun apparato di sicurezza potrà garantire pace duratura. “Quando la società abbandona nella periferia una parte di sé”, scrive, “non vi saranno programmi politici né forze dell’ordine in grado di assicurare tranquillità”. Il male, infatti, non è solo nei cuori individuali ma si cristallizza in strutture sociali ingiuste che vanno modificate per evitare crisi future. L’esortazione ribadisce con forza che evangelizzazione e promozione umana sono inseparabili. Il Vangelo, infatti, chiama i credenti a un impegno concreto, ispirato al “protocollo” di Matteo 25: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare”. Francesco sogna una Chiesa povera per i poveri, capace anche di combattere le cause strutturali della povertà, rifiutando al contempo ogni deriva populista. “Se qualcuno si sente offeso dalle mie parole”, precisa, “gli dico che le esprimo con affetto, lontano da ogni ideologia”. 

2. La Teologia del popolo di Papa Francesco

Questa introduzione di carattere storico-teorico ha bisogno di un approfondimento di carattere teologico per sottolineare le differenze tra Papa Francesco e il marxismo ma anche rispetto alla Teologia della Liberazione. Ci viene, allora, in soccorso la teologa Emilce Cuda con Leggere Francesco. Teologia, etica e politica dove sostiene che Papa Francesco si presenta come un pontefice che unisce in sé la dimensione profetica della denuncia delle ingiustizie e quella pastorale della misericordia e dell’unità. Il suo pontificato si sviluppa in un contesto globale segnato da profonde contraddizioni: un sistema economico che genera disoccupazione strutturale e povertà diffusa, un fondamentalismo che strumentalizza la religione per fini politici, uno sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali che minaccia l’equilibrio ecologico e migrazioni di massa spesso frutto di disuguaglianze insostenibili. In questo scenario Francesco si erge come una voce autorevole, capace di parlare non solo ai cattolici ma all’intera umanità, affermando con forza che le radici della povertà non sono puramente economiche ma politiche perché è la politica a determinare le strutture ingiuste che regolano l’economia. La sua parola, sorprendentemente, ha assunto un’auctoritas morale che trascende i confini religiosi, influenzando anche i leader politici e le dinamiche sociali, questo perché la politica contemporanea è in crisi, frammentata da partiti inefficaci, meccanismi populisti e una cittadinanza sempre più diffidente che esercita un controllo permanente però sterile, limitandosi a una libertà negativa, cioè alla semplice opposizione senza proposta, Francesco ha ribadito che la soluzione passa attraverso una rinnovata decisione politica, perché l’economia stessa è un prodotto della parola, dell’agire umano, e solo una scelta etica può correggerne le distorsioni. Chi è stato veramente Francesco? Un teologo? Un politico? Egli stesso rispose definendosi semplicemente un pastore, seguendo l’esempio di Cristo Buon Pastore che non giudica ma ama, che cerca la pecora perduta per ricondurla all’ovile. Nella Evangelii gaudium, scrive che la Chiesa deve essere “in uscita”, una comunità missionaria che si sporca le mani nella realtà, che sa prendere l’iniziativa, accompagnare, festeggiare ogni piccolo progresso. Non è una Chiesa chiusa in se stessa, clericale o mondana ma una Chiesa che vive tra la gente, con “l’odore delle pecore”. Questo approccio pastorale si riflette anche nell’enciclica Laudato si’, dove il Papa si rivolge a tutti, credenti e non, per un dialogo sulla cura della “casa comune”, sottolineando che l’ecologia non può essere disgiunta dalla giustizia sociale. Francesco non è solo un pastore mite; è anche un profeta che denuncia con coraggio le ingiustizie. Come i profeti biblici, egli smaschera le falsità del potere, condannando i “falsi pastori” che cercano se stessi anziché servire il gregge. Citando sant’Agostino, ricorda che i pastori che si nutrono delle pecore invece di nutrirle tradiscono la loro missione. Francesco critica l’economia dell’esclusione, dove i potenti “mangiano” i deboli, riducendoli a scarti, condanna il consumismo che trasforma le persone in merce usa e getta, denuncia la privatizzazione delle religioni, relegate alla sfera privata. La sua profezia non è una semplice lamentela bensì un invito a un’azione concreta: “Date loro voi stessi da mangiare” (Mc 6,37), ovvero agite per cambiare le strutture che generano miseria. Questa duplice dimensione, pastorale e profetica, affonda le radici nella teologia del popolo, una corrente argentina della teologia della liberazione che Bergoglio ha assimilato durante il suo ministero in America Latina. Per Francesco, il “popolo” è una realtà viva, fatta di volti concreti: i poveri, i migranti, gli esclusi. La sua opzione preferenziale per i poveri è evangelica perché è in essi che si incontra Cristo sofferente. Per questo insiste che la Chiesa non può essere neutrale: deve schierarsi dalla parte degli ultimi, senza però cadere in ideologie populiste o in vuoti assistenzialismi. La sua visione politica è quella di un pastore che cerca l’unità nella diversità, riflettendo il modello trinitario di comunione. Quando parla al Parlamento europeo o ai movimenti sociali, non propone ricette tecniche ma invita a ricostruire legami sociali basati sulla solidarietà. La sua critica al capitalismo sfrenato ovviamente non lo rende un marxista, così come la sua attenzione ai poveri non lo fa diventare un populista. Il suo è un discorso radicato nel Vangelo e nella Dottrina Sociale della Chiesa che legge i “segni dei tempi”, come la crisi ambientale o le migrazioni, con uno sguardo teologico, vedendo in essi una chiamata alla conversione. Francesco è dunque un segno dei tempi lui stesso: il primo Papa gesuita, il primo proveniente dal Sud del mondo, una figura che unisce tradizione e innovazione. Mentre il mondo dibatte su crisi economiche e politiche, egli ricorda che la vera crisi è antropologica e riguarda il senso dell’uomo, il suo posto nel creato, il suo rapporto con Dio e con i fratelli. La sua risposta è un rinnovato impegno per una civiltà dell’amore, dove nessuno sia escluso. In un’epoca di muri e divisioni, Francesco incarna la speranza di un’umanità riconciliata, dove la giustizia e la misericordia si abbracciano. Per capire meglio questo pontefice Cuda propone una riflessione approfondita sulla natura della sua pastorale teologica, collocandola all’interno di un contesto storico e culturale specifico, quello latino-americano, e confrontandola con le tradizionali concezioni della teologia pastorale europea. La pastorale teologica viene definita come un giudizio a posteriori sulla realtà, un processo in cui la prassi si intreccia con la teoria senza sovrapporvisi, generando un’azione concreta orientata verso chi soffre. Questo approccio mira a produrre cambiamenti effettivi nella vita delle persone, promuovendo una “vita buona” nel senso più concreto del termine. La categoria di pastorale teologica nasce dalla teologia del popolo e dal suo metodo etico-storico che rifiuta un’etica basata su principi trascendentali fissati a priori, preferendo invece un’etica radicata nella storia e nella cultura dei popoli, contingente e dinamica. Questo metodo si oppone a una visione universalista e astorica, proponendo invece una teologia che si forma nel “dramma della storia”, rispondendo alle specifiche esigenze culturali e sociali di ogni comunità. Tale prospettiva non pretende di imporsi come un dogma all’interno della disciplina teologica e si presenta come uno strumento complementare per comprendere meglio la peculiarità della teologia pastorale in Sudamerica. La proposta latino-americana entra in tensione con la definizione classica di teologia pastorale, come quella avanzata da Galli, che la intende come una dimensione speculativa della teologia, in cui il contenuto della fede viene comunicato attraverso un metodo sistematico. Per Galli la teologia pastorale è parte integrante della scienza teologica e si occupa della missione evangelizzatrice della Chiesa, con particolare attenzione al rapporto tra il messaggio cristiano e le forme della sua comunicazione. In questa visione la teologia mantiene un carattere universale mentre l’aggettivo “pastorale” ne indica l’applicazione concreta. La pastorale teologica latino-americana inverte questa prospettiva: non è la teoria che si applica alla prassi ma è la prassi stessa, l’azione pastorale nel popolo, che diventa fonte di riflessione teologica. Questo approccio, che vede la teologia come un’attività incarnata nella storia e nella cultura, ha suscitato resistenze in alcuni ambienti teologici, specialmente tra coloro che separano rigorosamente il discorso su Dio da quello sull’uomo. Per costoro la teologia deve occuparsi principalmente di Dio come soggetto e oggetto mentre l’impegno sociale e politico rischierebbe di confondere i piani. Questa posizione trascura l’aspetto incarnato del cristianesimo, in cui la Parola di Dio si fa storia e cultura, e la missione della Chiesa è quella di continuare l’opera del Regno inaugurato da Cristo. La difficoltà nel comprendere questa prospettiva emerge anche nel dibattito politico, dove il magistero di papa Francesco viene spesso interpretato in modo riduttivo, come se fosse una forma di marxismo o populismo. Alcuni commentatori, come il conduttore radiofonico statunitense Rush Limbaugh, lo accusano di ipocrisia per le sue critiche al capitalismo mentre altri, come il filosofo Gianni Vattimo, vedono nel suo pontificato una sorta di “Internazionale socialista”. Come spiega il teologo argentino Víctor Manuel Fernández, la teologia del popolo non si identifica né con il marxismo né con il liberalismo. Essa propone una terza via, radicata nella cultura e nella fede del popolo, che rifiuta sia l’astrattezza del progressismo senza radici sia l’individualismo del capitalismo. La pastorale teologica è dunque una prassi di conversione, sia per i teologi, chiamati a diventare pastori, sia per le strutture sociali ingiuste. Questa visione trova le sue radici già nella patristica, dove i Padri della Chiesa utilizzavano la cultura greco-romana per denunciare le ingiustizie dell’Impero, come dimostra l’Apologia di Giustino che equipara la religione pagana a un sistema di oppressione. Allo stesso modo, la Seconda lettera ai Tessalonicesi, pur non essendo autenticamente paolina, rappresenta un esempio di teologia come denuncia delle strutture di potere idolatriche, in questo caso l’Impero romano che si ergeva a divinità. Si tratta di una tradizione di impegno sociale e teologico ripresa e rinnovata dal Concilio Vaticano II, in particolare nella Gaudium et spes, che afferma come le gioie e le sofferenze degli uomini, specialmente dei poveri, siano anche quelle della Chiesa. Il documento legittima l’azione politica dei cattolici, invitando a un dialogo con la cultura e a una cooperazione tra Chiesa e Stato, senza pretese di privilegio temporale. Cinquant’anni dopo, papa Francesco ripropone queste tematiche con rinnovata urgenza, costringendo teologi e politici a confrontarsi con questioni come la guerra, la disuguaglianza e l’individualismo, dimostrando che la teologia non può essere separata dalla sua missione trasformativa nella storia. Nel discorso teologico di Papa Francesco emerge una svolta radicale quindi: la teologia pastorale si trasforma in pastorale teologica, un approccio che ricostruisce la riflessione teologica a partire dalla prassi vissuta con il popolo e all’interno della sua cultura. Questo perché, secondo Francesco, è proprio nel popolo che la Parola di Dio si incarna in modo vivo e concreto. Ciò porta a privilegiare la missione del discepolo rispetto alle logiche carrieristiche dell’accademia e della gerarchia ecclesiastica, spesso descritte con toni duri, come una “lebbra”, suscitando resistenze e sospetti. In particolare i teologi latinoamericani, e soprattutto quelli argentini legati alla cosiddetta teologia del popolo, vengono spesso accusati di politicizzare la teologia, scivolando verso derive populiste o, nel contesto argentino, verso il peronismo. All’estero molti osservatori si chiedono come sia possibile che teologi, tradizionalmente considerati intellettuali dediti alla contemplazione e allo studio, scelgano di immergersi tra la gente comune, ascoltando le loro voci invece di attenersi rigidamente alla tradizione dei Padri della Chiesa, della scolastica e del magistero. Come può il povero, spesso visto dalla cultura occidentale come ignorante o addirittura “barbaro” (come sosteneva Domingo Sarmiento), essere portatore di una verità rivelata? Jacques Rancière arriva a negare che i poveri abbiano qualcosa da dire, privi come sono di beni, titoli, linguaggio raffinato e spazio pubblico per esprimersi. La teologia del popolo ribalta questa prospettiva: i poveri non sono semplici oggetti di assistenza o di liberazione ma soggetti capaci di pensare con categorie proprie. Fernández, uno dei suoi maggiori esponenti, distingue tra popolo e massa. Il popolo è un soggetto collettivo in grado di generare processi storici mentre la massa è un aggregato passivo e indistinto. Per comprendere questa visione, un riferimento fondamentale è Sant’Agostino che nella Città di Dio (XXII, 4-5) riflette su tre “cose incredibili”: la resurrezione di Cristo, il fatto che il mondo abbia creduto a un evento così straordinario e soprattutto che questa verità sia stata annunciata non da filosofi o retori ma da uomini umili e ignoranti, pescatori, non sapienti. Agostino si chiede con ironia come sia possibile che persone considerate “incredibili” abbiano trasmesso un messaggio “incredibile” usando un linguaggio simbolico, fatto di gesti e miracoli. Questa intuizione agostiniana è centrale per la teologia del popolo che riconosce nei semplici una forma di conoscenza diversa da quella accademica: non una verità scientifica o teologica in senso tradizionale ma una sapienza teologale, radicata nell’esperienza quotidiana e nella fede vissuta. Fernando Boasso, ad esempio, riflette su come l’arte e i riti simbolici possano essere veicoli privilegiati per l’esperienza del divino mentre la teologia della liberazione latinoamericana vede nel povero una soglia attraverso cui Dio si rivela, come suggerisce Bruno Forte. La domanda di Pilato a Gesù, Che cos’è la verità?, assume in questo contesto un significato profondo. Gesù non risponde con un trattato filosofico ma con la sua stessa presenza: la verità è l’Uomo-Dio, la Parola incarnata. Allo stesso modo, oggi, quando i poveri scendono in piazza per rivendicare i loro diritti, spesso le loro voci non vengono ascoltate come portatrici di verità e vengono ridotte a “rumore” fastidioso. Come Cristo fu Victor quia victima, così i poveri, nella loro testimonianza spesso silenziosa o nella loro lotta, rivelano una verità che sfida le strutture di ingiustizia. La categoria di popolo in questa teologia merita un approfondimento ulteriore. Esso è inteso non come una massa amorfa e inconsapevole, concetto tipico di una certa tradizione illuministica, ma come un soggetto collettivo dotato di una propria sapienza, radicata nella cultura, nella memoria storica e in una coscienza condivisa che legittima il discernimento etico e politico, senza cedere ad una visione populista che tende a mitizzarlo in modo acritico. La teologia del popolo affonda le sue radici nel contesto argentino degli anni ‘60, un periodo segnato da forti tensioni sociali e da un rinnovato impegno della Chiesa nel sostenere i processi di democratizzazione. In quegli anni, teologi, pastori e intellettuali cattolici, spesso legati alla COEPAL (Conferencia Episcopal Latinoamericana), entrarono in dialogo con sociologi, filosofi e militanti politici, dando vita a una feconda ibridazione tra categorie teologiche e politiche. Figure come i Curas villeros (sacerdoti che operavano nelle baraccopoli) e il Movimiento de Sacerdotes para el Tercer Mundo (MSPTM) svolsero un ruolo cruciale nel connettere la riflessione teologica con le lotte concrete del popolo, in particolare dei lavoratori e degli esclusi. Tra i protagonisti di questo movimento spiccano nomi come Justino O’Farrell, che funse da ponte tra la COEPAL e le cosiddette Cattedre nazionali dell’Università di Buenos Aires, e teologi come Lucio Gera, che elaborarono una visione del popolo come soggetto storico e teologico. Papa Francesco, formatosi in questo contesto, ha ripreso e rielaborato la categoria di “popolo” in modo originale, distinguendo tra il popolo come comunità culturale e politica, un insieme di persone legate da una storia e da valori comuni, e il Popolo di Dio in senso teologico, cioè la Chiesa come realtà trascendente ma incarnata nella storia. Egli rifiuta l’idea di un popolo omogeneo che rischierebbe di sfociare in una visione totalitaria e preferisce invece l’immagine del poliedro, dove le differenze convivono in un’unità dinamica e armoniosa. Questa metafora, ripresa nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, diventa emblematica del suo approccio: non una sfera in cui tutto è uniforme ma una figura complessa in cui ogni faccia mantiene la sua peculiarità. Per quanto riguarda l’opzione preferenziale per i poveri, nella teologia del popolo essa ha una specificità che la differenzia da altre correnti della teologia della liberazione. Mentre alcune tendenze marxiste vedevano la povertà come uno stato di annichilimento e di “non-essere”, la teologia del popolo, e con essa Bergoglio, interpreta la condizione dei poveri come un kairos, un momento di grazia e di possibilità storica. Il povero non è solo colui che subisce ingiustizia ma è anche portatore di una dignità che si esprime nel lavoro e nella resistenza culturale. La giustizia sociale non è più una promessa escatologica ma una realtà da costruire qui e ora, attraverso politiche pubbliche che favoriscano l’ascesa sociale dei lavoratori.  Il legame con il peronismo, movimento politico che dagli anni ‘40 ha rappresentato le istanze delle classi popolari argentine, è un elemento chiave per comprendere questa teologia. Il peronismo, infatti, ha sempre visto nel lavoro il fondamento della dignità umana, in contrapposizione a una visione puramente assistenzialista della povertà. Bergoglio, pur non essendo “peronista” in senso politico, ha assimilato questa sensibilità, come dimostrano i suoi ripetuti richiami al valore del lavoro nel Laudato si’ e il suo sostegno a modelli di dialogo sociale basati sul sindacalismo argentino che privilegia la contrattazione collettiva e la partecipazione popolare. La teologia del popolo è stata spesso accusata di populismo o di culturalismo ma queste critiche nascono da un fraintendimento. A differenza del populismo, che tende a strumentalizzare il popolo in una logica di potere, questa corrente teologica insiste sulla realtà concreta delle persone, sulla loro cultura e sulle loro lotte. Allo stesso tempo rifiuta sia l’universalismo astratto che cancella le differenze, sia il particolarismo radicale che nega ogni possibilità di unità. Riflette una visione cristologica profondamente radicata nella tradizione cattolica: Cristo è visto come il singolare universale, il frammento in cui si manifesta l’intero, secondo una linea che rimanda a pensatori come Hugo von Balthasar e Nicolò da Cusa. L’influenza di questa teologia sul magistero di Francesco è evidente in molte delle sue scelte pastorali: l’insistenza sulla misericordia, sulla gioia del Vangelo e sulla necessità di una Chiesa “in uscita”, che si sporchi le mani nella realtà concreta della gente. Come ha scritto Scannone, uno dei principali teorici della teologia del popolo, il sapere teologico non nasce da un’elaborazione astratta ma dall’azione, dall’incontro con il popolo reale, con le sue sofferenze e le sue speranze.  

3. Un Papa laburista 

Leonardo Becchetti in Bergoglionomics. La rivoluzione sobria di papa Francesco ci aiuta a sviluppare questo incontro della Chiesa con la realtà, in particolare partendo dal significato del lavoro nella visione di Papa Francesco sintetizzata in quattro aggettivi: libero, creativo, partecipativo e solidale. L’analisi prende le mosse da una critica alla visione neoclassica dell’economia, dominante nella cultura occidentale, dove il lavoro è considerato essenzialmente una disutilità, un sacrificio necessario per ottenere un salario con cui acquistare beni di consumo e godere del tempo libero. Questa concezione, nata nel contesto della rivoluzione industriale, un’epoca in cui il lavoro in fabbrica era spesso alienante, come magistralmente rappresentato da Charlie Chaplin in Tempi moderni, ignora completamente la possibilità che il lavoro stesso possa essere fonte di realizzazione personale. Al contrario, la Dottrina Sociale della Chiesa propone una visione più articolata, in cui il lavoro è al tempo stesso “croce e delizia”: fatica inevitabile e occasione per partecipare all’opera creatrice di Dio. L’uomo, attraverso il lavoro, diventa “con-creatore”, continuando nel tempo e nella storia ciò che nella Genesi si ferma al settimo giorno. Il progresso tecnologico ha contribuito a liberare l’uomo dalla fatica fisica e dai lavori più ripetitivi, distruggendo alcune occupazioni ma generandone di nuove, spesso più legate alla creatività, alle relazioni e alla soddisfazione di bisogni emergenti. Questo sviluppo rende teoricamente possibile avvicinarsi all’ideale di un lavoro libero e creativo, in cui l’individuo non è più un semplice ingranaggio di un meccanismo produttivo bensì un artefice consapevole del proprio operato. Tuttavia la realtà odierna presenta anche ombre: accanto a professioni più gratificanti, si moltiplicano lavori precari e poco qualificati, come quelli nel settore della gig economy, dove fattorini e rider sono spesso sottoposti a ritmi stressanti di lavoro e sono privi di tutele. Uno dei grandi paradossi del mondo del lavoro moderno è la divisione delle mansioni, teorizzata da Adam Smith nel celebre esempio della fabbrica di spilli e portata all’estremo dal taylorismo. Questa divisione ha aumentato l’efficienza e la produttività, dice Becchetti, ma ha frammentato il processo lavorativo, rendendo difficile per il singolo percepire il senso complessivo del proprio contributo. Un artigiano che costruisce un oggetto dall’inizio alla fine può facilmente cogliere la dimensione creativa del suo lavoro ma un operaio addetto a un singolo passaggio di una catena di montaggio fatica a vederne il valore. Eppure, questa stessa specializzazione ha anche un risvolto positivo, ovvero ha reso evidente che, per realizzare progetti complessi, è indispensabile il lavoro di squadra, aprendo la strada a modelli organizzativi basati sulla collaborazione, la fiducia e il capitale sociale. Gli ultimi due aggettivi, partecipativo e solidale, completano il quadro delineato da Francesco. La partecipazione attiva dei lavoratori alle decisioni che li riguardano non è solo una questione di equità ma anche di efficacia. Studi come quelli sull’utilità procedurale (avviati da Bruno Frey e Alois Stutzer) dimostrano che le persone coinvolte in un processo decisionale tendono a valutarlo positivamente anche quando il risultato non è perfettamente in linea con le loro preferenze. Tuttavia è l’ultimo aggettivo, solidale, a rappresentare forse l’aspetto più rivoluzionario del pensiero laburista del Papa. Non basta che il lavoro sia libero, creativo e partecipativo perché ciò che davvero conta è il suo scopo, il know why che lo anima. In una società che misura il successo quasi esclusivamente in termini di reddito, questa visione appare quasi sovversiva. La scelta di un lavoro solidale, che abbia un impatto positivo sugli altri, può compensare sacrifici economici, perché risponde a un bisogno profondo di significato. La società contemporanea si trova in una condizione di profonda contraddizione rispetto agli ideali di equità e dignità del lavoro proposti dal Papa. La realtà che ci circonda mostra un quadro preoccupante in cui le condizioni del lavoro e del benessere sociale sono sotto attacco. Uno dei mali più evidenti del mondo del lavoro odierno è la sua frammentazione e precarizzazione. Non si tratta solo del problema della disoccupazione, che pure rimane drammaticamente alto, soprattutto tra i giovani (in Italia, nel 2017, si contavano 2,5 milioni di giovani NEET) ma anche della qualità del lavoro stesso. Sempre più spesso il lavoro non è libero, non è creativo, non è partecipativo e neppure solidale. Al contrario, è diventato un’attività spesso alienante, in cui le persone sono costrette a scegliere tra due estremi ugualmente problematici dice Becchetti. C’è chi lavora in modo eccessivo, senza pause, trasformandosi in una sorta di “schiavo moderno” che non ha diritto neanche al riposo e chi lavora troppo poco, con contratti precari, a ore, o addirittura con il sistema del cottimo, rientrando nelle statistiche degli occupati solo formalmente ma senza alcuna stabilità. A questo si aggiunge il fenomeno dei work poor, lavoratori che, pur avendo un’occupazione, non riescono a superare la soglia di povertà. Un tempo avere un lavoro significava automaticamente uscire dall’indigenza; oggi, invece, la proliferazione di “lavoretti” temporanei e mal retribuiti fa sì che sempre più persone, pur lavorando, finiscano per dipendere da mense caritatevoli o da aiuti sociali. Questo perché il loro reddito non è sufficiente a garantirsi l’accesso ai beni e servizi essenziali, come definiti dalle soglie di povertà assoluta. Il sistema economico globale, nella sua corsa all’efficienza e alla massimizzazione del profitto, ha sacrificato la dignità del lavoro, trasformandolo in una semplice voce di costo da comprimere. Per capire perché ciò accade, bisogna analizzare il “manuale di istruzioni” del sistema stesso, ovvero i principi della microeconomia che guidano le scelte di imprese e mercati. Questo sistema può essere paragonato a una macchina con quattro ruote: due ben gonfie e due sgonfie. Le ruote gonfie rappresentano la massimizzazione del profitto e il benessere del consumatore, obiettivi che il capitalismo globale ha perseguito con successo. Il profitto, in sé, non è un male dice Becchetti perché serve a finanziare investimenti, innovazione e crescita. Quando diventa un fine assoluto, a discapito di tutto il resto, si trasforma in un’aberrazione in quanto subordina ogni altro valore, come i diritti dei lavoratori o la sostenibilità ambientale, alla mera accumulazione di ricchezza. Allo stesso modo la concorrenza globale ha portato a un’esplosione di beni e servizi a basso costo, migliorando il potere d’acquisto dei consumatori che nasconde un paradosso: mentre i consumatori hanno accesso a più prodotti che mai, i lavoratori vedono peggiorare le loro condizioni. Il problema fondamentale è che le altre due ruote della macchina, la dignità del lavoro e la tutela dell’ambiente, sono state lasciate sgonfie. In un sistema che punta solo a ridurre i costi per aumentare i profitti e abbassare i prezzi, il lavoro diventa inevitabilmente una variabile da sacrificare. Le persone non sono più considerate esseri umani con diritti e aspirazioni ma semplici “risorse” da sfruttare al minor costo possibile. Questo genera infelicità, perché il lavoro, oltre a essere fatica, è anche realizzazione, creatività e partecipazione alla costruzione del mondo. Privare le persone di un lavoro dignitoso significa privarle di una parte fondamentale della loro identità. La situazione è peggiorata con la globalizzazione e la quarta rivoluzione industriale. Becchetti sostiene che la concorrenza di un esercito di riserva globale composto da miliardi di lavoratori disposti a lavorare per salari bassissimi ha compresso i redditi dei lavoratori meno qualificati nei paesi avanzati mentre l’automazione sta eliminando milioni di posti di lavoro ripetitivi, lasciando indietro chi non ha competenze specializzate. Il risultato è un aumento delle disuguaglianze, ben rappresentato dal celebre “grafico a forma di elefante” di Branko Milanovic che mostra come, negli ultimi vent’anni:  

1. I poveri globali (soprattutto in Africa e in alcune zone dell’Asia) siano rimasti intrappolati nell’indigenza, spesso sfruttati come manodopera a basso costo.  

2. Le classi medie emergenti (in Cina, India e America Latina) abbiano visto migliorare significativamente le loro condizioni, grazie alla crescita economica dei loro paesi.  

3. Le classi medio-basse dei paesi ricchi (come Italia, Stati Uniti e Europa occidentale) abbiano subito un arretramento, con salari stagnanti e prospettive sempre più incerte.  

4. I più ricchi (lavoratori altamente qualificati, superstar e detentori di capitale) abbiano invece visto i loro redditi crescere in modo esponenziale.  

Questa polarizzazione spiega il malcontento crescente nei paesi avanzati, dove la rabbia sociale non è solo il frutto di fake news o manipolazione politica ma di un reale peggioramento delle condizioni di vita. Negli Stati Uniti, ad esempio, si è diffusa un’epidemia di “morti per disperazione” (despair deaths) tra i lavoratori poco istruiti e marginalizzati, segno di un sistema che sta fallendo nel garantire benessere diffuso. Per riparare questa “macchina impazzita”, occorre riequilibrare le sue ruote dice Becchetti in una prospettiva evidentemente riformista: non basta più puntare solo su profitti e consumi ma bisogna ridare centralità alla dignità del lavoro e alla sostenibilità ambientale. Servono politiche che proteggano i lavoratori dalla concorrenza sleale, investano nella formazione per l’era digitale e riducano le disuguaglianze attraverso una fiscalità più progressiva e misure di redistribuzione. Solo così si potrà evitare che la globalizzazione diventi insostenibile, non solo economicamente ma anche socialmente e politicamente. La sfida è trovare un nuovo modello di sviluppo che unisca efficienza economica e giustizia sociale perché un sistema che lascia indietro milioni di persone è ingiusto e destinato all’autodistruzione. Su questi temi Papa Francesco ha trovato delle sponde importanti nei movimenti e nei sindacati. Nel suo discorso del 28 ottobre 2014 ai movimenti popolari, Francesco condanna senza mezzi termini le “promesse illusorie” con cui si cerca di placare la povertà senza affrontarne le cause profonde. I poveri, dice, non vogliono essere tranquillizzati con aiuti occasionali o ridotti a mere statistiche nelle politiche assistenziali ma chiedono di essere protagonisti del loro riscatto. Organizzati in movimenti, essi lottano per la terra, la casa e il lavoro, diritti che la Chiesa definisce “sacri” e che oggi sono sempre più negati da un sistema economico che antepone il profitto alla persona. La vera solidarietà, spiega Francesco, non è un gesto di carità sporadico ma un impegno concreto a trasformare le strutture ingiuste che generano disuguaglianza, sfruttamento e emarginazione. Particolarmente toccante è la sua denuncia delle condizioni dei contadini, strappati dalle loro terre a causa dell’accaparramento di suoli, della deforestazione e dell’inquinamento. Francesco ricorda che Dio ha affidato all’uomo il compito di custodire la terra, non di saccheggiarla, eppure oggi milioni di persone soffrono la fame mentre tonnellate di cibo vengono sprecate, in quello che il Papa definisce un “crimine” inaccettabile. Allo stesso modo, critica ferocemente la speculazione finanziaria che condiziona i prezzi degli alimenti, trattandoli come merci e non come beni essenziali per la vita. Sul tema della casa Francesco usa parole durissime contro gli sgomberi forzati, paragonandoli alle distruzioni della guerra e contro l’ipocrisia di chi definisce i senzatetto con eleganti eufemismi come “senza fissa dimora”, nascondendo così la cruda realtà dell’esclusione sociale. Le periferie delle grandi città, spesso abbandonate al degrado, sono invece, per il Papa, luoghi dove resistono valori autentici di comunità e solidarietà, oggi dimenticati dai centri del potere economico. Quanto al lavoro, Francesco condanna senza appello un sistema che riduce l’uomo a merce, privandolo della dignità e dei diritti fondamentali. La disoccupazione giovanile, i contratti precari, la mancanza di tutele per i lavoratori più umili sono, per lui, il frutto avvelenato di un’economia che adora il denaro invece dell’uomo. Tuttavia osserva con speranza, proprio tra gli esclusi, i cartoneros, i venditori ambulanti, i contadini, gli operai delle fabbriche recuperate, la nascita di forme di resistenza creativa, un’economia popolare che dimostra come un’alternativa sia possibile. Nel suo intervento in una storica udienza con la CGIL nel 2022 Francesco torna su questi temi con rinnovata urgenza, denunciando le morti sul lavoro, ancora troppe e spesso dimenticate, e lo sfruttamento disumano di braccianti agricoli e operai, costretti a turni massacranti e paghe da fame. Critica con forza la disparità di genere, “perché una donna deve guadagnare meno di un uomo?”, e la precarietà che impedisce ai giovani di costruirsi un futuro. Il sindacato, dice, deve essere “voce di chi non ha voce”, lottando non solo per i propri iscritti ma per tutti gli ultimi, compresi i migranti e i disoccupati che hanno perso ogni fiducia nelle istituzioni. Un filo rosso lega questi discorsi: la condanna di un sistema che globalizza l’indifferenza e rende il mondo “orfano” dimenticando Dio, unico fondamento della vera fraternità. Francesco invita a una rivoluzione pacifica ma radicale che ponga nuovamente l’uomo al centro, ispirandosi al Vangelo e alla Dottrina Sociale della Chiesa. La strada da percorrere è quella delle Beatitudini, dove gli ultimi saranno i primi, e quella del Giudizio finale di Matteo 25, in cui Dio chiederà conto di come abbiamo amato i più poveri. Solo così, afferma il Papa, potremo costruire una pace duratura, riconciliandoci con la natura e con noi stessi. 

4. Dalla parte dei migranti

Riprendendo il libro di Becchetti, aggiungendo anche interventi del Papa, come la sua introduzione al testo di Luca Casarini La cospirazione del bene, o interventi del cappellano dell’ONG Mediterranea don Mattia Ferrari possiamo affermare che il pensiero di Papa Francesco sulle migrazioni costituisce un corpus dottrinale tanto radicale nella sua ispirazione evangelica quanto sofisticato nella sua applicazione politica, un equilibrio delicato tra l’utopia cristiana e il realismo pastorale che rappresenta forse uno degli aspetti più originali del suo magistero. Partendo dall’indiscutibile dato biblico, quel filo rosso che dall’Antico al Nuovo Testamento pone sistematicamente al centro lo straniero, l’orfano e la vedova come figure privilegiate della rivelazione divina, Bergoglio sviluppa una teologia dell’accoglienza che trova il suo apice nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo, dove l’ospitalità al forestiero diventa criterio escatologico di salvezza, senza alcuna clausola restrittiva o condizionamento burocratico. Quel “ero straniero e mi avete accolto” pronunciato da Cristo nel giudizio finale rappresenta una sfida diretta alla coscienza contemporanea, specialmente in un’epoca come la nostra dove, come nota acutamente Bergoglio, mentre abbiamo satelliti e droni capaci di localizzare ogni movimento, migliaia di esseri umani muoiono abbandonati nel Mediterraneo, diventato ormai un “cimitero liquido”, o nei deserti africani, in quello che costituisce uno dei più grandi scandali morali del nostro tempo. Tuttavia la vera originalità del pensiero bergogliano emerge quando questo imperativo categorico dell’accoglienza si scontra con le complesse dinamiche socio-politiche delle migrazioni contemporanee. Francesco elabora una distinzione cruciale tra l’atteggiamento personale del credente, chiamato ad una accoglienza incondizionata sull’esempio del Buon Samaritano, e l’approccio politico, dove entra in gioco il principio della prudenza. Prendendo spunto dalla parabola del costruttore stolto che non calcola bene le spese e lascia l’opera incompiuta, il Papa avverte del rischio concreto che politiche migratorie troppo avanzate rispetto alla sensibilità della popolazione possano innescare reazioni contrarie, portando al potere forze ancor più restrittive. È qui che Bergoglio dimostra una comprensione profonda delle dinamiche sociali. L’Italia avrebbe bisogno, per mere ragioni demografiche ed economiche, di almeno 50.000 nuovi ingressi annui (dato che potrebbe crescere esponenzialmente se si considerassero le pure esigenze umanitarie), la percezione pubblica, distorta da anni di narrazione securitaria, è quella di un'”invasione” già in atto. Questo paradosso, per cui paesi molto più poveri come il Libano (che ha accolto oltre un milione di siriani) o il Kenya mostrano una capacità di accoglienza proporzionalmente maggiore delle nazioni ricche, viene analizzato da Francesco con lucidità: il vero limite non è economico ma culturale, legato alla “sostenibilità sociale” dell’accoglienza. La soluzione proposta da Bergoglio è duplice e riflette la profondità del suo approccio. Accettare nel breve periodo un livello di ingressi compatibile con la tolleranza sociale, evitando così contraccolpi politici che porterebbero a regressioni ancora maggiori, e lavorare capillarmente sul piano educativo, comunicativo e pastorale per allargare progressivamente i confini di questa tolleranza. È una strategia di medio-lungo periodo che unisce la fermezza sui principi (come dimostrano le sue ripetute condanne ai respingimenti e alla “cultura dello scarto”) alla flessibilità tattica e che trova riscontro nell’operato concreto di realtà come Mediterranea Saving Humans, la cui azione nel Mediterraneo è stata più volte incoraggiata dal Pontefice. Don Mattia Ferrari, cappellano dell’organizzazione, ricorda come Francesco abbia sempre unito al magistero ufficiale gesti concreti: dalle visite a Lampedusa e Lesbo all’incontro con i sopravvissuti ai lager libici, fino all’istituzione di corridoi umanitari. La visione di Bergoglio raggiunge la sua piena maturità quando, superando la semplice contrapposizione tra accoglienza e rifiuto, propone un nuovo paradigma di “governance globale delle migrazioni” basato su quattro pilastri: ampliamento delle vie legali d’ingresso (per sottrarre migranti alle mani dei trafficanti), lotta alle cause profonde delle migrazioni forzate, coordinamento internazionale, e soprattutto quel cambio di mentalità che deve partire dalle comunità locali. In questo senso, l’insistenza sulla preghiera per i migranti (“voi pregate per loro o volete cacciarli?”) non è pia devozione ma strumento concreto per educare alla fraternità. Quel “Dio è con i migranti, non con chi li respinge” diventa così non solo un monito morale ma un criterio di discernimento politico. La vera prudenza non è chiudere i porti ma creare le condizioni perché l’accoglienza diventi socialmente sostenibile. Il pensiero di Francesco sulle migrazioni rappresenta forse il tentativo più ambizioso di conciliare l’universalismo cristiano con le complessità del mondo globale, una sintesi che, pur nella consapevolezza delle resistenze, non rinuncia a trasformare la realtà partendo dagli ultimi.

5. I grandi insegnamenti di Laudato Si’

Per indagare l’enciclica Laudato Si’, la più importante del pontificato di Papa Francesco, faremo riferimento al libro collettivo The Theological and Ecological Vision of Laudato Si’: Everything is Connected. Analizzando le prime due parti del libro possiamo concludere che siamo davanti una riflessione profonda e articolata sull’ecologia integrale, una visione che unisce in un unico sguardo la cura del creato, la giustizia sociale e la dimensione spirituale dell’esistenza. Questo approccio non si limita a una semplice analisi della crisi ambientale perché propone una trasformazione radicale del nostro modo di abitare il mondo, fondata su una comprensione filosofica, teologica ed etica della realtà come rete di relazioni interdipendenti. Al cuore di questa visione sta la dottrina della Creazione che vede ogni essere, dal più piccolo al più maestoso, come espressione dell’amore di Dio. Citando San Tommaso d’Aquino, Francesco ricorda che la diversità del creato riflette l’infinita ricchezza del Creatore: nessuna creatura è superflua e persino gli elementi naturali come il suolo, l’acqua e il vento sono carezze di Dio. Questa prospettiva affonda le sue radici nel mistero della Trinità, modello di relazioni perfette, dove l’armonia tra le Persone divine si riflette nell’ordine del creato. L’essere umano, chiamato a coltivare e custodire la terra, realizza la propria pienezza solo uscendo da sé stesso, entrando in relazione con Dio, con gli altri e con il mondo che lo circonda. Tuttavia questa visione non è esclusiva del cristianesimo. Francesco, seguendo l’esempio di Giovanni XXIII in Pacem in Terris, apre il dialogo a tutte le persone di buona volontà, riconoscendo che l’interconnessione è una verità accessibile anche alla ragione ed è presente in diverse tradizioni spirituali. L’enciclica cita il mistico musulmano Ali al-Khawas che invitava ad ascoltare il linguaggio divino nella natura e richiama il concetto buddhista di Pratītyasamutpāda, mostrando come diverse culture abbiano intuito l’unità profonda del reale. L’ecologia integrale non è però solo una teoria: è prima di tutto uno sguardo, un modo di abitare il mondo con attenzione serena, simile a quello di Gesù che contemplava i gigli del campo. Francesco evoca la figura di San Francesco d’Assisi, capace di vedere in ogni creatura un fratello o una sorella, e di rispondere con gratitudine e cura. Contro chi considera questa sensibilità un romanticismo ingenuo, il Papa insiste: è proprio l’amore per il creato a generare sobrietà e rispetto spontanei mentre la mentalità tecnocratica, che riduce la natura a oggetto di dominio, alimenta consumismo e sfruttamento. La scienza, in questo percorso, è un’alleata preziosa. Francesco riconosce i benefici del progresso tecnologico ma critica la deriva di una tecnoscienza chiusa in se stessa che ignora le conseguenze sistemiche delle sue applicazioni. L’ecologia integrale dialoga con la ricerca scientifica, come dimostrano i richiami ai dati sul cambiamento climatico o alla perdita di biodiversità, ma la supera, integrandola in una visione più ampia che include la fede e l’etica. Sul piano pratico l’ecologia integrale si traduce in un impegno concreto per la giustizia. Francesco denuncia le ingiustizie sociali legate alla crisi ecologica: i poveri, che dipendono direttamente da ecosistemi minacciati, sono i primi a subire gli effetti di siccità, inquinamento o migrazioni forzate. Il legame tra ecologia e giustizia va oltre. L’indifferenza verso lo scarto dei più vulnerabili ha la stessa radice dello sfruttamento del pianeta. Il bene comune, pilastro della Dottrina Sociale della Chiesa, viene ripensato in chiave ecologica, includendo la salute degli ecosistemi e il futuro delle prossime generazioni. Ostacoli potenti si oppongono a questa conversione. L’economia globalizzata tratta il creato come una risorsa infinita, ignorando i costi ambientali. Il paradigma tecnocratico riduce la natura a materia da manipolare, spezzando il legame tra etica e tecnologia. Infine, vi è un limite percettivo: i danni ambientali spesso sfuggono alla nostra immediata percezione, rendendo difficile una risposta tempestiva. Laudato Si’ invita a una conversione integrale che parte dallo sguardo, imparare a vedere il mondo con gli occhi di Francesco d’Assisi, e si traduce in scelte politiche, economiche e personali. Questa conversione non è un’utopia bensì l’unica via per riconciliare l’umanità con il creato, in attesa di quel “cielo nuovo e terra nuova” promesso dalla Scrittura. Come ricorda il Papa, tutto è connesso. La cura per un fiume inquinato, la lotta alla povertà e la preghiera di lode hanno la stessa radice, cioè l’amore per il Dio che “ha riconciliato a sé tutte le cose”. La spiritualità proposta da Laudato Si’ è dunque una spiritualità incarnata che unisce contemplazione e azione, lode a Dio e impegno per la giustizia. Attraverso i sacramenti, la liturgia e la vita quotidiana, i cristiani sono chiamati a vivere questa ecologia integrale, trasformando la cura della casa comune in un atto di culto e di amore. Solo così potremo costruire un futuro in cui l’umanità, riconciliata con il creato, possa fiorire nella pienezza della vita donata da Dio. Nel saggio The option for the poor in Laudato Si’ : Connecting care of creation with care for the poor, contenuto sempre nello stesso libro, Maria Teresa Davila sostiene che nell’enciclica Laudato Si’ Papa Francesco pensa alla crisi ecologica non come ad un problema astratto ma come qualcosa che ha conseguenze concrete sulla vita delle persone, in particolare sui vulnerabili che subiscono per primi e più duramente gli effetti dell’inquinamento, dello sfruttamento delle risorse e dei cambiamenti climatici.  Un passaggio cruciale dell’enciclica afferma che il deterioramento dell’ambiente e della società colpisce soprattutto i più poveri, evidenziando come le catastrofi ambientali, come la crisi idrica di Flint, il disastro della diga in Minas Gerais o l’avvelenamento del fiume Elk, non siano mai neutrali perché colpiscono sistematicamente chi ha meno mezzi per difendersi. Questi esempi mostrano che l’accesso all’acqua pulita, all’aria sana e a un territorio non contaminato sta diventando un privilegio riservato a pochi mentre intere comunità, spesso indigene, nere o lavoratrici, vengono private di diritti fondamentali. Al cuore della riflessione di Francesco c’è l’opzione preferenziale per i poveri, un principio radicato nella Dottrina Sociale della Chiesa che, in Laudato Si’, diventa la chiave per interpretare la crisi ecologica. L’enciclica lega indissolubilmente la giustizia ambientale alla giustizia sociale, sostenendo che non si può parlare di cura del creato senza affrontare le disuguaglianze strutturali. Come già in Evangelii Gaudium, Francesco insiste sul fatto che l’indifferenza verso i poveri è un peccato grave e che la vera ecologia richiede solidarietà incarnata, cioè un impegno concreto che vada oltre l’elemosina per trasformare le strutture ingiuste. La crisi climatica, del resto, non è solo un problema tecnico essendo strettamente legata a conflitti globali. Francesco cita esplicitamente il legame tra siccità, migrazioni forzate e guerre, come nel caso della Siria, dove una prolungata carenza d’acqua ha contribuito all’instabilità sociale e alla nascita di conflitti. L’enciclica denuncia anche la violenza nascosta del modello economico dominante: l’esempio dell’industria della moda low-cost mostra come il consumo irresponsabile nei Paesi ricchi si traduca in sfruttamento di lavoratori, inquinamento di fiumi e distruzione di economie locali nel Sud del mondo. Il crollo del Rana Plaza in Bangladesh, dove morirono oltre 1.100 operai, è un simbolo di questa dinamica perversa. Francesco introduce anche il concetto di debito ecologico, sottolineando come i Paesi sviluppati abbiano storicamente sfruttato le risorse del Sud globale, lasciando in eredità inquinamento e povertà. Questo squilibrio si riflette anche nei negoziati internazionali sul clima, dove, come nota l’enciclica, le voci dei poveri sono spesso escluse perché i centri di potere sono lontani dalla loro realtà. La mancanza di contatto fisico con chi soffre, osserva Francesco, intorpidisce la coscienza e porta a soluzioni miopi che ignorano i più deboli. La risposta fornita da Laudato Si’ è una conversione ecologica integrale che unisca cambiamento personale e azione collettiva. Al centro c’è la rieducazione dei desideri. Francesco critica la cultura dello scarto e del consumo illimitato che ci ha resi incapaci di riconoscere i limiti e la sacralità del creato. Questa conversione non è solo individuale: deve tradursi in politiche concrete, come la regolamentazione delle multinazionali, la tutela dei beni comuni (come l’acqua, definita diritto umano fondamentale) e la lotta al razzismo ambientale, quel fenomeno per cui le comunità nere, indigene o povere sono esposte a livelli più alti di inquinamento. Tutto questo ci porta, con The economic vision of pope Francis di Anthony Annett, alla visione economica di Papa Francesco, delineata nell’enciclica Laudato Si’, che rappresenta una profonda riflessione sulle interconnessioni tra giustizia sociale, sostenibilità ambientale e modelli di sviluppo, radicata nella tradizione della Dottrina Sociale cattolica ma al tempo stesso innovativa nella sua capacità di affrontare le sfide del XXI secolo. Al cuore di questa visione c’è l’idea che l’economia debba servire l’uomo nella sua integralità, garantendo a tutti la possibilità di partecipare attivamente alla vita sociale e di beneficiare dei frutti del progresso, senza però sacrificare il creato, che ha un valore intrinseco e non è una semplice risorsa da sfruttare. Papa Francesco sottolinea come le crisi economiche, sociali e ambientali che affliggono il mondo contemporaneo siano profondamente legate tra loro e abbiano un’origine comune: un antropocentrismo distorto che pone l’individuo e i suoi interessi immediati al di sopra di ogni altra considerazione. Questo approccio, rafforzato dall’ideologia neoliberista, ha portato a un sistema economico basato sull’accumulo illimitato, sulla competizione sfrenata e su una visione utilitaristica della natura, considerata come un semplice strumento per massimizzare il profitto. Tale mentalità ha generato quella che il Papa definisce una cultura dello scarto, in cui non solo le risorse naturali vengono depredate senza riguardo per il futuro ma anche gli esseri umani, specie i più poveri e vulnerabili, sono trattati come meri oggetti di consumo, scartati quando non più utili al sistema. Contro questa deriva, Laudato Si’ propone una critica serrata all’economia neoclassica e al neoliberismo, smontandone i presupposti filosofici. Mentre il modello neoliberista si fonda sull’idea dell’homo economicus, un individuo autonomo, razionale e mosso esclusivamente dall’interesse personale, la Dottrina Sociale cattolica offre una visione alternativa che vede l’uomo come un “essere-in-relazione”, la cui realizzazione passa attraverso la solidarietà, la condivisione e la ricerca del bene comune. In questa prospettiva il mercato non può essere lasciato a se stesso ma deve essere regolato da principi etici che garantiscano una giusta distribuzione delle risorse, il rispetto per l’ambiente e la dignità del lavoro. I dati confermano le preoccupazioni di Papa Francesco. Nonostante i progressi tecnologici e l’enorme crescita economica globale, con un PIL mondiale oggi oltre 200 volte superiore a quello dell’inizio della Rivoluzione Industriale, le disuguaglianze continuano ad aumentare. Secondo Oxfam, l’1% più ricco della popolazione possiede più della metà della ricchezza globale ma quasi un miliardo di persone vive ancora in condizioni di povertà estrema. Nel frattempo il degrado ambientale avanza a ritmi allarmanti: l’inquinamento, il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità minacciano gli ecosistemi e le comunità più povere che dipendono direttamente dalle risorse naturali.  Papa Francesco non condanna il mercato in sé ma la sua “divinizzazione”, ovvero l’idea che il meccanismo della domanda e dell’offerta sia in grado di risolvere da solo ogni problema sociale e ambientale. Evidenzia come il capitalismo sfrenato abbia prodotto instabilità finanziaria, crisi ricorrenti (come quella del 2008) e un sistema in cui la finanza domina sull’economia reale, creando ricchezza per pochi a scapito del benessere collettivo. Inoltre, l’ossessione per la crescita illimitata ha portato a un modello di sviluppo insostenibile che ignora i limiti ecologici del pianeta e scarica i costi ambientali sulle generazioni future. La soluzione proposta da Laudato Si’ è lo sviluppo umano integrale e sostenibile, un modello che unisce la lotta alla povertà, la giustizia sociale e la tutela del creato. Questo richiede un cambio di paradigma: abbandonare l’idolatria del PIL e ripensare il progresso in termini di qualità della vita, equità e rispetto per l’ambiente. In concreto, Papa Francesco invita a politiche che promuovano lavoro dignitoso (anziché precario e malpagato), un’economia circolare che riduca gli sprechi e una transizione energetica verso fonti rinnovabili. Cruciale, in questa visione, è il ruolo delle istituzioni. I governi devono intervenire per correggere le storture del mercato, tassando i grandi capitali, regolando la finanza speculativa e investendo in servizi pubblici essenziali. Le imprese sono, invece, chiamate a una nobile vocazione: non più solo il profitto ma un impegno concreto per il bene comune, ad esempio attraverso scelte produttive sostenibili e il rifiuto di delocalizzazioni che sfruttano manodopera a basso costo. Infine Laudato Si’ lancia un appello alla responsabilità collettiva. Le sfide globali, dal riscaldamento climatico alle migrazioni, richiedono risposte coordinate, come gli Accordi di Parigi del 2015 o gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’ONU.

6. Guerra e capitalismo

Per i tempi che stiamo vivendo, crediamo sia importante analizzare anche il pensiero di Papa Francesco sulla guerra. Il pontefice, dicono Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi, ha collegato esplicitamente le guerre agli interessi economici e all’idolatria del denaro. In diverse occasioni ha definito la guerra una “pazzia” e un “suicidio dell’umanità” perché distrugge l’amore e uccide il cuore dell’uomo, oltre ad essere alimentata da odio, invidia e sete di potere. Durante un’omelia del 2 giugno 2013, celebrata per soldati feriti in missioni di pace, ha affermato che la guerra è un atto di fede nei soldi e negli idoli del potere che portano a sacrificare vite umane sull’altare del profitto. Ha ripreso le parole di Dio a Caino, “Dov’è tuo fratello?”, per interrogare l’umanità e soprattutto i potenti della terra sulle loro responsabilità nelle guerre che insanguinano il mondo. L’8 settembre 2013, dopo una veglia di preghiera per la pace in Siria, Francesco ha lanciato un accorato appello contro il business delle armi, denunciando i trafficanti di morte e i leader mondiali che giocano con la vita dei popoli. Ha sollevato un dubbio cruciale: molte guerre, presentate come necessarie per risolvere crisi politiche, sono in realtà conflitti commerciali per vendere armi in mercati illegali. Questa tesi è stata sostenuta anche dal vescovo Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all’ONU, che ha citato i dati del SIPRI: tra il 2008 e il 2012, le esportazioni di armi sono aumentate del 17%, con Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Germania, Israele e Cina come principali esportatori. E da allora la situazione è solo peggiorata, con una brusca accelerazione dopo l’invasione russa dell’Ucraina. In un’intervista del giugno 2014, Papa Francesco ha approfondito il legame tra economia e guerra, affermando che il sistema economico mondiale, basato sull’idolatria del denaro anziché sul bene dell’uomo, per sopravvivere ha bisogno di conflitti. Poiché una Terza Guerra Mondiale sarebbe insostenibile, si ricorre a guerre locali, che permettono di mantenere attivo il mercato degli armamenti. La famosa “terza guerra mondiale a pezzi”. Queste dichiarazioni hanno suscitato reazioni contrastanti. L’Economist ha paragonato le sue posizioni a quelle di Lenin, criticando l’accostamento tra capitalismo e guerra ma riconoscendo che Francesco pone domande fondamentali sull’ingiustizia di un sistema che sacrifica vite umane in nome del profitto. Durante il volo di ritorno dalla Corea nell’agosto 2014, Francesco è tornato sulla questione dei bombardamenti in Iraq contro l’ISIS. Pur ammettendo che è lecito fermare un aggressore ingiusto, ha insistito sul fatto che tale decisione non spetti a una singola nazione bensì alle Nazioni Unite, per evitare che interventi umanitari si trasformino in guerre di conquista. Ha inoltre condannato la crudeltà della guerra moderna che colpisce indiscriminatamente civili innocenti, bambini e donne, e ha sottolineato come dietro ai conflitti ci siano sempre interessi economici e geopolitici. Il 13 settembre 2014, commemorando il centenario della Prima Guerra Mondiale al sacrario di Redipuglia, Francesco ha ribadito con forza che la guerra è “una follia”, un processo di distruzione che annienta ciò che Dio ha creato di più prezioso: l’essere umano. Ha denunciato la logica perversa di chi cerca sviluppo attraverso la devastazione, guidato da avidità, intolleranza e ambizione di potere. Dietro ogni guerra, ha aggiunto, ci sono industrie belliche, piani geopolitici e affaristi che, nel loro cuore corrotto, ripetono le parole di Caino: “A me che importa?”. Francesco ha invitato l’umanità a convertirsi dall’indifferenza al pianto, a riconoscere le sofferenze delle vittime e a rifiutare la logica della violenza. In questa direzione si muove l’enciclica Fratelli Tutti, un’ampia riflessione sulla fraternità universale e sull’amicizia sociale. Fin dall’inizio il testo insiste su una visione dell’umanità unita da legami di solidarietà che travalicano le barriere geografiche, culturali e religiose. La figura di San Francesco d’ Assisi, e in particolare l’episodio dell’incontro con il sultano Malik-al-Kamil in Egitto durante le crociate, viene evocata per dimostrare la possibilità di relazioni profonde e pacifiche anche fra individui radicalmente diversi. Papa Francesco propone questo come modello per la società contemporanea, spesso frammentata e attraversata da tensioni. L’enciclica denuncia il fallimento di questo modello di capitalismo che, pur promettendo progresso, ha generato nuove forme di esclusione, individualismo e scarto. L’economia e la politica vengono criticamente esaminate per la loro subordinazione ai poteri transnazionali, la perdita della dimensione comunitaria e l’ossessione per l’efficienza e il profitto a scapito della dignità umana. L’invito è a superare una logica dello scontro e della divisione che si esprime in nazionalismi aggressivi, nuove colonizzazioni culturali e nella manipolazione del linguaggio democratico e dei diritti per giustificare forme di esclusione e dominio. Il Papa si sofferma anche sul degrado delle relazioni digitali: nonostante un mondo iperconnesso, le tecnologie producono isolamento, odio, aggressività e circuiti chiusi che rafforzano la polarizzazione. Le forme di comunicazione basate sull’emotività e sulla fretta impediscono l’ascolto autentico e il dialogo. L’uso delle reti sociali diventa spesso strumento per la diffusione di fake news, per la radicalizzazione ideologica e per la violenza verbale. Anche le religioni rischiano di essere pervertite, diventando veicolo di intolleranza e fanatismo, anziché di incontro e fraternità. Uno dei nodi centrali dell’enciclica è la parabola evangelica del buon samaritano, che diventa simbolo di un’etica della prossimità: non ci si può dire umani se si passa oltre di fronte al dolore dell’altro. L’invito a farsi prossimi non è solo un appello individuale ma anche un’esortazione sociale e politica a ricostruire legami di cura e responsabilità. Il samaritano, che si ferma e si prende cura del ferito, incarna la possibilità di una società più giusta e compassionevole. La parabola viene presentata come concreta alternativa ai modelli dominanti che producono feriti e poi li ignorano. La pandemia di Covid-19, scoppiata durante la stesura del testo, è assunta come rivelatrice delle fragilità e delle illusioni del mondo moderno: essa ha mostrato la vanità del mito dell’autosufficienza e l’urgenza di un “noi” globale. L’esperienza condivisa del dolore e della paura dovrebbe diventare occasione per immaginare un nuovo patto sociale, fondato sulla coscienza che nessuno si salva da solo. Il rischio, tuttavia, è che la crisi venga dimenticata e si torni a un consumismo ancor più vorace e a un individualismo ancor più chiuso. Il tema della migrazione è affrontato con toni molto netti. L’enciclica condanna sia i populismi che strumentalizzano le paure, sia il cinismo economico che ignora la sofferenza. I migranti non sono numeri ma persone e devono essere riconosciuti nella loro piena dignità, evitando tanto l’assimilazionismo forzato quanto l’abbandono. L’Europa è interpellata in modo speciale, essendo dotata di risorse morali e culturali per affrontare il fenomeno con equilibrio, giustizia e accoglienza. Papa Francesco propone un nuovo paradigma culturale, basato sull’incontro e sul dialogo. La fraternità non è un’emozione né un’utopia ma una costruzione quotidiana che richiede educazione, politiche inclusive, una riforma della cultura pubblica e un’etica della solidarietà. Infine l’enciclica afferma che la vera politica deve riscoprire la sua vocazione più alta: essere arte del bene comune. Solo una politica animata dall’amore sociale e dalla carità politica può affrontare le sfide globali come la povertà, le disuguaglianze, il degrado ambientale, la guerra.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *