Qualche mese fa decisi di scrivere insieme al compagno Pupil un saggio sulla storia contemporanea della Birmania,su tutte le indicibili sofferenze che questo sconosciuto paese del Sud Est asiatico ha dovuto soffrire nel corso degli anni, convinti che sarebbe nata una nuova e migliore nazione con la vittoria di Aung San Suu Kyi. Purtroppo la svolta, oltre le considerazioni ideologiche che possono dividerci da Aung San Suu Kyi, verso una società più umana non è avvenuta, anzi il nuovo governo su molte tematiche si pone in continuità con la linea tenuta negli ultimi venti anni dalla giunta militare che incarcerò l’attuale presidente della Birmania.
Ciò che mi ha più deluso della linea politica portata avanti dal nuovo presidente è senza dubbio la repressione delle minoranze etniche del paese, un comportamento tipico della giunta militare che per tanti anni ha combattuto.
Così, nel corso di questi mesi, abbiamo assistito all’aumento costante della violenza da parte dell’esercito nei confronti delle minoranze etniche e religiose, in particolar modo i Rohingya che vivono nello stato di Arakan. Lo stato centrale accusa da anni questo popolo di essere solamente degli immigrati clandestini del Bangladesh, gli storici birmani ritengono che tale popolo e il nome con cui viene identificato nacque dopo la Seconda guerra mondiale a causa della migrazione di bengalesi avvenuta nel paese al tempo del dominio coloniale britannico dal Bangladesh. Altri storici, invece, affermano che la loro presenza nel paese è documentata a partire dal VIII secolo d.C. e che si sia rafforzata con la formazione dei primi regni musulmani nella regione intorno al 1430.
Lo scontro tra questa minoranza musulmana e lo stato centrale birmano,paese a netta maggioranza buddista,non è una questione sorta negli ultimi anni ma affonda le proprie radici alla fine del Settecento,quando i birmani invasero la regione spargendo sangue e distruzione ovunque. Il dominio coloniale britannico attenuò le tensioni,cercando di mediare e pacificare i conflitti tra le varie etnie del paese ma questo suo progetto venne sabotato dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Aung San, padre di Aung San Suu Kyi ed eroe dell’indipendenza del paese,s i pose in continuità con questa politica di mediazione e risoluzione dei conflitti etnici promossa dagli inglesi durante la loro dominazione coloniale, trasformando la Birmania in una federazione in cui tutte le etnie avevano pari diritti e doveri e possedevano la facoltà di separarsi eventualmente dalla federazione.
Tuttavia questo processo di integrazione e dialogo si dimostrò difficile e fragile, infatti scoppiarono molte rivolte pro-indipendenza dei Rohingya con la presenza di numerosi elementi di fondamentalismo religioso, rivolte che vennero represse dal generale Ne Win, che, dopo un periodo di transizione a seguito dell’uccisione di Aung sun, prese il potere con un colpo di stato nel 1962. La giunta militare, di cui abbiamo spiegato la natura e l’orientamento politico nel precedente lavoro sulla Birmania, perseguitò ogni minoranza etnica nel paese in nome di un forte nazionalismo birmano e ciò portò in un primo momento ad un loro esodo massiccio dal paese che poi si trasformò in una vera e propria guerriglia contro lo stato centrale per l’indipendenza di questi popoli. Questi movimenti guerriglieri hanno due forti epicentri, uno nello stato del Karen, che vede coinvolta una popolazione di origine tibetana contro lo stato birmano, e l’altro nello stato di Arkan con i Rohingya protagonisti. Tuttavia la loro transizione alla lotta armata è recente, frutto di una radicalizzazione del conflitto portata avanti dall’esercito birmano sia ai tempi della dittatura militare che oggi che sta preparando il terreno alla penetrazione del fondamentalismo islamico foraggiato a suon di petrodollari dall’Arabia Saudita, paese con forti interessi nella regione. Questo rischia di essere un ulteriore incentivo alla repressione di questo martoriato popolo che rischia di vedersi equiparato dallo stato birmano ad una quinta colonna del terrorismo islamico, come fanno intuire le recenti dichiarazioni di Aung San Suu Kyi.
L’atteggiamento di ostilità da parte dei buddisti nei confronti dei musulmani non riguarda solamente la Birmania, ma è un fenomeno che si sta espandendo in tutta la regione ed anche in paesi a netta maggioranza buddista come la Thailandia. Questo triste evolvere degli eventi in Birmania dimostra come, anche se finita la dittatura della giunta militare, la sua eredità politica pesa ancora enormemente sulla nuova classe dirigente birmana, ed emerge con tutta la sua forza nella linea politica del Premio Nobel birmano che dovrebbe, invece di porsi in continuità con il potere dei militari, riscoprire l’eredità politica del padre e cercare nuovamente di dialogare con tutte le etnie del paese per costruire una nuova Birmania, pacificata, in grado di affrontare la costruzione di una società più umana e capace di dare un futuro diverso a questa nazione martoriata.
Con la speranza che possa finire questa lunga notte della violenza, chiudo citando il poeta brasiliano Vinícius de Moraes:
«Nulla rinasce prima di finire. E il sole che spunta deve tramontare.»
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