Il diritto di fuga: l’analisi delle motivazioni soggettive dietro i processi migratori

  1. Introduzione

Il libro di Sandro Mezzadra Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione ha al suo cuore la fuga come categoria politica. A questo concetto si è sempre guardato con molto sospetto, stretto com’è tra opportunismo, paura, viltà ed è molto prossimo al tradimento. Al fuggiasco non interessa nulla del sacrificio, dell’abnegazione e la volontà di misurarsi con le difficoltà del presente per costruire un futuro collettivo. Non ha un senso del dovere e della responsabilità. Questo concetto ha anche una ramificazione nel nostro presente segnato dalla guerra che rende il termine fuga affine a quello della diserzione o, come nel caso delle manifestazione degli anni ‘60 contro la guerra in Vietnam, della disobbedienza civile. Mezzadra applica la fuga ai migranti, dove svolge due funzioni. La prima è l’emersione, in contrapposizione al migrante come esponente di una cultura, un’etnia, una comunità, dell’irriducibile singolarità di donne e uomini protagonisti delle migrazioni. In questo modo culture e comunità dei migranti possono essere intesi come specifiche costruzioni sociali e politiche sulla cui produzione e riproduzione possiamo interrogarci. La seconda funzione, a partire dall’enfasi posta sulla singolarità dei migranti, permette di analizzare i caratteri esemplari della loro condizione ed esperienza. Mezzadra parla di un punto di intersezione tra una potente tensione soggettiva di libertà e l’azione di barriere e confini associate a tecniche di potere che mostrano, attaccando il migrante, tutte le contraddizioni di un’epoca dove la libertà di movimento, celebrata come una grande conquista dell’Occidente, non vale per tutti. L’obiettivo di queste analisi è contrastare l’immagine della soggettività del migrante come un soggetto debole, colpito da fame, miseria e bisognoso di cure e assistenza. Bisogna superare le logiche paternalistiche che producono un migrante subalterno e senza chance di soggettivazione. Questo discorso non intende, però, né rimuovere le cause oggettive dietro i processi migratori, né negare le condizioni di deprivazione materiale e simbolica che caratterizzano i migranti. Inoltre Mezzadra non intende individuare nel migrante il nuovo mitico soggetto rivoluzionario. Quello che il libro intende ribadire, però, è la necessità di includere i migranti tra i protagonisti fondamentali di ogni movimento critico nei confronti del capitalismo.

2. Gli studi di Weber

Alla fine dell’Ottocento nelle campagne prussiane orientali i padroni iniziano a lanciare grida allarmate per la penuria di lavoratori, per la desertificazione e lo spopolamento della campagna causato dalla fuga dall’agricoltura di migliaia di uomini e donne diretti verso i distretti industriali occidentali. Questi timori sono costanti dagli anni Ottanta dell’Ottocento fino all’esplosione della Prima guerra mondiale e scandiscono i dibattiti interni alle organizzazioni che tutelavano gli interessi degli agrari e i rapporti con le amministrazioni periferiche e i ministeri. In questo contesto fa la sua comparsa un giovane Max Weber che per conto dell’Associazione per la politica sociale stava analizzando le condizioni dei lavoratori agricoli delle province prussiane orientali da due punti di vista. Il primo è ragionare sulle cause dietro la penuria di lavoratori, cioè le motivazioni che hanno spinto migliaia di contadini tedeschi ad abbandonare le loro terre per spingersi verso Ovest. La seconda riguarda la risposta al problema prodotta dallo Stato tedesco sotto la pressione dei grandi proprietari terrieri, cioè gli Junker. I confini tedeschi, dopo l’espulsione di masse di polacchi ed ebrei orientali dalla Germania, erano chiusi dal 1887 ma in questo nuovo scenario vennero parzialmente riaperti per garantire l’afflusso di lavoratori polacchi non prussiani stagionali. L’opinione pubblica nazionalista vedeva questi migranti come una minaccia per gli interessi nazionali tedeschi e da questa prospettiva partì l’analisi di Weber dei flussi migratori polacchi per fornire argomentazioni alla retorica nazionalista. Il periodo storico, inoltre, è molto complicato per la Germania. Nel 1888 muore l’Imperatore Guglielmo I e due anni dopo si dimette Bismarck chiudendo la fase della fondazione e dell’industrializzazione del paese. Contemporaneamente riprendono le lotte dei lavoratori tedeschi, specialmente dei minatori, spazzando via l’illusione di poter gestire la questione sociale attraverso la combinazione di repressione contro i socialisti e assicurazioni sociali. Negli anni successivi il conflitto sociale si inasprirà ulteriormente con la forte ascesa della socialdemocrazia e dei sindacati. Il momento più acuto di questo processo si ebbe con il grande sciopero dei portuali e dei marittimi di Amburgo tra il 1896 e il 1897. Le classi dominanti reagiscono a questa sfida proletaria non rinnovando le leggi contro i socialisti e con un nuovo corso nella politica sociale annunciato dal Cancelliere Leo von Caprivi e dall’Imperatore Guglielmo II. In questo contesto vanno inserite le ricerche di Weber, cioè la necessità di trovare risposte alle questioni che maggiormente stavano animando i dibattiti contemporanei sul futuro della Germania.

Come abbiamo spiegato altrove, lo sviluppo capitalistico della Germania ha mutato la natura del processo migratorio nel paese. Sé inizialmente le braccia tedesche erano dirette verso le Americhe, dalla prima metà degli anni Novanta dell’Ottocento esse sono sostituite dalle merci e presto il paese fu costretto, per soddisfare le necessità della produzione, ad importare forza lavoro dall’estero. Le migrazioni di tedeschi non si fermarono, ovviamente, ma cambiarono direzione dall’America ai centri industriali del paese, in particolare nel bacino carbo-siderurgico della Ruhr modificando in questo modo la composizione del proletariato tedesco. Weber non si sofferma sulla dimensione quantitativa del processo o sul potere di attrazione, tramite gli alti salari, esercitato dall’industria sui contadini tedeschi. Al centro della sua analisi c’è la motivazione soggettiva del migrante tedesco. Con questa base per la riflessione, i movimenti migratori possono essere intesi come movimenti sociali irriducibili ad una lettura che li presenta come una reazione automatica prodotta dall’azione di fattori oggettivi. I contadini tedeschi provengono da un assetto di rapporti sociali in crisi per cause economiche interne ma anche a causa di una richiesta di cambiamento di giurisdizione. Con questo termine viene identificato il rifiuto di massa del regime patriarcale vigente nelle campagne tedesche che porta alla fuga e alla sottrazione rispetto al potere dispotico del proprietario terriero. I migranti erano attratti da una vita priva di vincoli, cosa che si rivelò falsa, nella città rispetto ai rapporti patriarcali della campagna. Questo processo caratterizza le migrazioni come uno sciopero latente e l’inizio della mobilitazione per la lotta di classe. Una politicizzazione della forza lavoro confermata dal rifiuto degli Junker, che lamentavano l’assenza di forza lavoro, di assumere nuovamente i lavoratori di origine rurale di ritorno dalla città di cui temevano la politicizzazione e la riluttanza ad accettare la disciplina lavorativa. L’inchiesta, nota Weber, soffre però per l’unilateralità dei materiali a disposizione. Nei questionari alla sua base è presente solamente il punto di vista dei proprietari terrieri che prende la forma dell’espressione ideologica chiamata “interessi dell’agricoltura”, alla base di tutta la propaganda degli Junker. Bisogna indagare allora nel concreto la condizione dei lavoratori dell’agricoltura e per farlo bisogna partire dalla Arbeitsverfassung, ovvero quel piano intermedio in cui convergono la regolazione giuridica dei rapporti lavorativi, l’organizzazione tecnica del lavoro, la determinazione economica del lavoro, la dimensione in senso lato sociale dei rapporti tra padroni e lavoratori e quindi le famose componenti soggettive. Per studiare l’Arbeitsverfassung dei territori prussiani a est dell’Elba bisogna partire dall’editto del 1807 che abolisce la sudditanza originaria dando origine al processo di liberazione dei contadini. Su queste basi nasce l’Instverhaltnis, un istituto giuridico che parte dall’abolizione della servitù della gleba ma senza configurare un moderno rapporto di lavoro salariato. Si tratta di un contratto non sottoscritto con un singolo lavoratore ma con la sua famiglia totalmente in balia delle disposizioni personali del proprietario terriero che li metteva a lavorare nel proprio podere in cambio di una casa nella tenuta padronale, un orto, l’uso del pascolo per una determinata quantità di animali e una parte della molitura e della trebbiatura. Il compenso monetario era marginale nel bilancio familiare di questi contadini. Si tratta, quindi, di un rapporto patriarcale dispotico ma anche comunitario perché stringeva in un unico destino signore e lavoratori, radicati nella terra. Questa comunità viene ora distrutta sia dai comportamenti soggettivi dei lavoratori agricoli che da fattori economici. La concorrenza degli esportatori stranieri costringe gli Junker ad abbandonare la tradizionale rotazione delle colture e passare a forme di coltivazione intensiva della terra, come la barbabietola da zucchero di cui la Germania divenne il primo produttore mondiale. A questa trasformazione nella produzione si somma la meccanizzazione che rende alcune mansioni tradizionali obsolete e la differenziazione stagionale del fabbisogno di forza lavoro, più alto in estate. In questo modo assume un peso crescente il lavoro svolto dalla forza lavoro libera e migrante rispetto a quello svolto dai lavoratori stabili e che risiedono nel territorio dove lavorano. Affianco a questa analisi sulla trasformazione del lavoro tradizionale nelle campagne troviamo l’immagine proposta da Weber di uno scontro tra nazionalità in atto nei territori nord-orientali della Prussia. La stagionalizzazione del lavoro comporta l’affermazione di un flusso di migranti polacchi ma non solo. Con il fenomeno della Sachsengàngerei si assiste anche alla migrazione stagionale dei lavoratori tedeschi nelle regioni dove si coltiva la barbabietola da zucchero con forti motivazioni soggettive. Il lavoratore stagionale, infatti, accetta un lavoro molto duro perché circoscritto nel tempo e in terre lontane da quella d’origine per poter sottrarsi alla necessità di lavorare per un determinato lasso di tempo, vivendo dei risparmi accumulati anche al costo di ridurre il proprio standard di vita. Rispetto al lavoratore polacco, Weber fa emergere un problema di Kulturniveau che ha come primo indicatore il diverso regime nutrizionale rispetto al lavoratore tedesco. Weber sostiene che la trasformazione capitalistica del lavoro ha abbassato lo standard di vita dei lavoratori tramite la distruzione dell’economia indipendente dei contadini non proprietari, immiserendo la loro dieta a vantaggio del nomade polacco che ha un inferiore bisogno alimentare. In questo modo il polacco può affrontare meglio la concorrenza selvaggia sul mercato del lavoro minacciando la cultura superiore tedesca, costretta a soccombere e a scendere ad un gradino culturale inferiore per mettersi sullo stesso livello del lavoratore straniero. La soluzione a questo problema fu la conciliazione tra la formazione di una riserva di forza lavoro per le grandi imprese agrarie orientali e l’impossibilità per i lavoratori polacchi di integrarsi e assimilarsi nella società prussiana, infatti i lavoratori stranieri erano tenuti ad abbandonare la terra prussiana nei mesi invernali per impedire che vi mettessero radici.

Per Mezzadra ciò che è rilevante negli studi di Weber è l’attenzione posta alle motivazioni soggettive dei migranti che permette di configurare il fenomeno migratorio come un movimento sociale. All’origine del movimento migratorio c’è un gesto individuale di rifiuto, la rivendicazione di un diritto di secessione e di fuga dall’organizzazione del lavoro patriarcale vigente nei territori prussiani orientali che diventa un processo sociale nel momento in cui si presenta come fenomeno di massa. L’ipotesi dell’autore è che l’apologia della mobilità rivendicata e praticata dai migranti tedeschi e l’utilizzo della retorica nazionalista contro la stessa azione messa in campo dai polacchi siano parte di una dinamica storica strutturale che caratterizza lo sviluppo del capitalismo. Per confermare questa tesi Mezzadra scava nella storiografia moderna sulle migrazioni. Ad esempio in Saskia Sassen trova la conferma che l’Europa è sempre stato un continente di emigrazione di massa e i flussi migratori del lavoro, internazionali o interregionali, stagionali o stanziali, sono una componente strategica nella storia dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione europea. In mezzo ai flussi migratori troviamo gli apolidi e i rifugiati, pensiamo a quelli politici nati dopo i moti rivoluzionari del 1848. Migranti e rifugiati, giunti nel nuovo paese, finiscono per mescolarsi con la classe operaia ma in quanto stranieri finiscono per essere le vittime delle tecniche di governo e di controllo degli Stati europei in via di nazionalizzazione che generano processi di inclusione ed esclusione su basi nazionali. In Linebaugh troviamo l’analisi della genesi dei tratti dispotici della disciplina industriale lontano dalla rivoluzione industriale, nelle piantagioni coloniali dei Caraibi nel XVII secolo e nelle grandi navi transoceaniche della marina anglo-americana del secolo successivo. Si tratta di laboratori straordinari di standardizzazione e divisione tecnica del lavoro dove ad essere protagonista è un lavoratore collettivo multirazziale e cosmopolita, anti-autoritario e combattivo che anticipa le forme di lotta poi adottate dagli operai in fabbrica come lo sciopero, in inglese strike che deriva dalla decisione collettiva dei marinai inglesi di ammainare le vele delle loro navi per fermare il flusso del commercio e dell’accumulazione del capitale. Emerge così una cultura d’opposizione sostenuta da un immaginario di fuga alla base di una prassi di secessione democratico-radicale affine alle pratiche di lotta degli sfruttati moderni. Infine troviamo il monumentale lavoro di Yann Moulier Boutang che sostiene il legame tra pulsioni di fuga e dispotismo come elemento strutturale lungo tutta la storia del modo di produzione capitalistico. Per l’economista francese la fuga del lavoro dipendente, libero o non libero, è il problema e motore fondamentale dell’accumulazione capitalistica. I codici del lavoro, lo statuto del lavoro salariato, la contrattualizzazione dei rapporti di lavoro e persino la concorrenza capitalistica si spiegano con la ricerca del controllo della mobilità del lavoro e di garanzie ed equilibri contro la rottura unilaterale del rapporto di lavoro da parte del lavoratore dipendente. Il lavoro salariato libero, in questo schema teorico, non è più la norma progressivamente imposta dal capitalismo che piega alla propria razionalità economica e giuridica ogni forma di lavoro. Al suo posto troviamo il lavoro dipendente capace di ammettere al suo interno forme libere, semi-libere e non libere di lavoro. Anche la formazione del mercato libero del lavoro in Europa occidentale ha bisogno dell’intervento pubblico per governare la mobilità del lavoro. Per risolvere il problema delle defezioni e delle fughe dei lavoratori viene elaborata una legislazione sulla povertà per arginare e disciplinare la mobilità del lavoro. Questo problema del capitale spiega la tentazione autoritaria permanente che accompagna sempre lo sviluppo del mercato del lavoro dalla rivoluzione industriale all’epoca del welfare state. Infine, lo stesso rapporto salariale porta gli stigmi dell’imbrigliamento del lavoro rappresentato dall’instabile equilibrio tra la tendenza dei lavoratori a sottrarsi al comando capitalista rompendo il contratto di lavoro appena possibile e la necessità vitale per il capitale di garantirsi la loro dipendenza. Quindi, elemento essenziale del rapporto sociale capitalistico diventa la defezione anonima, individuale e collettiva attraverso la quale donne e uomini si sottraggono al regime distopico del lavoro dipendente. Senza questo elemento non è possibile comprendere la dinamicità dei regimi di accumulazione. Le migrazioni allora, finiscono da questa prospettiva di essere un fenomeno storico marginale per il funzionamento del capitalismo per diventare il paradigma delle tensioni e delle lotte attorno al controllo della mobilità del lavoro.

3. Cittadinanza e migranti

Le ambiguità presenti nell’affermazione del lavoro salariato libero che abbiamo analizzato si ripercuotono dentro la cittadinanza e nella sua relazione con i migranti. Non a caso il rapporto tra le forme della cittadinanza e il principio di mobilità con la dissoluzione dello status rappresentato dal contratto di lavoro è un punto fermo del discorso giuridico occidentale. Mezzadra si imbarca in un’analisi del rapporto tra cittadinanza, lavoro e migrazioni in Occidente. Per fare una simile operazione occorre ragionare politicamente sui processi migratori a partire dalle crisi, dalle dislocazioni e dalle tensioni che attraversano il concetto e la pratica istituzionale di cittadinanza. Queste sono causate dalle lotte dei movimenti e dalla ristrutturazione del capitalismo a cui è seguita la globalizzazione capace di impattare significativamente sulla cittadinanza e sul mercato del lavoro. In questo contesto è apparsa una rinnovata attenzione al movimento della cittadinanza, alle sue istanze soggettive e alle determinazioni conflittuali delle sintesi, sempre provvisorie, rappresentate in cristallizzazioni legislative e costituzionali.

La riflessione di Mezzadra prende le mosse dalla crisi della cittadinanza che da semplice criterio giuridico-formale tende a trasformarsi in un concetto denso di valenze al cui interno troviamo criteri che coinvolgono l’adesione soggettiva ad un ordinamento. La cittadinanza consente di analizzare il sistema politico ex parte populi dal momento in cui permette di privilegiare il duplice punto di vista della titolarità dei diritti e del loro godimento effettivo. In questo modo dimostra tutta la sua utilità analitica da tre prospettive: il raccordo tra la problematica del funzionamento delle istituzioni con quella della qualità della vita pubblica, l’analisi del rapporto tra universalismo dei diritti e il particolarismo dell’appartenenza e, infine, la possibilità di tematizzare le tensioni tra processi globali e identità locali. Il ragionamento sulla cittadinanza, però, non può ignorare una dimensione che assume sempre maggiore importanza, quella dell’esclusione che separa un dentro da un fuori. La presenza degli stranieri, infatti, costringe lo Stato a riflettere quotidianamente sui codici di inclusione all’interno dello spazio della cittadinanza e sulla regolazione dei meccanismi di esclusione. Questi processi prendono corpo nel lavoro delle norme costituzionali, delle leggi ordinarie, degli uffici amministrativi e nella concettualizzazione dell’appartenenza. La sanzione della forma specifica trovata dall’equilibrio tra universalismo dei diritti e particolarismo dell’appartenenza proprio della cittadinanza colpisce i corpi degli stranieri tramite l’azione della polizia di frontiera o i centri di detenzione per migranti in attesa di espulsione che caratterizza la gestione dei migranti in Europa. La questione dell’esclusione dei migranti dallo spazio giuridico, politico e simbolico costituito dai soggetti titolari pienamente dei diritti di cittadinanza ha una grande rilevanza teorica e pratica perché porta con sé la questione della naturalizzazione. Il tema è molto complesso perché, oltre ad essere negativamente influenzato da pratiche di discriminazione sociale e amministrative che ostacolano l’effettivo godimento dei diritti, se guardiamo dal basso il fenomeno noteremo come non sempre gli immigrati sono interessati alla naturalizzazione. Hanno principalmente interesse nei diritti connessi a quello di status di cittadino. Mezzadra sostiene che queste analisi alludono ad un’idea di cittadinanza non rigidamente perimetrata dallo Stato e in tal senso si lega al problema della doppia coscienza e del doppio spazio politico e culturale in cui vivono i migranti come cittadini di frontiera. Sono concetti che riprende da W.E.B Du Bois e dalle sue osservazioni sulla posizione degli afroamericani negli USA e la loro carica eversiva rispetto alla configurazione nazionale dello spazio politico statunitense. I migranti finiscono per essere all’origine di spazi transnazionali capaci di trasformare qualitativamente le connessioni e gli intrecci sociali tra la regione di provenienza e di arrivo, ponendosi tra di essere e sopra di esse. Si tratta del caso, ad esempio, del confine tra Messico e Stati Uniti reso poroso dal suo quotidiano attraversamento da parte dei migranti nonostante la sua militarizzazione. Dall’incrocio tra movimento delle popolazione e circolazione delle informazioni prendono forma nuovi etnorami globali. Un tessuto di esperienze cosmopolitiche, con i suoi frammenti di cultura etnica che appaiono in un contesto metropolitano cambiati di segno, capaci di contribuire alla ridefinizione dei significati di democrazia e cittadinanza. Prendendo le mosse da Benedict Anderson, si può affermare come la stessa immaginazione che ha prodotto le moderne comunità nazionali oggi lavora per la creazione di molteplici sfere pubbliche in diaspora che sono la base su cui può innestarsi un ordine politico post-nazionale. Mezzadra ci tiene a sottolineare che la tesi va relativizzata perché non sempre le diaspore hanno lavorato in questa direzione e fa l’esempio del legame tra diaspora dell’ex Jugoslavia e forme radicali di nazionalismo ma la direzione merita di essere seguita perché il tema della diaspora è collegato a quello della sospensione dell’identità. Questo elemento permette di generare una differenza rispetto sia alla madrepatria che alla nuova nazione di residenza. Proseguendo nel ragionamento l’autore analizza il rapporto tra cittadinanza e diritti. Vengono criticate le posizioni di chi sostiene stia emergendo un modello postnazionale di appartenenza a partire dai diritti umani riconosciuti e garantiti da organizzazioni come le Nazioni Uniti o dai trattati internazionali che starebbero sostituendo la cittadinanza come fonte dei diritti. Queste posizioni non fanno i conti con la persistente sovranità esercitata dagli Stati sui confini e con le difficoltà dei migranti a far valere i propri diritti anche nei paesi europei più tolleranti nei loro confronti. Senza contare che la loro condizione è strutturalmente precaria perché a rischio di espulsione. Chi possono trovare a loro fianco nelle loro lotte? Senz’altro non c’è più il movimento operaio organizzato che storicamente è stato un fondamentale vettore di socializzazione conflittuale dei lavoratori stranieri nei paesi di accoglienza. Il lavoro è stato trasformato dall’ascesa del postfordismo che ha messo in discussione il suo ruolo privilegiato come canale di accesso alla cittadinanza e ai diritti. Nel mondo del lavoro postfordista il migrante occupa una posizione contraddittoria poiché da un lato è oggetto di una piena valorizzazione della sua clandestinità nei lavori stagionali in agricoltura o nei servizi poveri mentre dall’altro lato subisce l’esistenza di forme di cittadinanza privatistiche dove il rapporto tra lavoratore e padrone comprende e annulla ogni dimensione pubblica, come nel caso delle PMI dei distretti industriali del Nord Italia. Mezzadra sostiene che una posizione lavorativa insicura, precaria e dove l’esercizio e la rivendicazione dei propri diritti è molto difficile non possa essere il canale privilegiato per accedere alla cittadinanza, sia in senso formale che materiale. Per questo è paradossale che mentre i governi di tutto l’Occidente parlano di morte del contratto di lavoro a tempo indeterminato, esso sia il prerequisito per i migranti per ottenere il permesso di soggiorno, cioè il diritto di avere diritti. Per Mezzadra questi elementi di realtà oggettiva devono spingerci a non trattare la cittadinanza come l’unico privilegio di status rimasto nel mondo contemporaneo. Per questo è fondamentale proporre un’analisi dei movimenti migratori a partire dalle domande di cittadinanza e soggettività che provengono da queste realtà. Da ciò ne consegue uno studio dal basso di questi movimenti che, pur non negando le cause oggettive, evidenzia le loro determinazioni soggettive e le domande di cui migranti sono portatori. I comportamenti di questi migranti sono unificati nel segno della rivendicazione e dell’esercizio del diritto di fuga dai fattori oggettivi. Concentrarci su questo aspetto consente di superare la distinzione tra migranti e profughi e di evidenziare la natura politica di molte questioni che ruotano intorno alle migrazioni, come, per esempio, un elemento caratterizzante della globalizzazione, ovvero la proliferazione e il riarmo dei confini contro i migranti in fuga mentre si abbattono le barriere alla circolazione di merci e capitali.

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