Lo Stato: per la Critica della Scienza Politica

— LON – L’Ordinovista l’11 febbraio 2021

Con questo piccolo scritto programmatico (che non escludo potrà essere oggetto di revisione o addirittura di ripudio) intendo porre le basi di un progetto che ho da un po’ in mente, ma che non ho mai avuto l’occasione di formalizzare per testarne la possibilità, quello di una Critica della Scienza Politica in senso marxiano-hegeliano.

La questione dello Stato è da sempre stata un vero e proprio calvario per il marxismo. Grazie ai più recenti studi filologici sulla nuova edizione critica degli scritti di Marx ed Engels noi sappiamo che fra i progetti originari della critica dell’economia politica di Marx c’era la scrittura di un libro sullo Stato (il famoso quarto libro del piano dei sei libri). Progetto che per motivi di tempo e di carattere del barbuto di Treviri non è stato completato. Da allora i marxisti successivi hanno provato a dare una loro soluzione a questa mancanza.

Noi non sapremo mai cosa Marx avrebbe scritto e come lo avrebbe scritto nel suo libro-progetto, anche se è facilmente immaginabile che l’avrebbe inserito all’interno della critica dell’economia politica. Fuori dall’immaginazione la categoria di Stato appare: in testi giovanili (p. es. la Questione Ebraica), in cui egli ancora non aveva ancora elaborato il progetto di critica dell’economia politica; in testi riconducibili al progetto di critica dell’economia politica, ma “a sprazzi”, non dedotta in maniera coerente con il modo di procedere tipico della teoria marxiana (Darstellung); in testi più direttamente politici (p. es. La Guerra Civile in Francia), in cui la categoria è legata a un discorso contingente e non sistematico, quando proprio non utopico.

A questo punto le strade prese da diversi marxisti si divaricano. La prima, la più semplice, è quella di prendere tutti i passi in cui Marx tratta dello Stato, fare un bel collage e dire che quella è la teoria marxiana dello Stato e va seguita. Questo modo di procedere dottrinario è agli antipodi di qualsiasi discorso scientifico: non tiene conto dei ripensamenti teorici che Marx ha avuto nel corso della sua purtroppo per noi breve esistenza (65 anni sono pochi per il lavorone che questo grande uomo aveva in testa), e soprattutto non la espone in maniera sistematica. C’è poi chi si è posto il problema dello Stato, ma in maniera contingente, cioè all’interno o di una tattica di partito finalizzata alla presa del potere o come domanda teorica ma legata a una fase storico-empirica della società capitalistica (penso a Lenin o agli operaisti e post-operaisti). Qui rispetto ai primi c’è più avvedutezza teorica, ma mancano la sistematicità e l’universalità: non sempre è possibile “fare la storia” e, passata la situazione concreta, la teoria è, se non da buttare, almeno da ripensare. C’è poi il migliore di tutti questi, Antonio Gramsci. Nonostante egli scrivesse i Quaderni con la speranza di farci politica una volta uscito dal carcere (cosa impeditagli dalle condizioni pietose in cui è stato tenuto dalle bestie in camicia nera), la sua elaborazione concettuale eccede le fasi storiche della società capitalistica: è, come avrebbe detto lui, für ewig. Ciò che però non mi permette di accontentarmi di Gramsci, oltre ad alcune obiezioni rispetto ad alcuni concetti della sua filosofia della praxis, è la mancanza di sistematicità. Questa, ovviamente, non è una sciocca accusa al modo in cui sono scritti i Quaderni, ma riguarda piuttosto l’assenza in Gramsci della volontà di trattare il tema dello Stato (e della politica moderna) allo stesso modo epistemico-espositivo in cui Marx ha trattato del Capitale (e dell’economia moderna).

Vi ho parlato dei progetti degli altri, ora vi parlo del mio, anche se a questo punto non è difficile intuire cosa ho in testa. Io voglio scrivere una teoria dello Stato, ma voglio farlo in maniera diversa da come penso avrebbe fatto Marx e da come hanno fatto i marxisti a lui successivi. Innanzitutto non voglio scrivere una tattica, perché penso che in questo momento sarebbe poco utile. Il movimento comunista in questo momento è in fase di resistenza, ritirata e spero ricostruzione teorica (mentre per la ricostruzione politica siamo lontani anni luce). Per lo stesso motivo non voglio nemmeno scrivere una teoria politica, cioè una teoria-cuscinetto a basso livello di astrazione che si staglia sulla storia empirica, che si occupa in sostanza di una “fase” dell’ordine politico in cui viviamo. Questo non lo ha fatto nemmeno Marx con la sua critica dell’economia politica (nonostante tanti sedicenti marxisti pensino che egli abbia fatto esattamente questo, vedasi chi crede che la sua teoria sia un rispecchiamento del capitalismo inglese dell’Ottocento). Marx ha invece costruito dialetticamente una teoria ad alto livello di astrazione del modo di produzione capitalistico, che ne ha messo in evidenza le categorie fondamentali e il funzionamento.

Eccoci, quindi. È a questo che voglio dedicarmi, ma con un oggetto affine: il mio oggetto non è il modo di produzione capitalistico, ma l’ordine politico statuale. Quindi non mi dedicherò al solo Stato, ma a tutto il sistema della politica moderna. Intuizione al fondamento di questo interesse è che lo Stato è una forma specifica di comunità politica, non un universale astratto, proprio come il capitale è uno specifico rapporto sociale che non è sempre esistito. Perciò, per esempio, chi traduce Polis con Stato è tanto reo di anacronismo quanto chi afferma che la prima forma di Capitale è la mano dell’individuo-produttore. Questo tipo di prospettiva, ossia il voler costruire dialetticamente una teoria ad alto livello di astrazione dell’ordine politico statuale mettendone in evidenza le categorie fondamentali e il funzionamento, se non sussume quella della tattica e quella della teoria politica, ne dà però una robusta fondazione (come p. es. la teoria marxiana fornisce una robusta fondazione all’analisi dell’economia inglese dell’Ottocento). Ovviamente questa scienza non vuole essere alternativa all’elaborazione marxiana. Prese assieme, critica della scienza politica e critica dell’economia politica forniscono una critica a tutto tondo della società capitalistica. Marx però ha trattato la questione dello Stato all’interno della critica dell’economia politica, quindi utilizzando categorie essenzialmente economiche. Concetti come potere, egemonia, legittimazione ecc. non si deducono dal suo sistema. Io invece voglio occuparmi dello Stato all’interno della critica della scienza politica, sia per fondare in maniera adeguata questa scienza da troppo tempo vituperata dai marxisti economicisti e lasciata in mano agli avversari, sia perché credo che lo Stato non possa essere capito con il solo utilizzo di categorie essenzialmente economiche. Ciò fa sorgere almeno tre ordini di problemi.

Innanzitutto il rapporto della critica della scienza politica con la critica dell’economia politica. La critica della scienza politica è sì complementare, ma è subordinata o autonoma rispetto alla critica dell’economia politica? Io direi, con una formula approssimata, relativamente autonoma. Sicuramente, nella costruzione del sistema, si dovranno tenere in conto anche e almeno i presupposti concettuali della merce, in quanto è da questo tipo di società che si genera la politicità che dà vita all’ordine statuale. Detto ciò, le categorie utilizzate sono però autonome da quelle dell’economia politica e il ritmo dell’esposizione della critica della scienza politica non è determinato dal ritmo di quella del Capitale. Tenendo a mente ciò mi pare che si possa evitare lo scoglio dell’economicismo, che riduce la sovrastruttura a mera escrescenza della struttura non capendo la genesi concettuale né dell’una né dell’altra (forse sarebbe anche il caso di fare proprio come Gramsci e di superare questa metafora spaziale).

Altra questione riguarda il modo di ricerca. Si chiama critica della scienza politica, ma non credo che la ricerca possa essere fatta leggendo e studiando solamente autori di scienza politica. Essa purtroppo è una scienza relativamente giovane ed essenzialmente empirica, le cui concettualizzazioni rispondono più a problemi locali che a questioni di alto livello di astrazione. Dovrò allargare i miei orizzonti perlomeno anche alla filosofia politica (non escludo poi la sociologia politica e le materie giuridiche). Non solo Bobbio, Dahl, Pasquino e Sartori quindi, benvengano anche Schmitt, Gramsci, Foucault e Hegel. Su quest’ultimo in particolare ci sarebbero delle cose da dire. Una critica della scienza politica non può non confrontarsi con i suoi Lineamenti di Filosofia del Diritto, esposizione di tutta la sua concezione dello spirito oggettivo. In un certo senso, la Critica della Scienza Politica è una ripresa della marxiana Critica della Filosofia Hegeliana del Diritto Pubblico, ripresa che però tiene conto dei grandi risultati ottenuti dal Marx maturo. Forse una critica che si può fare ad Hegel risiede nel principio da egli individuato per la prosecuzione dell’esposizione del suo sistema, ossia la volontà libera. Altra critica la si può fare alla sua teoria della storia, molto più povera ed “empirica” rispetto a quella marxiana, perché priva della nozione di modo di produzione (capitalistico).

Terzo problema è il modo di esposizione, su cui non posso che essere breve. Io qui ho usato molte analogie (fare come Marx, capitale come Stato ecc.) ma le analogie devono restare tali senza allargarsi a pretesa di conoscenza. Nonostante io abbia già in mente alcuni sviluppi del sistema, ciò che mi manca per ora è il cominciamento, un principio, la “cellula politica” che renda possibile la costruzione dell’intero sistema. Senza questo, ciò che ho in testa fa bene per il momento a rimanere in testa. Leggendo Fineschi, un possibile cominciamento potrebbe essere la categoria di “persona”, ma per ora non ho ancora trovato il modo di andare avanti a partire da questa categoria, sempre che sia il giusto cominciamento. La risposta potrò trovarla solo nel modo di ricerca.

Bibliografia

  • Fineschi R., Un Nuovo Marx, Carocci, Roma, 2008

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