1. Introduzione
Il libro di Boris Kagarlitsky “L’impero della periferia. Storia critica della Russia dalle origini a Putin” ci permette di analizzare la Russia dall’angolazione della scuola dei sistemi-mondo. Una chiave di lettura che permette di fare piazza pulita della diatriba tra storici russi “occidentalisti” e slavofili”. Entrambi gli schieramenti concordano nel concepire la storia russa come isolata dal resto del mondo e indipendente dalla logica degli altri paesi.
I primi attribuiscono ciò ad una serie di circostanze fortuite che solo un governo illuminato può, operando le dovute rotture con il passato, superare.
I secondi invece esaltano la “peculiarità” della Russia e si sforzano di trovare elementi a supporto dell’esistenza di una civiltà “ortodossa” o “eurasiatica” contrapposta al resto del mondo.
Tra queste due alternative Kagarlitsky sceglie lo storico marxista Pokrovskij che nel primo quarto del XX secolo ha provato ad applicare creativamente il marxismo all’analisi della storia della Russia.
Fino ad allora “la tradizione storica russa è stata caratterizzata da un ingigantimento del ruolo dei fattori di politica estera, dalla sottovalutazione dei fattori economici esterni e da una comprensione estremamente debole del rapporto tra i primi e i secondi. Il tentativo di interpretare la storia di un qualsiasi Paese senza un legame con la storia dell’umanità nel suo complesso è destinato a fallire. Il tentativo di analizzare la storia russa come una narrazione indipendente e isolata può condurre a una competizione mitologica tra “occidentalisti” (convinti che tutte le disgrazie della Russia derivino da una mancanza di influenza occidentale) e “slavofili” (convinti che tutte le disgrazie derivino da un eccesso di tale influenza). Come siano effettivamente costruite le relazioni della Russia con il mondo esterno, quale sia la loro natura e quale la causa del loro incedere rimane per entrambe queste correnti un mistero mistico, che preferiscono superstiziosamente non sfiorare.” (Kagarlitsky 2023, p.24)
Pokrovskij si distanzia anche dal marxismo ortodosso dei comunisti russi che interpretano lo sviluppo economico in maniera indipendente dai processi mondiali e come una corsa in cui tutte le nazioni partono dallo stesso punto di partenza e si dirigono verso la stessa direzione.
Questo approccio sarà adottato dalla storiografia stalinista che interpreterà la storia russa come una lotta contro l’arretratezza di cui il partito comunista rappresenta la fase finale.
Pokrovskij sarà una delle tante vittime illustre dello stalinismo.
Boris Kagarlitsky utilizza altri due fondamentali punti di riferimento teorici per sviluppare la sua analisi della storia Russa: la teoria dei sistemi-mondo e i cicli di Kondrat’ev.
Proveremo a riassumere brevemente gli strumenti analitici offerti da Immanuel Wallerstein, uno degli esponenti di punta della teoria dei sistemi-mondo ampiamente citato da Kagarlitsky, e da Kondrat’ev.
2. Gli strumenti analitici
L’analisi del sistema-mondo di Immanuel Wallerstein si sofferma sulla lotta degli Stati semiperiferici per avanzare di posizione nel Sistema internazionale e, quindi, diventare Stati centrali. Wallerstein sostiene che il sistema mondiale moderno in cui viviamo ha le sue origini nel XVI secolo in alcune parti del continente europeo. Un tale sistema è caratterizzato dall’essere, e lo è sempre stato, un’economia-mondo. Un’economia-mondo è determinata dalla divisione internazionale del lavoro tra stati ma questo non significa che inglobi tutti gli stati del pianeta. Per esempio, l’economia-mondo capitalista non è nata globale, poiché al suo inizio ha raggiunto solo il continente europeo.
La divisione internazionale del lavoro è ciò che mantiene un sistema in cui non c’è unità politica e culturale. Tuttavia, fino ai giorni nostri, solo l’economia-mondo capitalista è riuscita a tenere uniti questi stati nel lungo periodo. Ciò è dovuto al fatto che il capitalismo cerca l’accumulazione infinita del capitale generando una continua espansione a differenza delle economie-mondo non capitaliste che, almeno quelle conosciute nella storia, finiscono per autodistruggersi o trasformarsi in imperi-mondo.
Un’economia-mondo e un sistema capitalistico procedono insieme. Poiché le economie-mondo mancano del cemento unificante di una struttura politica complessiva o di una cultura omogenea, ciò che le tiene insieme è l’efficacia della divisione del lavoro. E questa efficacia è una funzione della costante espansione della ricchezza creata da un sistema capitalistico. Fino all’epoca moderna, le economie-mondo che erano state formate si disgregavano o venivano trasformate manu militari in imperi-mondo.
(Wallerstein 2018, p.48)
L’infinita accumulazione del capitale, caratteristica dell’economia capitalista, è dovuta a un’istituzione: il mercato. Questo è composto da acquirenti e venditori su scala globale, quindi possiamo pensare a un mercato globale virtuale (con le sue barriere e imperfezioni) che funziona come una calamita per tutti gli acquirenti e venditori. Il campo magnetico che attrae tutti gli attori verso il magnete non è altro che la ricerca del profitto. Questo è un fattore politico costante che influenza la decisione di tutti gli attori globali, siano essi aziende, stati o cittadini. Considerando che tutti gli attori cercano di massimizzare i propri profitti, si può affermare che la ricerca del potere monopolistico è costante nel sistema. Tuttavia, il monopolio assoluto è molto difficile da conquistare. Una situazione di oligopolio è molto più frequente. Wallerstein la chiama quasi-monopolio.
I quasi-monopoli sono autodistruttivi, cioè hanno una vita utile, poiché l’obsolescenza dei loro prodotti o addirittura la loro imitazione da parte di un concorrente è inevitabile. Tuttavia, la loro durata è sufficiente per l’accumulazione del capitale necessario alla creazione di un nuovo prodotto, cioè un altro quasi-monopolio. Ciò fa sì che gli Stati che detengono questi quasi-monopoli rimangano in una posizione centrale nell’economia-mondo, poiché è in essi che si trovano i processi di produzione centrali. La tecnologia obsoleta, che diventa più competitiva, cioè quella che si espande ad altri concorrenti, perdendo quindi potere di monopolio generando pressioni per ridurre i costi nei paesi centrali, diventa per loro poco interessante, per cui si ha una riallocazione di queste industrie negli stati più deboli, dove i costi possono essere ridotti (grazie a salari più bassi, l’organizzazione sindacale disarticolata…), facendo prendere il via a processi produttivi periferici che determinato la natura periferica degli stati.
Wallerstein spiega questo movimento basandosi sui cicli di Kondrat’ev. Ci sono due fasi nell’economia capitalista, la fase ascendente, o fase A, e la fase discendente, chiamata fase B. Quest’ultima sarebbe la fase in cui si verifica l’aumento dei concorrenti e, quindi, finisce per generare stagnazione dalla rottura dei quasi-monopoli. Il ritorno alla fase A è possibile grazie al processo di innovazione con la creazione di una nuova linea di produzione che darebbe potere quasi-monopolistico.
I semi-monopoli, dunque, si auto-estinguono. Ma durano sufficientemente a lungo (diciamo trent’anni) da assicurare una considerevole accumulazione di capitale a coloro che li controllano. Quando un semi-monopolio cessa di esistere, i grandi accumulatori di capitale spostano semplicemente i loro capitali verso nuovi prodotti guida o verso nuove intere industrie guida. Il risultato è un ciclo di prodotti guida. I prodotti guida hanno vite moderatamente brevi, ma sono costantemente sostituiti da altre industrie guida. In questo modo il gioco continua. Quanto a quelle che erano un tempo industrie guida e che hanno perso il loro splendore, esse diventano sempre più “concorrenziali”, cioè sempre meno redditizie. E questo schema si ripete di continuo.
(Wallerstein 2018, p.52)
Il fatto che i grandi profitti siano il risultato di quasi-monopoli finisce per generare uno scambio ineguale nel commercio internazionale. Ciò genera l’aumento del divario tra i paesi semiperiferici o periferici e quelli centrali, poiché per gli Stati che non hanno processi produttivi centrali, i costi per stabilirli aumentano troppo, in quanto la loro accumulazione di capitale deriva da settori altamente competitivi, cioè il profitto disponibile è basso rispetto a quelli monopolistici.
D’altra parte, il mantenimento dei processi centrali genera superprofitti, il che rende l’accumulazione di capitale degli stati in cui questi segmenti si incontrano molto maggiore di quella di altri paesi. Pertanto, le loro capacità di sviluppo sono più ampie perché hanno più capitale da investire. È chiaro, quindi, che le capacità di sviluppo tecnologico sono condizionate dalla capacità di monopolizzare. Maggiore è il grado di monopolizzazione, maggiore è il grado di capitale accumulato disponibile per l’investimento. A causa della divisione internazionale del lavoro, l’accumulazione di capitale necessaria per l’installazione di filiere produttive che generano un alto valore aggiunto per i paesi periferici e semiperiferici diventa lontano dalle loro reali capacità.
Con il corso dello sviluppo capitalista, i processi centrali iniziano a richiedere più risorse, il che riduce le loro possibilità di essere implementati nella periferia del sistema.
Poiché la remuneratività è in relazione diretta al grado di monopolizzazione, ciò che essenzialmente intendiamo per processi di produzione centrali sono quelli controllati da semi-monopoli. I processi periferici sono dunque quelli realmente concorrenziali. Quando si realizza uno scambio, i prodotti concorrenziali si trovano in una posizione di debolezza e i prodotti semi-monopolizzati sono in posizione di forza. Il risultato è un costante flusso di plusvalore dai produttori di prodotti periferici ai produttori di prodotti centrali. Ciò è stato definito scambio ineguale.
(Wallerstein 2018, p.53)
I processi produttivi centrali tendono a raggrupparsi in pochi Stati, generalmente i più forti, ciò accade perché il mantenimento dei quasi-monopoli dipende spesso dal patrocinio di uno Stato forte.
L’analisi di Wallerstein cerca di concentrarsi sulle condizioni dei paesi semiperiferici, che presentano una commistione di processi produttivi centrali e periferici. La Russia è un paese semiperiferico perché, secondo l’autore, gli Stati centrali devono avere il seguente insieme di caratteristiche: tecnologia avanzata, alta redditività, alti salari e un parco industriale diversificato. Pertanto, si osserva che sebbene i paesi semiperiferici presentino alcune delle suddette caratteristiche, non le possiedono nella loro totalità.
Tuttavia, la Russia non rientra nella definizione di stati periferici, in quanto le caratteristiche elencate per la loro definizione non sono adatte alla sua caratterizzazione, che sono: basso sviluppo tecnologico, bassa redditività, bassi salari, debole parco industriale. Cioè la Russia non rientra perfettamente in nessuna delle definizioni, in questo modo Wallerstein etichetta questa tipologia di nazioni come stati semiperiferici, in altre parole sono stati che non presentano tutte le caratteristiche degli Stati Centrali e poche degli Stati Periferici, ma piuttosto, una miscela di entrambi.
Poiché i semi-monopoli dipendono dal sostegno di stati forti, sono in gran parte localizzati – giuridicamente, fisicamente e in termini di proprietà – all’interno di questi stati. Vi è dunque una conseguenza geografica della relazione centro-periferia. I processi centrali tendono a concentrarsi in pochi stati e a costituire la gran parte dell’attività di produzione in tali stati. I processi periferici tendono a disperdersi tra un grande numero di stati e a costituire la gran parte delle attività di produzione in questi stati. Dunque, per esigenze di brevità possiamo parlare di stati centrali e stati periferici, purché si tenga presente che si sta in realtà parlando di una relazione tra processi di produzione. Alcuni stati hanno una combinazione relativamente bilanciata di prodotti centrali e periferici. Possiamo definirli stati semiperiferici.
(Wallerstein 2018, p.54)
Secondo Wallerstein, gli Stati semiperiferici si trovano nella posizione peggiore nel sistema internazionale, poiché subiscono la pressione degli Stati forti mentre lottano per non cadere in una posizione periferica. Pertanto, intraprendono una lotta costante per raggiungere il centro del sistema. Poiché devono tenere conto di due “fronti nemici”, questi Stati hanno alcune peculiarità: sono “sfruttati” e “sfruttatori”. Di conseguenza, possono variare la loro forma di azione globale, nella misura in cui hanno la possibilità di utilizzare meccanismi per rivendicare maggiori concessioni nel commercio internazionale mentre impongono la loro volontà verso i più deboli.
Tenendo conto di questi fatti, l’autore sostiene che la concorrenza è diretta a paesi che si trovano nella condizione di semiperiferia, perché questi Stati, oltre a combattere su due fronti, competono ferocemente tra loro. Questo li rende grandi protezionisti mentre sono i principali destinatari della tecnologia obsoleta.
Gli stati semiperiferici, che hanno una combinazione relativamente bilanciata di processi produttivi si trovano nella situazione più difficile. Subendo la pressione degli stati centrali ed esercitando pressione sugli stati periferici, la loro maggiore preoccupazione è di evitare di scivolare nella periferia e di fare il possibile per salire verso il centro. Nessuna delle due cose è agevole, ed entrambe richiedono una considerevole interferenza dello stato con il mercato mondiale. Sono questi stati semiperiferici a proporre in maniera più aggressiva e pubblica politiche cosiddette protezionistiche. Sperano in tal modo di “proteggere” i loro processi produttivi dalla competizione delle imprese più forti all’esterno, e allo stesso tempo provano a migliorare l’efficienza delle imprese all’interno così da competere meglio nel mercato mondiale. Sono entusiasti destinatari della rilocalizzazione di quelli che sono in precedenza stati prodotti guida, che viene oggi definita come conseguimento dello “sviluppo economico”. In questo sforzo, i loro rivali non sono costituiti dagli stati centrali ma dagli altri stati semiperiferici, ugualmente desiderosi di essere destinatari di una rilocalizzazione che non può essere diretta nello stesso momento e con la stessa intensità verso tutti gli impazienti aspiranti.
(Wallerstein 2018, p. 55)
Per capire il collegamento tra queste tesi e Pokrovskij bisogna fare un passo indietro e partire da Marx e in particolare alla sua caduta tendenziale del saggio di profitto.
Sappiamo che ogni nuova generazione di tecnologia presuppone un passaggio dal lavoro vivo, che, di fatto, porta profitto, al lavoro già materializzato, cioè fisso. Le macchine stanno diventando sempre più costose, quindi è necessario investire sempre più denaro per poter sfruttare efficacemente il lavoro vivo e utilizzare questo lavoro a scopo di lucro (plusvalore).
Per Kagarlitsky il saggio di profitto tende a diminuire non solo per la dotazione tecnica delle imprese, ma semplicemente per le dinamiche del mercato stesso. All’inizio abbiamo un nuovo prodotto o un nuovo mercato, ciò comporta tassi di profitto molto alti. In un secondo momento la concorrenza aumenta in questo mercato o il mercato è saturo del nuovo prodotto e il saggio di profitto diminuisce. Ecco un dettaglio molto importante: è questa tendenza alla caduta del saggio di profitto, notata da Marx, che conduce il capitale continuamente sulla via dell’espansione esterna.
Rosa Luxemburg sviluppa queste riflessioni affermando che esiste una tendenza alla sovraccumulazione di capitale, cioè, il capitale si è accumulato in una quantità tale che non può essere investito con profitto semplicemente perché si innesca la contraddizione tra capitale e lavoro. Per ottenere il massimo profitto, il capitalista è costretto a ridurre il salario e con ciò uccide la propria domanda. E ancora, ogni singolo capitalista è interessato a salari più bassi ma i capitalisti, presi nella loro totalità, sono interessati a salari più alti. In parte queste contraddizioni erano già state eliminate alla fine dell’Ottocento, dopo la morte di Marx, attraverso l’espansione con l’acquisizione di nuove colonie e la creazione di nuovi mercati. Ma la situazione di sovraccumulazione di capitale, quando è eccessiva e non consente investimenti profittevoli, fa nascere una nuova crisi e la necessità di espandersi per trovare un impiego a questa sovraccumulazione di capitale. Il secondo punto sollevato da Rosa Luxemburg è che il capitale può sfruttare la produzione non capitalista. Questa idea è stata delineata in modo ancora più dettagliato, con molti riferimenti storici, nientemeno che da Mikhail Pokrovskij che intuì come il capitalismo sfruttasse forme di produzione non capitaliste. Per comprendere come, occorre tornare all’idea di Marx dell’accumulazione originaria del capitale. Per l’accumulazione originaria del capitale è necessario prendere denaro da qualche parte, cioè dalla produzione non capitalista. Tuttavia non è una tappa iniziale che non si ripeterà mai più nella storia ma qualcosa che si ripresenta costantemente nel capitalismo.
Quindi scopriamo che il lavoro non capitalista (lavoro non libero, o non organizzato secondo principi capitalisti), viene sfruttato dal capitale in modo più efficiente perché costa di meno. Un esempio è la schiavitù dei neri in America, o in generale nell’emisfero occidentale, compresi i Caraibi. La schiavitù dei neri non era affatto antica ma è stata generata dai nuovi rapporti di produzione capitalistici. Naturalmente, le piantagioni non erano un’impresa strettamente capitalista, perché non c’era lavoro salariato, cioè lo schema del modo di produzione capitalista non funziona qui, ma le risorse ottenute vengono investite sul mercato globale e quindi nella riproduzione del modo di produzione capitalista. Pokrovskij studiò la servitù della gleba russa che si sviluppò rapidamente con l’emergere delle relazioni capitaliste in Russia mentre il paese si inseriva nel mercato capitalista mondiale. Per Pokrovskij ci sono due tipi di capitale: commerciale e industriale. Senza capitale commerciale il capitale industriale non esisterebbe, perché il capitale commerciale pompa fondi che vengono poi investiti come capitale industriale. Tuttavia non è necessario per il capitale commerciale che ciò da cui trae profitto venga prodotto in maniera capitalista.
Paragonando la Russia all’Inghilterra, Pokrovskij vede l’Impero britannico come una “felice” combinazione di capitalismo industriale nelle metropoli e di capitalismo mercantile che “si è trasferito nelle colonie”. Questo idillio verrà interrotto poi solo dalla Rivoluzione e dalla Guerra d’Indipendenza in Nord America. In Russia, invece, ci fu un conflitto costante tra i due tipi di capitalismo, che si concluse, di norma, non a favore del capitalismo industriale. È facile notare che qui Pokrovskij segnala una delle principali differenze tra lo sviluppo del capitalismo del “centro” e della “periferia”. Uno dei principali vantaggi del “centro” è sempre consistito nella sua capacità di risolvere le proprie contraddizioni portandole “all’esterno”, cioè verso la “periferia”. Ciò che Pokrovskij percepisce come una “peculiarità inglese” è in realtà un modello storico generale.
(Kagarlitsky 2023, p.44)
Per Kagarlitsky quello russo è un tipo di sviluppo dipendente, cioè contraddistinto da una forte dipendenza da fonti esterne di capitale.
3. Alcuni esempi storici
1. Kagarlitsky inizia il suo lavoro studiando la nascita del primo stato russo. Fino agli anni ‘60 del IX secolo, per diversi secoli, tribù slave e ugrofinniche hanno vissuto nella pianura russa senza uno Stato. Perché proprio nel IX secolo la situazione è cambiata portando alla nascita della Rus’ di Kiev? Il motivo è da ricercare nella rotta “dai variaghi ai greci” che collegava il Mar Nero al Nord Europa attraverso rotte fluviali. Un’altra rotta fluviale, attraverso il Volga, collegava il Mar Caspio all’Europa. In questo modo le merci bizantine e persiane, convergendo sulla città di Novgorod, arrivavano nell’Europa Settentrionale.
In questa fase del Medioevo l’economia di sussistenza stava cedendo il passo ad un’economia basata sulle merci e le rotte fluviali assumevano un ruolo economico sempre più importante.
Le città russe approfittarono dei traffici tra questa nuova e dinamica area economica e la sviluppata Europa Meridionale ma all’inizio erano semplici piazze commerciali gestite da briganti e commercianti-soldati. Era un commercio brigantesco che veniva alimentato dai saccheggi e dai tributi riscossi sotto forma di pellicce di animali dalle tribù locali. Tuttavia non tutti i commercianti erano anche guerrieri come i russi o gli scandinavi. La necessità di garantire la sicurezza del commercio, proprio ed altrui, ha portato la nobilità di Novgorod a chiamare un re straniero, variago, come arbitro e garante della stabilità. Da questa scelta prese forma la Rus’ di Kiev e iniziò un processo di conquista di vasti territori della pianura russa con lo scopo di garantire la sicurezza del commercio.
2. All’epoca di Ivan il Terribile il capitale commerciale inglese era ostacolato dal monopolio spagnolo-portoghese nell’Atlantico e da quello tedesco sul Baltico. Aveva necessità di nuovi mercati e materie prime che poteva trovare in Russia. Nel paese gli inglesi stabilirono la Compagnia di Mosca, simile alle future Compagnie delle Indie Orientali e Occidentali, che portava con sé nuove attività produttive e tecnologie mentre inviava alla madrepatria materie prime strategiche. I mercanti inglesi, seguendo le regole del capitalismo mercantile che porta ad una posizione di forza nel mercato chi possiede maggiori risorse finanziarie, si trovano a competere con i più deboli mercanti russi. Tuttavia Ivan il Terribile aveva bisogno degli inglesi e delle loro armi per poter sbarazzarsi degli intermediari tedeschi delle città del Baltico come Narva e conquistare un accesso diretto ai mercati europei attraverso la guerra di Livonia.
Wallerstein sostiene che grazie a questa guerra la Russia non è stata coinvolta nell’economia mondiale europea garantendo al paese lo sviluppo di una borghesia nazionale e la successiva trasformazione in un paese semiperiferico.
Kagarlitsky non concorda con questa analisi affermando che questa guerra fu un tentativo della Russia di integrarsi nel sistema mondiale emergente come periferia.
Il commercio russo assomigliava sempre di più a quello di una colonia. Le somiglianze con le colonie inglesi in Nord America sono molte perché l’Inghilterra le fondò con lo scopo di sostituire o integrare i prodotti provenienti dalla Russia ma senza successo perché queste iniziarono a produrre ciò che era redditizio per loro e non per la madrepatria.
La Russia esportava materie prime e importava tecnologia. Nel mercato mondiale competeva con altri Paesi e territori che si trovavano alla periferia del sistema mondiale emergente. Questa combinazione di potere e vulnerabilità determinò un’inevitabile politica estera aggressiva della Moscovia, nonché i suoi successivi fallimenti. Quando Wallerstein conclude, paragonando la Russia alla Polonia, che Ivan il Terribile combatteva per evitare che la Polonia diventasse un’appendice del sistema mondiale europeo, si sbaglia di grosso. Lo Zar russo si sforzava di fare proprio il contrario, cercando senza successo di occupare nel sistema mondiale emergente lo stesso posto che la Polonia aveva occupato nel XVI – XVII secolo. (…) Contrariamente alla visione di Wallerstein, i circoli dirigenti russi non cercarono di opporsi all’espansione dell’Occidente, ma piuttosto di integrarsi nel sistema mondiale come periferia, ma alle proprie condizioni.
(Kagarlitsky 2023, p.156)
3. Lo spostamento delle rotte commerciali, prima nei secoli XII – XIII e poi nei secoli XVI – XVII, genera un ritardo nello sviluppo della Russia che non deriva dal suo isolamento rispetto all’Europa ma dai suoi legami sempre più forti con i paesi europei. Si tratta di uno sviluppo qualitativamente diverso, uno sviluppo periferico.
La colonizzazione dell’America porta alla creazione delle piantagioni degli schiavi. L’utilizzo degli schiavi nelle miniere consente ai paesi europei di ottenere materie prime coloniali a basso costo indispensabili per l’accumulazione originaria del capitale.
Nel XVII secolo la domanda di forniture russe cala leggermente e i prezzi diminuiscono. Le materie prime coloniali non sono sufficienti per soddisfare la crescente domanda e il calo dei prezzi spinge i coloni lontano dalla produzione di questi beni.
Nel frattempo emerge un nuovo mercato alimentare in Europa Occidentale che spinge l’Europa Orientale verso l’esportazione del grano.
Questi cambiamenti nell’economia-mondo capitalista spiegano la “seconda ondata di servitù della gleba” in Russia.
Lungi dall’essere un residuo del feudalesimo in via di superamento grazie alla progressiva affermazione del capitalismo e del lavoro salariato, l’uso del lavoro forzato era legato allo sviluppo periferico del paese e quindi agli interessi del capitale mercantile nazionale e straniero.
4. Per quanto riguarda lo sviluppo del capitalismo russo, è molto interessante l’analisi delle riforme di Witte e Stolypin.
La Russia della fine del XIX si trovava ad affrontare un problema che si sarebbe riproposto più volte nei paesi periferici nel XX secolo. “La creazione di un’industria moderna richiedeva subito un alto livello di accumulazione, mentre lo sviluppo “naturale” del capitalismo implicava una graduale redistribuzione delle risorse come era avvenuto in Occidente. I Paesi della “periferia” che avevano finanziato l’accumulazione nel “centro” con le proprie risorse, si trovarono improvvisamente a corto di denaro e una bilancia commerciale positiva non era sufficiente a risolvere il problema. Più l’industria cresceva, più si sentiva la carenza di investimenti di capitale. Il problema venne in parte risolto dagli investimenti pubblici.”
La combinazione tra formazione di relazioni economiche capitaliste e il ruolo attivo dello Stato che agisce “come motore, forza motrice e agente principale dello sviluppo” (Kagarlitsky 2023, p.365) è una caratteristica dello sviluppo di molti paesi periferici nel XX secolo.
In Occidente, in questo stesso periodo, c’era una crisi di sovraccumulazione che rendeva il credito a buon mercato e i proprietari non avevano modo di investire il proprio capitale in modo redditizio.
La Russia divenne una meta ambita per gli investitori occidentali grazie ai suoi alti tassi di profitto e alle commesse governative.
Il conte Witte, all’epoca il principale responsabile della politica economica dell’Impero russo, varò una riforma monetaria che trasformò il rublo in una delle divise più importanti d’Europa, diventando più costosa dell’oro in Occidente. L’obiettivo era attrarre capitali stranieri mantenendo la bilancia dei pagamenti attiva grazie alle esportazioni di grano.
Mentre la moneta si rafforzava, permettendo agli investitori stranieri di sostenere il costo del protezionismo russo importando a basso costo macchinari e utensili mentre il governo russo otteneva sempre più prestiti sui mercati finanziari, aumentava anche la spesa pubblica per la costruzione di infrastrutture, come le ferrovie che seguivano sempre gli interessi del capitale straniero in Russia, e di macchine utensili.
Approfittarono di questa situazione favorevole gli investitori francesi, con le loro risorse finanziarie, e belgi, giocando il ruolo di junior partner dei francesi ma portando con sé la tecnologia di uno dei paesi più industrializzati d’Europa.
Quindi, mentre all’epoca di Ivan il Terribile gli stranieri cercavano in Russia materie prime, alla fine dell’Ottocento cercavano tassi di profitto superiori a quelli europei. In pratica erano superprofitti coloniali garantiti, come nel caso delle ferrovie, dalle commesse statali.
I giganteschi prestiti presi dal governo russo sui mercati finanziari di Parigi e di altri Paesi avevano a che fare con i profitti degli imprenditori occidentali, quindi il debito pubblico cresceva, perché bisognava pagare enormi commesse governative, attirando capitali stranieri. Allo stesso tempo, era necessario mantenere un “rublo forte” senza tagliare i contratti governativi, e di conseguenza il governo doveva aumentare la pressione finanziaria, costringendo la popolazione a pagare per lo sviluppo. I contadini sovvenzionavano l’industria che veniva costruita con il pagamento di tasse all’erario. Poiché il denaro non era sufficiente, furono necessari nuovi prestiti. E così inevitabilmente la Russia doveva pagare due volte: i dividendi agli investitori stranieri e i debiti statali con cui erano stati finanziati questi profitti.
(Kagarlitsky 2023, p.378)
Queste riforme preparano la rivoluzione del 1905 mentre quelle di Stolypin quella del 1917.
Stolypin promosse una riforma di compromesso tra capitale industriale e commerciale, provando a creare un contadino ricco che fosse il motore dello sviluppo capitalistico delle campagne. I contadini avevano il diritto di lasciare la propria comunità per insediarsi in terreni liberi. Questa riforma venne realizzata in una campagna che non aveva subito, nei cinquant’anni dall’abolizione della servitù della gleba, quella trasformazione capitalista attesa. Anzi, la distruzione delle comunità contadine ha portato alla borghesizzazione e proletarizzazione di parte della popolazione rurale, con il secondo processo che procede in maniera più veloce del primo, come in tutti i paesi arretrati.
Questo portò all’aumento dei cittadini inattivi che non potevano essere assorbiti dal capitale urbano e rurale e frenò l’aumento dei salari a causa della nuova offerta di lavoro prodotta.
All’inizio del 1915, quando per la guerra ci fu una battuta d’arresto della riforma, il 30% dei contadini che avevano lasciato la comunità aveva venduto le proprie terre. In altre parole, invece di diventare contadini di tipo occidentale, diventarono operai, proletari rurali, Lumpenproletariat.
(Kagarlitsky 2023, p.400)
5. Con la rivoluzione del 1917 e la successiva nascita dell’URSS c’è un nuovo tentativo di modernizzazione.
Kagarlitsky spiega la modernizzazione sovietica con una metafora con protagonisti un cavallo, il paese periferico, un cavaliere, il paese centrale: “Il cavaliere e il cavallo arrivano allo stesso punto, verso la stessa meta, solo in stati diversi: il cavallo non può scegliere il suo obiettivo, né superare il cavaliere senza disarcionarlo. Ecco, la modernizzazione sovietica fu (…) essenzialmente un tentativo del cavallo di disarcionare il cavaliere, pur continuando a correre nella sua stessa direzione.” (Kagarlitsky 2023, p.421)
L’industria sovietica non serviva gli interessi dell’accumulazione di capitale in Occidente ma provava a produrre il capitale in proprio per recuperare il ritardo con i paesi Occidentali.
Inizialmente i bolscevichi non volevano fare a meno del mercato mondiale, semplicemente non volevano tornare ad occupare la posizione ricoperta dalla Russia.
Il mercato mondiale era fondamentale per acquisire le tecnologie per lo sviluppo industriale in cambio delle esportazioni di grano sovietico. Lo sganciamento dal mercato dei capitali permetteva di fermare il drenaggio di risorse dal Paese e concentrarle verso gli obiettivi principali della modernizzazione.
Lo sviluppo dell’industria sovietica doveva essere pagato dalle campagne. Tuttavia nel 1927 scoppiò una crisi di approvvigionamento dei cereali quando aumentarono i suoi prezzi sul mercato privato a causa delle politiche bolsceviche verso la campagna. I bolscevichi imponevano un prezzo di acquisto sempre più basso che spingeva i contadini verso coltivazioni più redditizie, generando una carenza di cibo nelle città ma anche di valuta essendo il grano il principale bene di esportazione sovietico.
Mentre il prezzo del grano aumentava sul mercato interno, diminuiva sul mercato estero decretando il fallimento della strategia dell’industrializzazione sovietica basata sulla sua esportazione.
I bolscevichi adottarono politiche di requisizione forzata del grano sempre più dure a partire dal 1928 mettendo a serio rischio la fiducia dei contadini nei loro confronti.
Le requisizioni, che hanno avuto un loro senso durante la fase della guerra civile, non potevano più essere replicate in tempo in pace.
Si rese necessario un controllo diretto, attraverso lo Stato, dell’agricoltura attraverso la liquidazione dei kulaki e la collettivizzazione delle campagne che permetteva per via amministrativa di prelevare il grano necessario aggirando il mercato.
Questa svolta venne accompagnata dalla Grande Depressione di cui i sovietici provarono ad approfittare per comprare sul mercato mondiale macchinari, attrezzature e metalli indispensabili per industrializzare il paese. Tuttavia i prezzi delle esportazioni sovietiche scesero più rapidamente dei prezzi dei macchinari importati.
L’URSS dovette quindi aumentare la gamma di beni esportati per compensare il calo dei prezzi del grano visto che il paese era sull’orlo dell’insolvenza nei confronti del debito estero e il piano quinquennale rischiava di fallire. Il paese riuscì a pagare i propri debiti utilizzando una combinazione di mobilitazione politica, incentivi materiali e repressione per poter ottenere le risorse necessarie all’esportazione. Gli acquisti di macchinari proseguirono superando gli obiettivi del piano quinquennale.
Dopo la Grande Depressione, fu il protezionismo trionfante in Occidente a costringere la Russia a sostituire le importazioni, essendo diventato più difficile ottenere valuta estera.
La leadership sovietica decise di non sprecare più valuta per acquistare macchinari che potevano essere prodotti in URSS. Si era prodotta una vera e propria disconnessione dal mercato mondiale con la creazione di un’economia chiusa come risultato della Grande Depressione a cui Kagarlitsky associa anche la definitiva affermazione dello stalinismo.
Questa nuova industria venne creata sulle basi della tecnologia più avanzata dell’epoca. Una volta saliti al potere i nazisti, i sovietici si orientarono verso gli USA per l’aggiornamento tecnologico delle proprie imprese.
A partire dagli anni ‘70 questo schema iniziò a scricchiolare con la strategia della compensazione. A causa delle mancate riforme del sistema sovietico, l’URSS trovò una via di fuga nella possibilità di vendere materie prime all’Europa Occidentale in cambio di investimenti, macchinari e tecnologie.
Insomma, l’URSS stava tornando ad occupare il posto della vecchia Russia nella divisione internazionale del lavoro.
Il processo è stato ovviamente accelerato dalla dissoluzione dell’URSS che ha prodotto la deindustrializzazione di molte regioni della Russia, coinvolgendo in particolare le attività ad alto contenuto tecnologico mentre cresceva la produzione di materie prime e prodotti semilavorati.
La leadership sovietica decise di non sprecare più valuta per acquistare macchinari che potevano essere prodotti in URSS. Si era prodotta una vera e propria disconnessione dal mercato mondiale con la creazione di un’economia chiusa come risultato della Grande Depressione a cui Kagarlitsky associa anche la definitiva affermazione dello stalinismo.
Questa nuova industria venne creata sulle basi della tecnologia più avanzata dell’epoca. Una volta saliti al potere i nazisti, i sovietici si orientarono verso gli USA per l’aggiornamento tecnologico delle proprie imprese.
A partire dagli anni ‘70 questo schema iniziò a scricchiolare con la strategia della compensazione. A causa delle mancate riforme del sistema sovietico, l’URSS trovò una via di fuga nella possibilità di vendere materie prime all’Europa Occidentale in cambio di investimenti, macchinari e tecnologie.
Insomma, l’URSS stava tornando ad occupare il posto della vecchia Russia nella divisione internazionale del lavoro.
Il processo è stato ovviamente accelerato dalla dissoluzione dell’URSS che ha prodotto la deindustrializzazione di molte regioni della Russia, coinvolgendo in particolare le attività ad alto contenuto tecnologico mentre cresceva la produzione di materie prime e prodotti semilavorati.
L’economia nazionale fu quasi interamente privatizzata e le imprese e il sottosuolo del Paese vennero venduti a sottocosto (a circa l’1,5% dei prezzi del mercato mondiale). (…) Gli autori del programma di riforme liberali nascosero semplicemente il fatto che sul mercato mondiale c’era richiesta sia dei prodotti delle imprese sia della loro tecnologia e che avevano ovviamente un costo completamente diverso. Questo fu il punto di partenza per i nuovi proprietari, che avevano raccolto il maggior numero di informazioni sull’economia nazionale. Non sorprende che, nel giro di pochi anni dalle privatizzazione, la capitalizzazione della maggior parte delle aziende aumentò di ottanta-cento volte, in un contesto di mancanza di nuovi investimenti, di contrazione della produttività del lavoro e di deprezzamento dei macchinari
(Kagarlitsky 2023, p.490)
Per avere una parvenza di legalità, queste operazioni dovevano essere effettuate con la cooperazione del FMI e delle istituzioni economiche occidentali. Non c’era bisogno di alcuna pressione esterna per effettuare le privatizzazioni. La classe dirigente russa aveva solo bisogno di una copertura legale e la certezza di entrare a far parte delle élite globali.
L’economia russa è così integrante del sistema mondiale post-URSS che rispondeva agli interessi delle aziende transnazionali che dominavano il mondo. Ovviamente nel ruolo di fornitore di materie prime e risorse finanziarie per l’Occidente.
Per concludere, è doveroso menzionare come si inserisce la figura di Putin in questo scenario.
Il suo progetto di “democrazia sovrana” prevede la fine del saccheggio indiscriminato delle risorse dello Stato da parte degli oligarchi. Erano necessari ordine e stabilità per consentire una gestione efficiente dei beni privatizzati. Allo stesso tempo si rafforzava la repressione del dissenso politico e la posizione della burocrazia statale per imporre regole alle multinazionali russe che nel frattempo erano nate.
Questo non è un fenomeno strano nel XXI secolo. In molti paesi periferici e semiperiferici sono nate multinazionali locali. Le multinazionali russe si sono espanse nei mercati occidentali, in particolare quello europeo, per fattori geografici, per mancanza di risorse umane, esperienza e tecnologie per produrre per il mercato interno ma soprattutto perché seguono le rotte delle materie prime dalla Russia.
Molte di queste aziende hanno una forte partecipazione statale ma non si può in alcun modo parlare di nazionalizzazione.
Il consiglio di amministrazione di Gazprom non solo era consapevole dei propri interessi aziendali, ma utilizzava anche i suoi legami con lo Stato per orientare la politica estera del Paese in modo vantaggioso per entrambi.
(Kagarlitsky 2023, p.521)
Kagarlitsky sostiene che la grande stabilità del regime di Putin sia frutto dei superprofitti accumulati con la vendita delle materie prima sul mercato globale. Questo ha permesso di accontentare con facilità tutti i gruppi della classe dominante russa in conflitto tra loro, di soddisfare gli appetiti della burocrazia russa e anche di aumentare i salari dei russi senza erodere i profitti delle imprese private.
Il libro è stato scritto prima dell’invasione dell’Ucraina ma nei suoi interventi più recenti Kagarlitsky sostiene che le cause della guerra risiedono nelle sempre maggiori contraddizioni interne al paese aumentate dopo la fase di boom delle materie prime sul mercato mondiale che ha contraddistinto la prima fase del regime di Putin. Il capo del Cremlino intende distogliere l’attenzione dai crescenti problemi socioeconomici, contrastare il suo declino elettorale e garantire l’estensione del suo mandato con questa guerra ancora in corso nel momento in cui è stata scritta questa recensione.
Bibliografia
B. Kagarlitsky, L’impero della periferia. Storia critica della Russia dalle origini a Putin, a cura di Anna Lavina e Yurii Colombo, Castelvecchi, 2023
I. Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemi-mondo, Asterios, 2018