La Vittoria e la Guerra

Tre testimonianze di donne che hanno combattuto la II Guerra Mondiale

In questo giorno 75 anni fa la Germania firmava la resa e per l’Armata Rossa ufficialmente la guerra finiva.

In questi anni una manovra politica e l’altra e la rivisitazione storica di quel che fu la guerra in Europa ed il ruolo sovietico e dei partigiani, l’unico modo degno che si ha per ricordare ciò che è stato è lasciare la parola a chi la storia l’ha vista. Voci di ogni tipo: dai soldati ai partigiani, dai tiratori scelti, ai medici fino ai cuochi, per sentire cosa ognuno ha pensato e subito, perché troppo facilmente ci si sta dimenticando di cosa significò la guerra umanamente per quei popoli, oltre le medaglie, oltre il rispetto istituzionale riservato ai veterani.

Oggi si festeggia la vittoria sulla Germania nazista, ma per molti non è stata la vera fine della guerra.
E non solo in quanto alcuni di loro dovettero tornare nuovamente sui campi di battaglia ad affrontare le bande di Stepan Bandera e simili, ma perché ciò che hanno vissuto non potevano dimenticarlo o superarlo.
Tornati a casa li aspettava un paese dilaniato e stremato. E soprattutto l’opinione della gente, i pregiudizi: questa in particolare fu la croce che le donne e ragazze che vissero al fronte dovettero portare. Molte cercarono di nascondere o non mostrare ciò che furono in guerra, nell’esercito, e chi invece non se ne vergognava non raramente veniva redarguita e criticata.

Quell’ampia categoria, quelle donne che in un modo o l’altro parteciparono alla guerra, nonostante avessero dovuto soffrire e faticare, forse anche più degli altri data la scarsa considerazione, hanno anche dovuto sopportare per anni il non essergli concessa una voce in capitolo. Ecco qui perciò tre interviste, di tre donne con ruoli diversi ed ugualmente fondamentali, estratte dal libro di Svetlana Aleksievič, La guerra non ha volto di donna, in cui la scrittrice raccoglie centinaia di testimonianze di ragazze e donne che parteciparono alla guerra, spinte solo dalla volontà, che fosse un ideale, la grinta giovanile o perché oramai si era perso tutto.

Decidere quali interviste tra le tante scegliere è difficile, se non sbagliato, in quanto ogni singolo pensiero di ogni singola persona che ha vissuto questo evento dovrebbe essere chiamato in causa.

«Una donna nella marina da guerra… Una cosa inammissibile, perfino innaturale. C’era la credenza che una donna sulla nave attirasse la malasorte. Sono nata vicino a Fastovo e le comari del nostro villaggio avevano canzonato mia madre finché non era vissuta: “Ma chi hai messo al mondo, una femmina o un maschio?” Ho scritto addirittura a Vorošilov per essere ammessa alla Scuola tecnica di artiglieria di Leningrado. Ed è stato unicamente grazie al suo interessamento personale che vi sono stata infine ammessa. Ero l’unica ragazza. Anche dopo che ho preso il diploma hanno cercato di destinarmi a un incarico in terraferma. Allora ho deciso di nascondere che ero una donna. Mi aiutava il cognome ucraino, ‘Rudenko’. Tuttavia la finzione non è durata a lungo.

Un giorno stavo redazzando insieme ad altri in coperta quando ho sentito un trambusto. Mi volto e vedo un marinaio che sta cercando di buttare a mare un gatto, capitato a bordo non si sa come. Risaliva probabilmente ai primi navigatori la superstizione che gatti e donne attirassero disgrazie in mare. Fatto sta che il marinaio ci si era messo d’impegno, ma l’animale non aveva intenzione di farsi gettare fuori bordo. Si esibiva in finte e piroette da fare invidia a un giocatore di calcio di classe internazionale. E da poppa a prua ridevano tutti. Ma nel momento in cui c’è mancato un soffio e il gatto è sembrato precipitare oltre la murata, per lo spavento mi è sfuggito uno strillo. Ed era evidentemente una nota talmente acuta, femminile che le risate degli uomini si sono subito interrotte. Sulla nave è calato il silenzio.

L’ha interrotto la voce del comandante: “Ufficiale di quarto! Abbiamo a bordo una donna?” “Negativo, compagno comandante!”. Ma poi è ricominciata l’agitazione: avevano imbarcato una donna.

… Sono stata la prima donna ufficiale di carriera della marina militare del nostro paese. Durante la guerra mi sono occupata degli armamenti delle navi e delle unità di fucilieri della marina. In un articolo apparso sulla stampa inglese si raccontava di una strana creatura – non si capiva se uomo o donna – tra gli effettivi della marina russa. E si pronosticava, comunque, che nessuno avrebbe voluto sposare quella ‘lady con la daga’. Non mi avrebbe sposata nessuno?! No, s’è sbagliato di grosso signor mio, un lui m’ha sposata, eccome, e non uno qualsiasi, ma il più bello degli ufficiali. Sono stata una moglie felice e lo sono rimasta. Sono stata una moglie, madre e nonna. Nonostante la perdita di mio marito, che non è tornato dalla guerra.

Quanto alla marina, l’ho sempre amata e sempre l’amerò…»

Taisija Petrovna Rudenko-Ševeleva, tenente colonnello a riposo, già capitano di marina e comandante di una compagnia degli equipaggi della flotta.

«[…] L’8 marzo del 1945… per noi donne un giorno speciale.

Era la nostra festa. Il tè, qualche cioccolatino recuperato chissa come… Poi le mie ragazze vanno fuori a sgranchirsi le gambe e ad un tratto vedono dei tedeschi sbucare dalla foresta, trascinando i mitra… sono feriti… Le mie ragazze li circondano. E io, in qualità di zampolit, redigo il mio bravo rapporto nel quale si riferisce che l’8 marzo le lavandaie della tale unità hanno preso prigionieri due tedeschi. Il giorno dopo avevamo una riunione dei comandanti e il capo dell’ufficio politico annuncia come prima cosa: “Be’, compagni, ho il piacere di comunicarvi una buona notizia, e cioè che la guerra non durerà ancora a lungo: ieri le lavandaie del 21° reparto di lavanderia da campo hanno preso prigionieri due tedeschi.” Tutti i presenti hanno applaudito.

Nel corso della guerra nessuna del nostro reparto era stata decorata, ma quando è finita mi hanno convocata e mi hanno detto: “Scelga due persone meritevoli di un riconoscimento”. Mi sono indignata. Ho preso la parola per dire che ero la commissaria del reparto lavanderia e che non ci si poteva immaginare che lavoro duro fosse quello, tant’è che a molte delle addette era venuta un’ernia e gli eczemi alle mani, e che si trattava di ragazze giovani, costrette a lavorare più delle macchine e dei trattori. Allora mi hanno detto: “Può presentare per domani una lista delle meritevoli, possiamo assegnare qualche decorazione in più”. E così, insieme al comandante del reparto, ho passato la notte a esaminare le ragazze. Molte di loro si sono viste conferire la medaglia ‘Per il coraggio’, altre ‘Per merito in battaglia’ e una addirittura ‘L’Ordine della Stella Rossa’. Era la migliore di tutte: quando le altre lavandaie erano allo stremo delle forze e quasi non riuscivano più a reggersi in piedi, lei continuava a lavare. Era una donna di mezz’età, la cui famiglia era stata completamente sterminata durante la guerra.

Quando è arrivato il momento di rimandare a casa le ragazze m’è venuta l’idea di far loro un qualche regalo. Provenivano tutte dalla Bielorussia e dall’Ucraina e tornando avrebbero trovato solo desolazione e macerie. Non potevo lasciarle partire a mani vuote. Nel villaggio tedesco dove eravamo acquartierate da ultimo c’era un laboratorio di sartoria e sono andata dare un’occhiata: per fortuna le macchine da cucire erano intatte, E cosi a ogni ragazza che ci lasciava abbiamo potuto offrire un dono. Ero contenta, felice. Era tutto quello che potevo fare per loro.
Il ritorno a casa: tutti noi lo desideriamo, ma al stesso ne avevamo paura. Nessuno poteva sapere cosa avrebbe trovato.»

Valentina Kuz’minična Bratčikova-Borščevskaja, tenente, commissario politico di un reparto di lavanderia e igiene

«Lo sapevamo… Tutti sapevano di dover vincere…
Poi si è pensato che si doveva abbandonare il proprio padre perché bisognava eseguire un ordine del Comitato distrettuale del Partito. Nessuno era stato costretto ad abbandonare il proprio padre o a eseguire degli incarichi. Avevamo deciso da soli di lottare.
Non ricordo che si sia diffuso del panico nella nostra famiglia. Il dolore era grande, certo, ma non avevamo paura, tutti credevano che la vittoria sarebbe stata nostra. Il primo giorno che i tedeschi sono entrati nel nostro villaggio, quella sera mio padre ha suonato con il violino l’Internazionale. Voleva reagire, protestare in qualche modo.

Erano trascorsi due tre mesi…
C’era un bambino ebreo… Un tedesco l’aveva legato alla sua bicicletta e lui gli correva dietro come un cagnolino: “Schnell! Schnell!”. Pedalava senza smettere di ridere. Era un giovane tedesco.
Presto gli è venuto a noia e, sceso dalla bicicletta, ha intimato al bambino: “Mettiti in ginocchio… Così, a quattro zampe… Striscia come un cagnolino… Salta… Huntik! Huntik!”
Ha lanciato in aria un bastone. “Prendilo!” Il ragazzino si è alzato in piedi ed è corso, riportando indietro il bastone tra le braccia. Il tedesco allora è andato su tutte le furie e cominciato a picchiarlo. A insultare. Gli ha mostrato come fare: “Sulle quattro zampe e riportamelo indietro, afferrandolo con i denti.”

Il ragazzino l’ha riportato indietro, tenendolo con i denti… Il tedesco ha continuato a giocare così con il ragazzino per un paio d’ore. E poi l’ha di nuovo legato alla bicicletta e insieme sono tornati indietro. Il bambino corre dietro a lui come un cagnolino… In direzione del ghetto…

E lei mi domanda come mai abbiamo cominciato a lottare, come mai ho imparato a sparare…»

Valentina Pavlovna Kožemjakina, partigiana

— Compagna Laura

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