Concetti Generali e Modelli
Praticamente ogni scritto di scienza politica o di diritto che abbia come tema il lobbying comincia mettendo in evidenza e attaccando la connotazione negativa che il termine “lobby” assume fra le classi subalterne e fra coloro che cercano di rappresentarle politicamente e mediaticamente. Per quanto questi scritti dicano la verità sull’odio che questo Paese nutre per le lobby, l’interesse che mi prefiggo in questo articolo non è quello di ergermi a giudice moralmente superiore, ma di capire perché in Italia si è sviluppato questo sentimento, di valutarne gli effetti e di proporre una soluzione. Mettetevi comodi e armatevi di pazienza, perché sarà un viaggio lungo.
Alcuni concetti fondamentali
Per iniziare è necessario partire dalle basi, in particolare dai concetti fondamentali della letteratura scientifica che si occupa di studiare le lobby. Il primo concetto che voglio mettere in chiaro è proprio quello di lobby, o gruppo di pressione. Una lobby è un gruppo di persone, fisiche o giuridiche, accomunate da un medesimo interesse che si pongono l’obiettivo di influenzare il decisore pubblico, in maniera diretta o indiretta, al fine di ottenere un vantaggio o evitare uno svantaggio di natura non necessariamente economica. Una lobby è diversa da un gruppo di interesse, siccome quest’ultimo è un semplice insieme di persone con un medesimo interesse, o che si riconoscono in un medesimo bisogno. Al gruppo di interesse mancano insomma la struttura e la volontà di influenza del decisore pubblico. Una lobby è diversa anche da un partito, e lo è per un motivo fondamentale: il partito mira a trasformare i suoi membri in decisori pubblici, cioè aspira alla gestione diretta del potere politico, mentre le lobby hanno di mira la semplice influenza sui decisori pubblici (mirano cioè a determinare il contenuto della loro agenda).
Le lobby non sono tutte uguali. Queste possono essere innanzitutto divise in due gruppi, in base alla relazione che l’associazione ha con i lobbisti. Esistono infatti i lobbisti conto terzi (le società di lobbying), che svolgono attività di pressione dietro specifico mandato, rappresentano una pluralità di interessi (non in contrapposizione) in modo professionale e si occupano di back e front office, monitoraggio, report sui provvedimenti, interlocuzione coi decisori e presidio dei corridoi decisionali. A differenza loro, i lobbisti in house svolgono attività di lobbying nell’ambito di una specifica azienda di cui rappresentano l’unico interesse. Questi ultimi hanno quindi una dimensione operativa più limitata e rappresentano interessi puntuali e specifici, mentre la loro attività riguarda soprattutto le relazioni esterne e il marketing.
Le lobby possono poi essere classificate in base agli interessi che rappresentano:
- Le lobby corporative rappresentano interessi collettivi di specifici settori produttivi o professionali (sindacati, imprese, ordini e professioni). I loro lobbisti operano generalmente all’interno di un’associazione di categoria, ma sono diversi da quelli in house perché non operano all’interno di una singola azienda e perché tutelano interessi collettivi. Inoltre la loro attività non va confusa con la concertazione (che riguarda invece proprio il processo decisionale, non la semplice pressione);
- Le lobby no profit, che tutelano interessi non economici. In merito alle tecniche che queste lobby potrebbero impiegare, vanno tenuti distinti il lobbying e l’advocacy, che invece è un’azione meno mirata, finalizzata a informare ed educare il decisore pubblico per fargli assumere una posizione;
- Le lobby istituzionali, i cui lobbisti rappresentano interessi generali per conto degli enti pubblici per cui lavorano. Possono agire verticalmente (nel caso in cui, operando in ordinamenti compositi quali federalisti o regionalisti, rappresentano ad un livello di governo centrale le istanze dei livelli di governo territoriale) o orizzontalmente (rappresentano interessi pubblici al medesimo livello di governo cui appartengono).
Rilevano, infine, altre due categorie. I lobbisti civici sono dei cittadini che senza essere remunerati individuano una problematica sociale e iniziano a interessarsene attivamente al fine di influenzare il decisore pubblico. La loro forza di negoziazione si basa sul riconoscimento o disconoscimento dell’azione politica del decisore, che potrà essere premiato alla successiva tornata elettorale dai cittadini. Quello dei lobbisti civici è un fenomeno che si è accresciuto a causa della crescente perdita di fiducia nelle istituzioni mista allo sviluppo delle nuove tecnologie. Ci sono poi i lobbisti indiretti, che non svolgono l’attività di lobbying come attività professionale, ma che riescono a incidere sul processo decisionale con la loro autorità (fondazioni politiche, think tank, giornalisti, avvocati, chiese).
Un altro concetto fondamentale è quello di decisore pubblico, con cui si designano tutti coloro che sono titolari di un potere autoritativo di portata generale. Anche i decisori pubblici non sono tutti uguali:
- I decisori politici sono tali per derivazione elettorale o per mandato di natura politica;
- I decisori non politici invece non ricoprono cariche elettive, ma per effetto della loro funzione hanno il potere di porre in essere atti imperativi di portata generale. I decisori non politici possono essere di nomina politica (membri degli staff o degli uffici collaborativi) o di nomina pubblica (dirigenti e funzionari che hanno l’incarico in virtù di processi di selezione trasparente, come i concorsi).
Fra i decisori rilevano poi i casi della magistratura (su cui non si può fare attività di lobbying, o meglio, su cui possono fare “lobbying” solo gli avvocati) e le autorità amministrative indipendenti, su cui fare lobbying non solo è possibile, ma se fatto con criterio compensa la loro estraneità al circuito democratico.
Il compito del decisore pubblico è quello di assicurare il soddisfacimento degli interessi collettivi assumendo decisioni nell’interesse generale. Il punto è come avviene questo processo, cioè qual è l’atteggiamento direi epistemico del decisore pubblico nei confronti delle parti sociali: immanenza o trascendenza.
Nella visione trascendente, la capacità di determinazione dell’interesse generale è tutta interna al decisore pubblico, in maniera immediata. Detta in un’altra maniera, il decisore pubblico si pensa come onnisciente in quanto legittimato da un’elezione o da una selezione rigorosa come il concorso pubblico, e non considerandosi manchevole di informazioni non ha bisogno della mediazione delle parti sociali per determinare l’interesse generale e assumere decisioni. In questo tipo di visione le lobby non possono che essere considerate come un fenomeno patologico che va eliminato, proibito. Un esempio concreto di ciò sono le idee di Le Chapelier, poi tradotte in legge nel 1791, secondo cui «Il doit sans doute être permis à tous les citoyens de s’assembler; mais il ne doit pas être permis aux citoyens de certaines professions de s’assembler pour leurs prétendus intérêts communs; il n’y a plus de corporation dans l’Etat; il n’y a plus que l’intérêt particulier de chaque individu, et l’intérêt général. Il n’est permis à personne d’inspirer aux citoyens un intérêt intermédiaire, de les séparer de la chose publique par un esprit de corporation.» («Deve essere senza dubbio consentito a tutti i cittadini di riunirsi; ma i cittadini di determinate professioni non dovrebbero potersi riunire per i loro cosiddetti interessi comuni; non c’è più una corporazione nello Stato; c’è solo l’interesse particolare di ogni individuo e l’interesse generale. A nessuno è permesso di ispirare nei cittadini un interesse intermedio e separarli dalla cosa pubblica con uno spirito di corporazione»). Sebbene nella formulazione generale del discorso egli avesse di mira ogni interesse intermedio (che con una forzatura retorica viene accostato dal deputato al ristabilimento delle corporazioni), ciò che allarmava Le Chapelier erano in particolare i movimenti para-sindacali, secondo lui lesivi della libertà d’impresa. Con la legge vennero perciò proibite, dal lato dei gruppi organizzati, le negoziazioni salariale e di prezzo, e da parte del decisore pubblico, di tenerne conto, di trattarci e di accogliere le loro petizioni.
Nella visione immanente invece, la determinazione dell’interesse generale si apre alla mediazione delle parti sociali. Il decisore pubblico, manchevole di informazioni, ascolta le parti sociali e per decidere opera una sintesi fra i diversi interessi particolari, sintesi di cui deve rendere conto e di cui si assume la responsabilità. Le lobby non sono intese come un elemento patologico, ma un elemento fisiologico della società moderna. Quindi il problema di chi ha questa visione si sposta dalla proibizione alla regolamentazione: vanno definite in maniera organica sia le aspettative delle lobby riguardo a ciò che il decisore pubblico può e deve fare, sia il modo in cui le lobby devono operare per rappresentare gli interessi, sia il modo in cui la procedura deve svolgersi (buon andamento della PA, imparzialità del decisore pubblico, pubblicità dei processi decisionali, uguaglianza formale dei diversi gruppi di pressione).
Modelli di regolamentazione e forma di governo associata
Petrillo (in Petrillo 2019), comparando la struttura legislativa dei diversi ordinamenti a livello mondiale in tema di lobbying, ha formulato una classificazione basata su tre modelli di regolamentazione:
- La regolamentazione-trasparenza, le cui norme sono finalizzate appunto a garantire la trasparenza del processo decisionale. Ciò viene fatto in due modi: prevedendo un obbligo di iscrizione a un Registro per chi esercita attività di lobbying; elaborando norme che impongono obblighi di rendicontazione (redditi percepiti e interessi culturali e sociali) ai decisori pubblici
- La regolamentazione-partecipazione, che assomma alle caratteristiche della regolamentazione-trasparenza delle norme volte a garantire la partecipazione dei portatori di interesse al processo decisionale
- La regolamentazione strisciante ad andamento schizofrenico, le cui caratteristiche sono: l’assenza di una legislazione organica del lobbying; un corpus normativo frammentato (“strisciante”) che prevede obblighi di trasparenza o anche diritti di partecipazione; una disapplicazione delle norme da parte delle stesse autorità che le hanno introdotte (“andamento schizofrenico”)
Vista l’importanza che ricoprono le lobby nei sistemi politici, Petrillo, rifacendosi alle classificazioni di scienza politica che mettono in evidenza il nesso funzionale fra sistema dei partiti e forma di governo, propone anche una classificazione basata sul nesso funzionale fra regolamentazione degli interessi e forma di governo. Abbiamo così tre tipi di forma di governo:
- A interessi trasparenti, il cui rapporto fra decisore pubblico e lobby è definito dalla regolamentazione-trasparenza. In questa forma di governo la questione fondamentale è la possibilità di ricostruire la filiera del processo decisionale, e ciò viene garantito, dal lato del decisore pubblico, con l’obbligo di registrazione dei suoi interessi e degli incontri, il divieto di regalie e di contribuzioni oltre un certo valore, norme sul conflitto di interessi e sul revolving door, e, dal lato dei lobbisti, limiti di finanziamento e trasparenza garantita da delle autorità indipendenti dal controllo politico aperte ai cittadini
- A interessi garantiti, il cui rapporto fra decisore pubblico e lobby è definito dalla regolamentazione-partecipazione. In questa forma di governo, oltre alla ricostruzione della filiera del processo decisionale (di cui conserva le norme), è considerata di fondamentale importanza la biunivocità, cioè la possibilità per le lobby di determinare l’indirizzo politico del decisore pubblico attraverso norme che codificano procedure di confronto, consultazione e partecipazione
- A interessi oscuri, il cui rapporto fra decisore pubblico e lobby è definito dall’assenza di regolamentazione, o dalla regolamentazione strisciante ad andamento schizofrenico. Questa forma di governo è caratterizzata dall’impossibilità di ricostruire per bene la filiera del processo decisionale e le fonti di finanziamento della politica a causa di norme assenti, frammentate e disapplicate.
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea
Sebbene questo scritto sia dedicato all’Italia, prima di analizzare il caso italiano ho voluto riportare, per permettere un’interpretazione in chiave comparativa, altri due casi concreti di regolamentazione del lobbying. Ho scelto di trattare il caso degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, entrambi appartenenti al modello della regolamentazione-partecipazione, per diversi motivi. Innanzitutto, non ho trovato utile trattare casi della regolamentazione trasparenza, perché il tipo di legislazione che si può trovare all’interno di questo modello è compresa anche all’interno della legislazione partecipazione. Il caso degli Stati Uniti e quello dell’Unione Europea poi, mi sono sembrati di speciale interesse. Gli USA infatti sono il rappresentante per eccellenza della regolamentazione-partecipazione, dato che sin dalla loro fondazione i decisori pubblici si sono posti il problema della rappresentanza degli interessi in termini fisiologici. L’UE è invece l’unione di cui il nostro Stato fa parte ed è anche l’arena in cui la maggior parte delle partite per il policymaking (con ricadute nazionali) vengono giocate, perciò ho ritenuto fondamentale conoscerne perlomeno la regolamentazione.
– USA
Ho detto che gli Stati Uniti sono stati i primi a porsi il problema della rappresentanza degli interessi in termini fisiologici. Il coinvolgimento delle lobby nel processo decisionale trova infatti fondamento costituzionale già dal lontano 1791, dato che nel I emendamento è statuito il right to petition to the government. Qui petition non vuol dire banalmente “petizione”, ma è la parola all’epoca utilizzata per fare riferimento ad ogni attività rivolta a influenzare le politiche pubbliche per tutelare un interesse particolare: è quindi l’antenato storico del concetto di lobby. Government invece designa ancora, negli Stati Uniti, non il semplice governo (nel loro caso, il Presidente), ma l’intero settore pubblico, o, per ricondurlo a un concetto che abbiamo utilizzato precedentemente, il decisore pubblico.
La prima legge di regolamentazione organica del fenomeno lobbistico è del 1946, ma dato che ne venne limitata l’applicazione (e la conseguente efficacia) dalla Corte Suprema è solo con il 1995 che gli USA ebbero una nuova normativa pienamente effettiva, il Lobbying Disclosure Act. La normativa attualmente vigente obbliga chiunque svolga almeno il 20% del proprio tempo professionale in attività di lobbying (dai lavori preparatori ai contatti) per rappresentare i propri interessi di fronte a un “pubblico ufficiale dell’esecutivo”, a iscriversi ad un Registro pubblico. In questo Registro, i lobbisti indicano i propri recapiti, l’attività svolta, i riferimenti del cliente, l’attività prevalentemente svolta, l’interesse da tutelare, il settore in cui si prevede di svolgere l’attività di lobbying, i nominativi di quanti sostengono tale attività con più di 10.000 dollari a semestre e le leggi che sono già state oggetto o si prevede saranno oggetto dell’attività lobbistica. Inoltre, ogni volta che un lobbista incontra un decisore pubblico, deve registrarlo in un’apposita sezione del sito web del Segretariato Generale di Camera e Senato entro 45 giorni, e ogni contatto (incontri, finanziamenti ricevuti o concessi) va resocontato con un rapporto a cadenza quadrimestrale sempre al Segretariato.
Negli USA è presente anche una regolamentazione del fenomeno dal lato del decisore pubblico, per evitarne la “cattura” e fare in modo che questi tuteli realmente l’interesse generale. L’Ethics Manual for Members, Officers and Employees of the U.S. House of Representatives, codificato nel 1999, stabilisce che parlamentari, membri del loro staff e funzionari pubblici non possono ricevere regalie per un valore superiore ai 50 dollari annui, mentre se riguardano componenti della famiglia vanno registrate se superano il valore di 250 dollari in un Albo pubblico tenuto dalla Camera di appartenenza.
Oltre a ciò, dal lato del decisore pubblico sono previste anche delle norme sul conflitto di interessi. Il primo strumento utilizzato è la trasparenza, che si sostanzia nell’obbligo di rendicontazione economica su base annua dei membri della Camera, di candidati e di alcuni funzionari. Il secondo strumento è la disciplina del revolving door (passaggio dal ruolo di lobbista a quello di decisore e viceversa) attraverso un periodo di cooling off (astensione dall’assunzione di determinate cariche): la normativa vigente vieta sia agli ex funzionari pubblici di ritornare nelle amministrazioni da loro precedentemente dirette in veste di lobbisti, sia agli ex parlamentari e a componenti del loro staff di rappresentare interessi per conto di terzi al Congresso, per un periodo di un anno a seguito della scadenza del loro incarico.
Questo in merito alla trasparenza. La partecipazione delle lobby al processo decisionale, invece, si sostanzia in due aspetti della vita politica statunitense. Il primo è l’accesso delle lobby ai lavori del Congresso, che avviene attraverso le hearings. Il processo funziona così: le commissioni parlamentari, al fine di acquisire informazioni su un provvedimento, formalizzano alcuni strumenti dell’istruttoria, fra cui proprio le hearings, ossia delle udienze pubbliche in cui si dà voce alle istanze e alle aspettative dei portatori di interesse; le udienze vengono annunciate con almeno una settimana di anticipo e tutti i portatori di interesse iscritti al Registro hanno diritto ad essere convocati; ogni lobbista interveniente espone poi le proprie ragioni per un tempo definito (uguale per tutti) e viene sottoposto alle domande della commissione per aprire un contraddittorio; alla luce degli argomenti dei soggetti ascoltati, a conclusione delle hearings la commissione procede alla markup, cioè la modifica o l’integrazione del progetto di legge.
Il secondo aspetto è invece il finanziamento delle campagne elettorali, normato dal Federal Election Campaign Act. Questo riconosce il diritto a costituire dei Political Action Committies, cioè dei gruppi di raccolta fondi per finanziare la campagna dei candidati che sostengono i loro interessi. I PACs possono essere di tre tipi: Separate Segregated Funds, amministrati da organizzazioni private; i Nonconnected Committies, gestiti da singoli cittadini e da no-profit (inquadrabili solo se il loro valore non supera i 1000 dollari); gli Independent Expenditure-Only Committee, PACs slegati dalla campagna elettorale finalizzati al sostegno generico di un candidato e di un partito. Nella pratica, il procedimento è questo: le lobby fondano un PAC fissando un determinato interesse, attorno al quale raccolgono risorse di chi lo condivide; dopo aver raccolto una certa somma, il fondatore del PAC chiude la raccolta fondi e offre ai candidati i fondi in cambio dell’inserimento di quell’interesse nel loro programma; i politici che accettano hanno un vincolo di natura esclusivamente politico-morale. La trasparenza del procedimento viene garantita sia dalla Federal Election Commission, che registra ogni contribuzione, sia dall’esistenza di organizzazioni come OpenSecrets. Ciò fa in modo che l’elettore sa quali interessi il politico per cui vota ha deciso di sostenere.
Va detto che il sistema sociale e politico, su cui si erge questo tipo di regolamentazione, è molto diverso dai sistemi europei. All’interno del Congresso infatti non c’è la classica contrapposizione tra maggioranza e opposizione, presente in alcuni sistemi competitivi, dato che manca una reale disciplina di partito, una effettiva frammentazione ideologica e non sono infrequenti accordi bipartisan. La vera lotta fra partiti contrapposti si ha soltanto al di fuori del Parlamento, in particolare nell’elezione del Presidente, e anche in questo caso la competizione non si basa sulle ideologie o su piattaforme programmatiche effettivamente alternative. Il sistema politico americano, di conseguenza, si fonda su coalizioni e compromessi, e in questo spazio le lobby sembrano avere la preminenza rispetto ai partiti.
– UE
Nei trattati costitutivi dell’Unione Europea il diritto al lobbying è coperto dall’art. 11 TUE commi 1-3 (“1. Le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni in tutti i settori di azione dell’Unione; 2. Le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile; 3. Al fine di assicurare la coerenza e la trasparenza delle azioni dell’Unione, la Commissione europea procede ad ampie consultazioni delle parti interessate”). E dall’art. 15 comma 1 TFUE (“Al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel modo più trasparente possibile”). Le tre istituzioni più rilevanti per quanto riguarda il lobbying sono il Parlamento, la Commissione e il Consiglio dell’Unione Europea.
Dal lato delle lobby, nel 2011 Parlamento e Commissione hanno istituito un Registro per la trasparenza al fine di regolamentare la partecipazione delle lobby ai processi di produzione normativa, i cui responsabili sono i segretari generali di entrambe le istituzioni. Un grosso problema di questo Registro è sempre stato l’iscrizione su base volontaria, anche se sembra che le cose siano finalmente cambiate in questa legislatura. Il Registro è composto da tre sezioni:
- linee guida sulla sua applicazione e informazioni richieste a chi intende registrarsi: rientrano nell’ambito di applicazione del Registro tutte le attività svolte al fine di influenzare l’elaborazione e l’attuazione delle politiche e i processi decisionali delle istituzioni dell’Unione; le informazioni fornite dai soggetti sono sia di natura generale sul proprio gruppo di interesse, sia di natura specifica (politiche a cui i soggetti sono interessati e informazioni finanziarie)
- Codice di condotta, che indica le norme di comportamento a cui gli iscritti debbono attenersi
- Meccanismi di reclamo e procedure in caso di violazione del Codice.
In termini di trasparenza delle istituzioni invece, la normativa vigente per il Parlamento obbliga i parlamentari e i loro assistenti a rendere pubblici, in un apposito Registro, tutti gli interessi di cui sono a qualsiasi titolo portatori e tutte le attività o funzioni retribuite da loro esercitate. La mancata dichiarazione nel Registro da parte del parlamentare comporta, a fronte di un debito sollecito, prima la pubblicazione del suo nome nel processo verbale di ciascuna seduta successiva alla scadenza del termine, poi, se l’inadempimento permane, la sospensione dall’ufficio di parlamentare. La normativa vigente disciplina anche gli intergruppi parlamentari, coalizioni non ufficiali che nella prassi vengono costituite su pressione delle lobby al fine di “svolgere scambi informali di opinioni su argomenti specifici tra diversi gruppi politici, con la partecipazione di membri di Commissioni parlamentari diverse, e per promuovere i contatti tra i deputati e la società civile”, prevedendo la dichiarazione di qualsiasi sostegno in contanti o in natura offerto ai parlamentari.
Inoltre, la normativa vigente per la Commissione prevede per i direttori generali, per i commissari e per i membri del loro staff, l’obbligo di fornire informazioni sugli incontri svolti coi portatori d’interesse entro 15 giorni dal termine dell’incontro, rendendo pubblici la data e il motivo dell’incontro, il nome del decisore pubblico incontrato, la tematica trattata e il nome della società incontrata. Tutto ciò è reso pubblico sul sito della Commissione. Nel 2014 la Commissione ha poi unilateralmente introdotto il divieto di incontrare i lobbisti non iscritti al Registro, che però ha un campo di applicazione molto limitato: essendo estesa ai soli Commissari, ai loro capi di Gabinetto e ai direttori generali (circa 250 persone), rimangono scoperti la quasi totalità dei dirigenti, degli alti funzionari e dei membri dello staff (che sono circa 30.000). La Commissione ha anche adottato nel 2018 un Codice di condotta per commissari e vertici degli uffici di staff e delle direzioni generali col fine di normale il revolving door, prevedendo un cooling off di 2 anni per gli ex commissari e di 3 anni per gli ex presidenti di Commissione.
E il Consiglio dell’UE? Nonostante l’ampiezza degli argomenti da esso trattato (dall’economia alla giustizia, dalle politiche sociali all’ambiente) e nonostante sia detentore del potere legislativo in codecisione col Parlamento, il Consiglio è per ora riuscito a sfuggire a qualsiasi regolamentazione di trasparenza e di partecipazione. Solo la riunione dei ministri è “visibile”, mentre è tutt’oggi impossibile conoscere chi prende parte ai lavori preparatori, cosa si dicono i partecipanti e quali sono le posizioni degli Stati. Può capitare addirittura che ai lavori di gruppo e dei vari comitati prendano parte non i presidenti dei ministeri, ma dei delegati, e sebbene di regola questi siano funzionari pubblici, niente vieta che alcuni paesi invitino esperti o tecnici che rappresentano specifici interessi organizzati.
Per ciò che attiene invece la partecipazione delle lobby al processo decisionale, l’Unione Europea è di manica meno larga rispetto agli Stati Uniti. Nonostante la presenza del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea, è la Commissione a rappresentare il motore dell’azione normativa della UE. Anche qui la regolamentazione dell’Unione non è esente da problemi: al momento di tratteggiare una proposta di regolamento o direttiva infatti, la Commissione può avvalersi di comitati di esperti scelti in modo non trasparente e discrezionale dal suo Direttore Generale. A temperare questa grave mancanza di regolamentazione c’è la presenza della valutazione di impatto delle iniziative legislative sui potenziali destinatari in termini sociali, economici e ambientali. La partecipazione delle lobby al processo decisionale avviene proprio in nel processo di produzione della valutazione, attraverso le consultazioni degli stakeholders (ossia i portatori di interessi). È infatti presente sia un meccanismo di notifica degli stakeholders interessati da determinati processi decisionali, che possono produrre delle proposte in merito, sia un riscontro alle valutazioni da loro trasmesse. Il problema è che il testo licenziato dalla Commissione dopo questo procedimento può essere riscritto (anche tutto) da Parlamento e Consiglio dell’UE, facendo perdere di efficacia le consultazioni.
Il Caso Italiano
Il Sistema degli interessi in approccio diacronico
E l’Italia, che modello ha adottato? Dal modo in cui ho cominciato questo articolo non è difficile immaginarsi la risposta: l’Italia è il caso per eccellenza della regolamentazione strisciante ad andamento schizofrenico. Ho già detto però che non era mia intenzione attaccare l’odio trasversale che le classi subalterne italiane sembrano provare per il fenomeno lobbistico, odio trasversale che viene manipolato ad arte dai nostri politici. Dico “manipolato” perché è evidente che nella pratica, i nostri politici non possono fare a meno delle lobby, e non perché le lobby siano a loro volta necessariamente manipolatrici, ma perché queste sono uno dei modi con cui si esprime la partecipazione democratica. I motivi di questa schizofrenia sono tre:
- L’approccio epistemico del decisore pubblico rispetto alla società civile, cioè un approccio trascendente che trattava giocoforza le lobby come agenti patologici e non come espressioni fisiologiche della società
- La monopolizzazione dell’intermediazione fra la società civile e lo Stato da parte dei partiti politici; questo non vuol dire che a livello pratico non sono mai esistite o sono state vietate le lobby, vuol dire che le lobby che nascevano e che potevano concorrere alla formazione delle decisioni pubbliche erano in qualche modo subordinate ai partiti
- Lo scarso livello di cittadinanza attiva e di controllo dei decisori pubblici da parte della società civile
Nella prossima sezione li indaghiamo tutti e tre, in relazione al funzionamento del “sistema degli interessi” della I Repubblica.
– La I Repubblica
Le lobby (o, meglio, alcune lobby: CGIL, CISL, UIL, Coldiretti, Confagricoltura e Confindustria) hanno giocato un ruolo fondamentale nei primissimi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, dato che, agendo come mezzo di integrazione, hanno favorito il consolidamento e la legittimazione del nuovo assetto democratico e repubblicano del Paese e, con esso, i partiti. Nello specifico, dividendo le lobby menzionate per settori produttivi:
- Nel settore agricolo, Coldiretti è stata una lobby molto attiva, potendo contare su una capacità di mobilitazione politica e elettorale fuori dal comune. Data la nutrita schiera di suoi rappresentanti nella DC, è anche riuscita a inquadrare nel nuovo regime appena costituitosi un mondo contadino che fino a prima era sempre sfuggito alla rappresentanza parlamentare. Confagricoltura invece, più defilata ma non per questo irrilevante, è riuscita a far accettare la nuova realtà anche a gruppi sociali antagonisti (come la grande proprietà terriera) che più erano stati danneggiati dai provvedimenti governativi di quegli anni, soprattutto la riforma agraria.
- Il fatto di essere stata una delle poche lobby a rimanere in piedi durante la dittatura fascista e ad aver ampiamente collaborato con essa ha giovato molto a Confindustria. Sfruttando la debolezza sindacale dell’immediato dopoguerra, causata sia dall’emarginazione del PCI dalla coalizione di governo per la Guerra Fredda, sia dalla distruzione di ogni rappresentanza sindacale operata dal regime mussoliniano, Confindustria ha legittimato le istituzioni repubblicane e i partiti in cambio del riconoscimento di un certo predominio rispetto alle controparti sindacali nelle politiche industriali, perlomeno nei primi quindici anni di storia repubblicana.
- I sindacati, quindi, nei primi anni della Repubblica, sono le lobby che hanno esercitato il ruolo meno rilevante nel processo di legittimazione delle strutture democratiche. Già a partire dalla seconda legislatura però, non sono pochi i sindacalisti che entrano in Parlamento.
Le relazioni delle lobby con i decisori sono state caratterizzate da rapporti di “clientela” (con la Pubblica Amministrazione) e “collateralismo” (coi partiti politici). Esiste un rapporto di clientela ogniqualvolta “un gruppo di interesse, per un qualsiasi motivo, riesce a diventare, agli occhi di un determinato organo amministrativo, la naturale espressione e il rappresentante di un determinato settore sociale, il quale, a sua volta, costituisce il naturale obiettivo o il punto di riferimento dell’attività di quell’organo amministrativo” (LaPalombara, 1964). È un rapporto che si fonda essenzialmente sullo scambio tra expertise e influenza: le lobby trasmettono informazioni rilevanti alle strutture amministrative in cambio dell’inclusione nel processo di implementazione delle politiche. Va detto che non tutti i gruppi sono in grado di instaurare un rapporto di clientela con qualsiasi ufficio della PA. Perché ciò avvenga, da una parte, idealtipicamente, l’organo amministrativo deve essere funzionalmente specializzato, e deve essere considerato allo stesso tempo come capace di incidere sulla regolazione e come mancante di expertise (in modo tale che la lobby possa “metterlo al suo servizio” fornendogli informazioni); dall’altra, sempre in maniera idealtipica, la lobby deve essere rappresentativa del proprio segmento di policy, rispettabile (cioè, la collaborazione non deve “imbarazzare” il decisore e deve essere per lui “redditizia”), funzionale (capace di agire come efficace strumento di contatto), autorevole (capace di fornire il consenso del gruppo sociale rappresentato in merito alla decisone presa) e prossima (materialmente vicina) alle amministrazioni verso cui vuole risultare influente.
Esiste un rapporto di collateralismo, invece, quando siamo in presenza di “un’associazione di rappresentanza, o comunque un gruppo di interesse, che è emanazione diretta di un partito politico e che ne costituisce quindi una sorta di articolazione organizzativa rispetto ad una determinata sfera di interessi” (Ferrante, 1998). In maniera più specifica, siamo di fronte a un modello puro di collateralismo quando il partito: concorre a far nascere e a costituire la lobby; controlla, mantenendoli nel tempo, i meccanismi di selezione e legittimazione dei gruppi dirigenti della lobby; determina le scelte fondamentali della lobby in merito all’azione di rappresentanza degli interessi.
Rapportando ciò al caso italiano e tenendo fuori il caso di Confindustria, sebbene tutte le principali “lobby corporative” vennero fondate indipendente mente dal patrocinio partitico, queste nacquero con pochi iscritti e quasi senza articolazione territoriale. Furono principalmente i due maggiori partiti della I Repubblica (DC e PCI) a provvedere a ciò negli anni immediatamente successivi, con diverse modalità di selezione e legittimazione della dirigenza delle lobby, ma con lo stesso risultato: ferrea logica di controllo. Il PCI inviava “in missione” i propri funzionari nelle varie aree del paese per aggregare e far nascere associazioni provinciali di agricoltori, artigiani, commercianti, cooperatori. La DC invece aveva optato per la cooptazione dei “notabili” in grado di aggregare, in ambito locale, istanze rappresentative nei vari settori. Questo ha fatto sì che i partiti saturassero sia lo spazio di mediazione fra i conflitti sociali strutturali, sia quello di direzione, educazione e controllo della società (tramite cellule, sezioni, parrocchie, circoli, movimenti, associazioni). Per la I Repubblica si può parlare quindi di gatekeeping ubiquo dei partiti. Questi fatti a mio avviso spiegano sia l’origine dell’approccio trascendente (è facile pensarsi come determinante unico dell’interesse generale se inglobi tutti i portatori di interessi particolari), sia della monopolizzazione della mediazione fra Stato e società civile da parte del partito.
Ma perché le lobby hanno accettato questa netta subordinazione al potere politico-partitico? Per due motivi principali. Il primo è che non avevano la forza organizzativa per opporvisi. Il secondo è il vantaggio che ne hanno tratto in termini di implementazione delle politiche. In termini relativi, con un Governo debole e un Parlamento forte (elevato ricorso a emendamenti, maggiore iniziativa legislativa), subordinandosi hanno avuto un accesso privilegiato alla principale arena di policymaking in modo tale da ottenere politiche distributive favorevoli. Anche qui, insomma, il rapporto era fondato su una logica di scambio: la lobby fornisce consenso elettorale e garantisce fedeltà al partito, mentre il partito garantisce alla lobby l’accesso al principale decisore pubblico. Ovviamente, anche in altri paesi le lobby sono capaci di fare pressione sul decisore pubblico al fine di ottenerne un vantaggio. L’eccezione italiana stava nel fatto che, rispetto agli altri paesi, il peso che le lobby fanno valere nei confronti del decisore pubblico è la dotazione di competenze tecniche e di risorse relazionali, organizzative e reputazionali, mentre in Italia questo peso era spostato sull’identificazione politica fra partito e lobby. Questo assorbimento passivizzante dovrebbe spiegare il basso livello di cittadinanza attiva e di controllo dei decisori pubblici.
Questo significa anche un’altra cosa: che le lobby collaterali ai maggiori partiti, a scapito di altre lobby, godono di accesso privilegiato al decisore pubblico. Tale situazione ha fatto parlare di “pluralismo oligopolistico” (Lanzalaco 1993). L’obiettivo di concetto era quello di mettere in luce la contraddizione tra una società civile estremamente frammentata e un’arena decisionale e istituzionale contrassegnata da alte barriere all’entrata che, di conseguenza, favoriva un ristretto numero di lobby privilegiate, che potevano superarle in maniera stabile solo grazie al collateralismo e alla logica di scambio (non in virtù di specifiche competenze tecniche o di una reale rappresentanza di settore) che lo permeava. Sta qui l’origine e la ragione del modo negativo con cui le lobby vengono viste nella società italiana. Tutto ciò infatti, “in una società estremamente frammentata e complessa, dava origine a fenomeni di privatizzazione dell’apparato pubblico su basi particolaristiche e spartitorie scarsamente accettabili e, soprattutto, ancor meno funzionali dal punto di vista del benessere collettivo” (Pritoni 2019).
Le cose ovviamente non sono rimaste uguali e non poteva che essere così, soprattutto dopo Tangentopoli. Nelle prossime sezioni di questo paragrafo vedremo come il sistema degli interessi si è evoluto e qual è la sua attuale configurazione. Siccome la letteratura scientifica riguardante il sistema degli interessi italiano è molto povera, le informazioni raccolte in questo paragrafo si baseranno sul testo di Pritoni indicato in bibliografia (Pritoni 2019).
– La II Repubblica: caratteristiche demografiche
La trasformazione del sistema degli interessi da I a II Repubblica può essere studiata innanzitutto attraverso i concetti dei population studies. Il primo è quello di densità, che indica la numerosità delle lobby che occupano un determinato sistema di interessi. Il secondo è quello di diversità, che indica il livello di concentrazione delle lobby in differenti categorie (più i gruppi sono concentrati all’interno di una o poche categorie, minore è la diversità). Un concetto quello di diversità è il bias (squilibrio), che indica quanto una o più categorie di lobby sono avvantaggiate rispetto alle altre, dove i rapporti di vantaggio mutano al mutare del “ciclo di influenza”. Quest’ultimo è un processo scomponibile in fasi: mobilitazione (non tutti i “gruppi potenziali” presenti nella società riescono a mobilitarsi e attivarsi, per cui c’è sempre una differenza fra gruppi presenti nella società e gruppi che partecipano al sistema di interessi), sopravvivenza (non tutti i gruppi che si mobilitano riescono a sopravvivere a lungo), accesso (non tutti i gruppi che si mobilitano e sopravvivono riescono ad accedere nelle sedi istituzionali) e influenza (non tutti i gruppi che si mobilitano, sopravvivono e accedono hanno la medesima incidenza sul processo decisionale).
Detto ciò, cos’è che determina il dislivello fra le varie lobby? Secondo il modello Energy-Stability-Area (Lowery e Gray 1995), i fattori che determinano la “capacità di carico” (la variabile possibilità di sopportare un numero via via crescente di gruppi di interesse politicamente attivi) dipende dall’interazione di caratteristiche organizzative delle lobby e fattori ambientali. In merito alle prime è stato notato (Olson 1965) che quelle composte da meno associati hanno costi minori in tutte le fasi del ciclo di influenza. I fattori ambientali invece sono il numero di membri potenziali di un determinato interesse (area), il livello di attività legislativa nel settore di policy in cui i gruppi di interesse operano (fattore di energy) e l’incertezza decisionale nel settore di policy che interessa alle lobby (anche questo fattore di energy). Quando l’area mobilitata e l’energia prodotta stanno in equilibrio, si ha la stabilità (stability). Maggiori saranno tutti e tre questi fattori, maggiore sarà la densità del sistema, e questo avrà effetti anche sulla sua diversità. Cioè, più il sistema diventa “affollato”, più forti diventano le pressioni sui gruppi, e di conseguenza aumenta il peso delle lobby maggiormente dotate di risorse.
La mancanza di un registro nazionale obbligatorio dei vari gruppi d’interesse ha reso la letteratura scientifica sul tema molto povera e orientata soprattutto verso casistiche particolari. Dovendo adattarsi, Pritoni ha raccolto i dati dalla Guida Monaci sul Sistema Italia e dal Registro del MISE, arrivando a una popolazione di riferimento pari a 1594 gruppi (dati del 2016, sono state contate solo le organizzazioni dotate di una qualche membership).
Comparando i dati del 1979 (raccolti dalla sola Guida Monaci del ’79) e quelli del 2016, notiamo innanzitutto una profonda trasformazione del sistema degli interessi: la densità è più che raddoppiata (da 775 gruppi a quasi 1600) e anche la diversità è di molto aumentata (prima sindacati, gruppi occupazionali e gruppi imprenditoriali occupavano l’87% del totale, adesso siamo scesi al 60%, a vantaggio soprattutto di gruppi d’interesse e gruppi identitari). Dato il modo in cui il funzionamento del sistema politico italiano è molto cambiato fra I e II Repubblica (più capacità decisionale del governo, più incertezza legislativa dovuta all’alternanza fra governi e alla maggiore frammentazione del processo di policymaking) il Modello ESA sembra molto applicabile al caso italiano. In termini di densità però, questo va accompagnato anche all’effetto avuto dalla crisi del gatekeeping ubiquo dei partiti culminata in Tangentopoli, che ha abbassato i costi medi per l’ottenimento di politiche a favore, ne ha favorito la legittimazione e ha reso possibile una sorta di supplenza funzionale. In termini di diversità invece, siccome il numero di gruppi di interesse dell’Italia è ancora piuttosto ridotto in comparazione ad altri paesi, è ipotizzabile che la capacità di carico ideale del sistema non abbia ancora raggiunto la soglia che lo tiene in equilibrio. Perciò l’aumento del peso delle lobby maggiormente dotate di risorse (ossia i sindacati e i gruppi imprenditoriali) non è ancora avvenuto.
– La II Repubblica: l’azione strategica
Nella loro azione di influenza del decisore pubblico, le lobby possono ricorrere a varie strategie. È però soprattutto in relazione a tre temi principali che la letteratura scientifica ha evidenziato delle regolarità. In merito alla loro elaborazione per l’Italia Pritoni ha formulato un questionario online rivolto a circa 1300, chiuso nel marzo 2017, a cui hanno risposto 478 lobby. Le tabelle che comparano i differenti tipi di gruppo e che sono state elaborate basandosi su questi dati non prendono in considerazione i gruppi religiosi, per tempo libero e istituzionali a causa del loro basso tasso di risposta.
Il primo tema è l’ampiezza della mobilitazione, e riguarda le opposte tendenze della specializzazione (privilegiare uno o due questioni di policy) e della differenziazione (mobilitarsi su più questioni di policy). ed è un tema che rileva sulla connotazione del sistema degli interessi considerato, dato che un’eccessiva specializzazione rischia di bloccare la competizione fra gruppi e di minare la formazione di “comunità di policy” propense al compromesso. In generale, le lobby tendono a specializzarsi sia per rendersi interlocutori unici davanti al decisore pubblico, sia per acquisire riconoscibilità in una nicchia di policy. Laddove invece la spinta al generalismo prevale, sono le risorse organizzative detenute (ampiezza dello staff e risorse finanziarie), l’età della lobby (più è vecchia, più è probabile che abbia sviluppato qualche rapporto privilegiato col decisore, meno è incentivata a differenziare i propri interessi) e la natura degli interessi rappresentati (più è ampio l’interesse rappresentato, più è grande la spinta alla differenziazione) a giocare un ruolo fondamentale.
Come si evince dalla tabella 3.1, la maggioranza relativa delle lobby tende a specializzarsi su un unico tema, anche se la somma di lobby che si occupano di 6 o più questioni di policy è notevole, dato che arriva a circa il 30%, quasi quanto quelle che si occupano di massimo 2 questioni. In merito alla tab. 3.2 va notato come i gruppi imprenditoriali siano la categoria modale per l’indicazione di massimo 2 aree di policy (e subito appresso i gruppi occupazionali), mentre quelli di interesse pubblico sono quelli più differenziati, come era prevedibile dalla teoria.
Il secondo tema è la scelta di fare lobbying in maniera individuale o in coalizione. La coalizione infatti non è sempre conveniente, ma ha anch’essa dei costi: più è ampia la platea degli alleati, più difficile è raggiungere un compromesso; più è stringente la coalizione, minore è l’autonomia di ogni lobby; essendo una coalizione un bene comune, aumenta il rischio di inerzia e di free riding. Perché la coalizione sia percepita come benefica, intervengono diversi fattori:
- Il tipo di interesse rappresentato, dove la differenza che rileva è quella fra interesse specifico e interesse pubblico, dove (stando ai riscontri empirici) le lobby che tutelano i secondi sono più propense a fare coalizioni di quelle che tutelano i primi
- Le risorse organizzative a disposizione, per cui si suppone che più una lobby è ricca, conosciuta e forte, più tenderà a sopravvalutare i costi e a sottovalutare i benefici di una coalizione, preferendo l’azione individuale
- Il contesto di policy in cui ci si attiva, per cui meno un settore è denso (nel senso che abbiamo visto prima), e più è conflittuale (ci si mobilitano un gran numero di lobby), saliente (coinvolge l’opinione pubblica) e orientato al raggiungimento di vari obiettivi di policy, più è forte l’incentivo a formare una coalizione
- L’assetto istituzionale che ne struttura le modalità di mobilitazione politica, per cui assumendo che la principale preoccupazione di un politico sia la rielezione e che questa sia strettamente connessa all’accountability, le lobby saranno spinte a formare coalizioni per mostrare a un politico che l’interesse per cui si sono mobilitate gode di ampio consenso sociale.
In queste tabelle vediamo come il sistema italiano degli interessi si posiziona in merito al tema delle coalizioni. È interessante notare come le lobby italiane preferiscano collaborare in termini di azioni strategiche, cioè rappresentare i loro interessi davanti a comitati e istituzioni (72,8%) e produrre comunicati stampa e position paper congiunti (86,4%), ma siano molto più restie condividere le proprie risorse organizzative, ossia a scambiarsi informazioni (52,3%), a condividere il proprio personale (38%) e a collaborare nella raccolta fondi (33,1%). La varianza fra le varie categorie di gruppo non è molto alta, anche se a spiccare su tutti è il caso dei gruppi imprenditoriali, i più coinvolti nella condivisione di risorse e strategie. Volgendoci alla tab. 3.4 invece ci mostra come per la maggioranza dei casi (mai e almeno una volta) la coalizione sia una pratica di lobbying inusuale, e anche in questo caso la varianza è pressocché nulla, anche se, in merito, i sindacati e i gruppi di interesse spiccano leggermente. Ciò è forse dovuto alla frammentazione a cui queste categorie sono sottoposte, che, sommata alle risorse fortemente distribuite, rende più necessario il ricorso a coalizioni.
Il terzo tema è la predilezione per tattiche dirette (contatti individuali fra lobbisti e decisori) o indirette (azioni rivolte a imporre all’attenzione del decisore determinate questioni e costringerli ad adottare determinate misure). Sebbene si sia tentati di dire che la strategia migliore (o comunque quella usata da chi ha più risorse) sia il contatto diretto, la questione è in realtà più complessa. Innanzitutto, bisognerebbe pensare a questo tipo di tattiche non come un aut aut, ma come a una combinazione, dove la preferenza per l’una o l’altra è in termini relativi, non assoluti. Inoltre, nello scegliere quale strategia preferiscono, le lobby valutano i benefici che hanno nell’“andare in pubblico” (ampliamento della membership potenziale) rispetto a quelli di “lavorare dietro le quinte”.
I dati che appaiono in relazione al caso italiano aprono a diverse considerazioni. In primo luogo, la percentuale di lobby che si affidano al lobbying indiretto è sostanzialmente uguale a quella per il lobbying diretto (39% contro 37,1%). Si può notare inoltre che, in media, le lobby occupazionali sono fortemente insider (preferiscono il lobbying diretto), mentre le lobby identitarie sono fortemente outsider (preferiscono il lobbying indiretto). Ciò forse dipende dal fatto che le lobby occupazionali sono maggiormente dotate di expertise (conoscenza approfondita di informazioni tecniche e politiche relative alle opzioni di policy), una risorsa molto più spendibile nel contatto diretto che attraverso la mediazione dell’opinione pubblica; viceversa, i gruppi identitari sono maggiormente dotati di risorse simboliche (capacità di convogliare il consenso dei cittadini intorno a simboli e valori) che hanno un maggiore impatto sui media rispetto a una connessione immediata con il decisore pubblico.
– La II Repubblica: gruppi insider e gruppi outsider
L’accesso è l’opportunità (variabile) che le lobby hanno di intrattenere relazioni frequenti e continuative con i decisori pubblici. Le differenze che le lobby riscontrano in questa variabilità dipendono da una pluralità di cause, come il sistema istituzionale in cui operano (un sistema policentrico rende più agevole l’accesso alle lobby rispetto a un sistema centralizzato e verticistico) e le risorse a disposizione, di cui le più importanti sono il grado di parentela (ossia la vicinanza politica), le risorse economiche, l’expertise, l’ampiezza della membership, il grado di rappresentatività e la mobilitazione simbolica.
Esistono due grandi approcci che spiegano l’uso che le lobby fanno delle loro risorse: la teoria dello scambio e la teoria della cumulatività. La prima teoria vede l’accesso delle lobby ai decisori come il risultato di uno scambio: le prime ottengono influenza sul processo di policymaking, i secondi ottengono informazioni e consenso. Le relazioni di interdipendenza che vengono a svilupparsi non riguardano però solo le lobby e i decisori pubblici, ma anche gli operatori dei media. Poiché sia le lobby sia i decisori sono diversi fra loro, ciò che fa da discrimine è infatti la risorsa usata, e nell’ambito dello scambio quelle che più rilevano sono la consanguineità politica (che ci si aspetta sia rilevante ai fini del rapporto coi decisori politico-partitici), l’expertise (che ci si aspetta sia rilevante per il rapporto con l’amministrazione pubblica) e la notiziabilità (cioè la capacità di “far notizia”, che ci si aspetta sia rilevante per il rapporto coi media). Siccome è molto raro che un gruppo disponga in grandi quantità di ciascuna di queste risorse, diversi gruppi svilupperanno maggiormente risorse diverse e avranno perciò capacità variabile nel rapporto di interdipendenza. L’aspettativa teorica è che le lobby di interesse pubblico e quelle identitarie sviluppino di più il lato mediatico, mentre le lobby occupazionali, sindacali e imprenditoriali siano più forti nell’accesso ai decisori pubblici.
La teoria della cumulatività invece mette in evidenza due fattori: alcune risorse possono contare in più di un’arena politica (p. es. le risorse economiche possono aiutare a sviluppare tutte le altre risorse); l’accesso presso una determinata arena potrebbe provocare, a cascata, l’accesso alle altre (p. es., la notiziabilità può garantire notorietà e quindi l’attenzione dei politici o dell’amministrazione pubblica). Stando alle analisi empiriche, sembra che l’accesso dipenda più dalla quantità delle risorse a disposizione di una lobby che dalla configurazione delle lobby: i gruppi più forti (segnatamente, quelli imprenditoriali) accedono continuativamente e direttamente in tutte e tre le arene, mentre quelli più deboli si specializzano dove hanno più chances di essere ascoltati.
In merito alla tabella che segue, la domanda posta da Pritoni all’universo di gruppi di interesse preso in considerazione in questo lavoro era la seguente: «Nel corso degli ultimi 12 mesi, con quale frequenza la Sua Associazione ha ottenuto accesso presso i seguenti decisori pubblici nazionali, con l’obiettivo di influire sul processo decisionale?». A tale domanda si poteva rispondere scegliendo una sola tra cinque possibili opzioni: “mai”: “almeno una volta”; “almeno ogni tre mesi”; “almeno una volta al mese”; “almeno una volta a settimana”. Nell’ottica di distinguere tra accesso diretto e continuativo, da una parte, e decisamente più saltuario, dall’altra, la tabella riporta il numero assoluto (e la relativa percentuale sul totale dei rispondenti di quella specifica categoria) di lobby che hanno scelto una delle due opzioni di risposta a maggiore frequenza (ovvero: “almeno una volta al mese” o “almeno una volta a settimana”).
La prima osservazione che sorge dalla tabella è la preferenza delle lobby nei confronti della burocrazia (che riguarda circa un terzo del campione), mentre all’estremo opposto ci sono i funzionari del Dipartimento per le Politiche Europee (segnale, come vedremo più avanti, del basso tasso di europeizzazione delle nostre lobby, nonostante gran parte delle partite di policy si giochino oggi più nell’UE che in Italia). Inoltre, sebbene la bassa variabilità, i gruppi a maggiore accesso sembrano essere quelli imprenditoriali, seguite a ruota dai sindacati. La cosa particolare è che i sindacati si interfacciano soprattutto con l’amministrazione pubblica, mentre i gruppi imprenditoriali con la politica. Degni di nota sono poi lo speciale rapporto dei gruppi di interesse pubblico coi parlamentari d’opposizione e le difficoltà riscontrate in ogni campo da parte dei gruppi identitari. Come spiegare questi dati? La prossima tabella, elaborata sempre da Pritoni, presenta i risultati di tre regressioni multivariate – una per ciascuna delle tre sedi istituzionali a maggiore accesso complessivo (funzionari del ministero di maggiore interesse; ministri, viceministri e sottosegretari; parlamentari di maggioranza) – in cui le variabili indipendenti sono il tipo di interesse rappresentato, la stabilità temporale e le risorse organizzative (budget, rappresentatività ed expertise).
Dalla tabella emerge che l’arena del governo è quella in cui c’è un maggiore squilibrio, ossia la capacità di avere un accesso ampio e continuativo è determinata da un alto numero di variabili. La più significativa è l’interesse rappresentato, dato che rispetto alle lobby imprenditoriali, fra gli altri gruppi solo i sindacati non appaiono penalizzati; anche la maggiore dotazione di risorse organizzative fornisce un vantaggio competitivo per l’accesso all’arena ministeriale. Lo squilibrio nell’accesso a parlamentari e all’amministrazione pubblica dipende invece principalmente da altri fattori, ossia l’expertise e la rappresentatività nel primo caso e la sola rappresentatività nel secondo. Ora, che l’expertise giochi un ruolo di discrimine per attori politico-partitici e la rappresentatività per gli attori burocratici è un po’ un rovesciamento delle aspettative teoriche. Rovesciamento che però può essere spiegato con la teoria dello scambio: gli attori politici di solito hanno una conoscenza generalista dei problemi che affrontano, mentre i gruppi di pressione sono dotati di una conoscenza specialistica che può aiutarli a orientarsi nella complessità dell’agenda decisionale. Diversamente, le amministrazioni pubbliche hanno (rispetto al passato) una conoscenza specialistica molto maggiore e quindi di fronte a loro ciò che legittima i portatori di interesse è solo la loro rappresentatività.
E il gatekeeping partitico? Rispetto a quanto è già stato detto sul rapporto partiti-lobby, va menzionato anche il fatto che l’eccezione italiana si è comunque mossa all’interno di un quadro generale. Segnatamente, la rincorsa dell’elettore mediano e il passaggio dai partiti di massa ai partiti pigliatutto da parte dei partiti hanno accentuato le reciproche autonomie: i partiti perché preferiscono annacquare le loro posizioni per rincorrere il centro, le lobby per non inimicarsi i potenziali partiti di governo. Nello studio di questo rinnovato rapporto, Pritoni si è focalizzato sulla frequenza con la quale le lobby si sono relazionate con i maggiori partiti nazionali del 2016. La domanda del questionario era la seguente: «Nel corso degli ultimi 12 mesi, con quale frequenza la Sua Associazione ha cercato di ottenere accesso presso i parlamentari/dirigenti dei seguenti partiti presenti in Parlamento?». Come in precedenza, le possibili risposte andavano dall’opzione “mai” a quella “almeno una volta a settimana”, e il numero dei gruppi che ha segnalato una frequenza almeno mensile è indicato all’interno della tabella.
Dall’osservazione della tabella non può che risaltare lo scarso interesse che le lobby nutrono nei confronti dei partiti, scarso interesse che sembra trasversale ai vari gruppi. Osservando i dati inoltre si può vedere come i sindacati sembrano essere la lobby che maggiormente cerca l’accesso partitico (all’opposto invece i gruppi identitari). L’elevato accesso al PD invece è dovuto al fatto che in quel periodo si trattava del maggior partito di governo.
Abbiamo parlato in precedenza del basso tasso di europeizzazione delle lobby italiane. L’ultima arena che ci resta da valutare è proprio quella europea. Le tabelle 4.4. e 4.5 mostrate di seguito riportano rispettivamente numero e percentuale delle lobby italiane che hanno indicato un accesso almeno mensile a un buon numero di sedi e attori decisionali europei, e i dati delle regressioni multivariate condotte – la prima in riferimento alla Commissione, la seconda al Parlamento, la terza al Consiglio – in cui le variabili testate sono di nuovo quelle precedentemente discusse: il tipo di interesse rappresentato, l’anno di fondazione, il grado di rappresentatività, la dotazione delle risorse economico-finanziarie e l’ampiezza dell’expertise.
La tabella a sinistra conferma quanto detto in precedenza rispetto all’attenzione che le lobby italiane volgono all’arena europea. Inoltre, possiamo notare come l’accesso alle istituzioni europee dipenda dall’interesse rappresentato: su tutti, spiccano i gruppi imprenditoriali, che hanno i valori più alti in merito a tutte le opzioni di risposta (mentre i gruppi identitari, all’opposto, non hanno alcun tipo di accesso frequente a nessuna di esse). In merito alla tabella 4.5 invece, è da notare come per l’accesso alla Commissione non rilevino né le risorse organizzative, né il tipo di interesse rappresentato, ma solo l’anno di fondazione, il che è un’eccezione rispetto alla norma. Altra eccezione riguarda il rapporto delle lobby italiane col Parlamento: è qui che il maggior numero di variabili ha un impatto statisticamente significativo (segnatamente, anno di fondazione, risorse economiche e expertise), che penalizza tutte i gruppi ad eccezione dei sindacati e delle lobby imprenditoriali. I gruppi di interesse pubblico godono, infine, di un relativo vantaggio nell’arena del Consiglio dell’Unione Europea.
– La II Repubblica: casi di vincitori e vinti
Per concludere lo studio del sistema di interessi non ci resta che analizzare “chi ha ottenuto cosa, quando e come”. Nella scelta dei processi di policy, Pritoni si è basato su tre criteri: la salienza del processo decisionale (l’attenzione dell’opinione pubblica, che può essere alta o bassa); la copertura dell’intero spazio politico dei governi della II Repubblica (centrodestra, centrosinistra e tecnici); la maggior varietà possibile nel coinvolgimento dei gruppi al processo decisionale. Nelle tabelle in basso ci sono i 6 processi di policy selezionati e le rispettive analisi di vincitori e vinti divise in base alla salienza.
Le indicazioni di carattere generale che possono essere colte da quest’analisi sono principalmente due. La prima è l’appropriatezza delle risorse detenute rispetto alle questioni di policy in riferimento al quale vengono mobilitate. Per esempio, nonostante i gruppi di interesse pubblico in Italia non sembrino così influenti e nella letteratura scientifica internazionale sono spesso considerati in difficoltà quando si tratta di influire sul processo di policy, nelle due politiche di liberalizzazione analizzate sono risultati estremamente influenti. Forse la ragione è che tali processi erano caratterizzati da un’alta salienza, che rende il decisore molto più attento a legiferare in accordo con le posizioni dell’elettore mediano invece di tutelare categorie particolari. A riprova di ciò c’è la vittoria dei gruppi imprenditoriali in relazione alla previdenza integrativa (2005) e al decreto Balduzzi (2012), ottenuta in condizione di bassa salienza. In pratica, in condizioni di alta salienza le risorse che contano sono l’ampiezza della membership e il consenso simbolico (risorse tipiche dei gruppi di interesse pubblico, ma anche di quelli occupazionali), mentre nei processi in cui l’opinione pubblica è poco coinvolta l’expertise e la rappresentatività la fanno da padrone (risorse tipiche dei gruppi imprenditoriali). Questa prospettiva può dirci molto anche riguardo alle strategie di lobbying ottimali per i vari tipi di gruppi: i gruppi di interesse pubblico avranno l’incentivo a usare la leva mediatica, mentre quelli dotati di expertise e rappresentatività preferiranno silenziare quanto più possibile il processo decisionale, evitando l’opinione pubblica e favorendo il contatto diretto col decisore.
La seconda invece riguarda le caratteristiche del decisore con cui le lobby interagiscono, in particolare sull’essere a favore dei gruppi padronali o pro-lavoratori e sulla capacità decisionale. Alcuni gruppi imprenditoriali sono infatti risultati vincitori anche in processi ad alta salienza, come la riforma Gelmini (2008) e le liberalizzazioni di Monti (2012). La riforma Gelmini infatti ha ricalcato in misura quasi perfetta le richieste di Confindustria, mentre ha completamente ignorato le richieste sindacali. Questo è accaduto perché il IV governo di Berlusconi era culturalmente molto più vicino alle imprese che ai sindacati. In merito al Decreto Balduzzi, invece, a rilevare è stata l’incapacità di tradurre il decreto governativo in legge lasciandolo più o meno inalterato: data la natura tecnica del governo, i parlamentari hanno colto l’occasione per emendare largamente il progetto di legge di un esecutivo a cui non si sentivano particolarmente affini.
Per chiudere questo paragrafo voglio fornire una breve valutazione. Nelle ultime due sezioni abbiamo visto che in tutte le arene di policy i gruppi più forti in termini di accesso e di influenza sono le lobby imprenditoriali e (a seguire) i sindacati. I gruppi di interesse pubblico però, data la crescente importanza che ha acquisito la rappresentatività, oggi giocano un ruolo maggiore rispetto al passato e potrebbero accrescere ulteriormente il loro potere in futuro. I gruppi più in difficoltà mi sembrano essere invece quelli identitari. Va detto poi che Pritoni, purtroppo, per un motivo o per un altro (poche risposte al sondaggio e casi scelti non rilevanti in merito), non è riuscito a valutare l’impatto dei gruppi religiosi sulle politiche pubbliche, un tema che sarebbe necessario indagare data la presenza di attori influenti come il Vaticano e CeL. Quindi, considerando tutto ciò, si può dire che nonostante il ridimensionamento relativo subito dalle lobby imprenditoriali e sindacali, il sistema degli interessi italiano è (come del resto nella maggior parte d’Europa) ancora legato allo scontro fra Capitale e Lavoro.
Le Regole Attuali
L’assenza di una regolamentazione organica, dopo la fine della “Repubblica dei partiti” e l’aumento della forza in termini relativi delle lobby, è diventata un problema sempre più pressante. Come vedremo più avanti, l’approccio epistemico trascendente è in via di ritrattazione, anche se questa ritrattazione non ha avuto per adesso alcuno sbocco in una regolamentazione organica. La normativa vigente è quindi frammentata, e nelle prossime sezioni toccheremo con mano i problemi di questa frammentazione.
– La Costituzione e la Corte Costituzionale
La prima fonte che voglio valutare è la Costituzione. Anche se nel testo della Costituzione non c’è una disposizione che riconosca espressamente il diritto al lobbying, secondo la Corte Costituzionale questo diritto è desumibile. Con le sentenze 1/1974 e 290/1974 venne riconosciuta l’incostituzionalità del reato di sciopero politico (introdotto in epoca fascista, lo sciopero politico veniva considerato reato perché contesta l’operato degli organi costituzionali) dato che lo sciopero si profila come uno dei tanti possibili “strumenti di pressione usati dai vari gruppi sociali”. Con la sentenza 379/2004, la Corte ha addirittura sollecitato l’adozione di una regolamentazione del diritto al lobbying. Oggetto di questa sentenza è stata l’impugnazione da parte del governo da parte del nuovo statuto approvato dall’Emilia Romagna. Gli artt. 15 e 17 riconoscono infatti la partecipazione delle lobby al processo di formazione della decisione e l’istruttoria legislativa aperta, ossia il procedimento con cui il consiglio regionale coinvolge i portatori di interesse in un disegno di legge, mentre l’art. 19 verte invece sulla rimozione dei limiti che impediscono l’effettiva partecipazione delle associazioni al procedimento legislativo. La Corte ritenne questi articoli legittimi e affermò che questo coinvolgimento migliora la qualità delle decisioni pubbliche, per cui si può desumere da questo intervento che vi sarebbe il dovere di coinvolgimento delle lobby nel processo decisionale da parte del decisore.
Per quanto riguarda invece gli articoli costituzionali, gli artt. 2 (lobby come corpo intermedio, formazione sociale), 3 (lobby come modo per assicurare l’attuazione del dovere dello Stato), 18 (lobby come associazione), 49 (lobby come modo per assicurare la partecipazione permanente) e 50 (diritto di presentare alle camere petizioni per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità) coprono tutti in vario modo lo spazio giuridico delle lobby. Dalla Costituzione si può ricavare quindi una vera e propria “teoria generale della partecipazione”. Peccato che a questa teoria generale non sia seguita una legge generale.
– Leggi sparse
La regolamentazione vigente non solo è frammentata, ma è anche sostanzialmente disapplicata. Abbiamo disposizioni volte a coinvolgere le lobby al processo di elaborazione delle leggi, altre a imporre la trasparenza negli interessi economici dei decisori e altre ancora a normare il revolving door. Sotto il primo versante rileva ad esempio la regolazione dell’AIR (Analisi d’Impatto della Regolamentazione) del 1999, uno strumento che serve a valutare l’impatto di una norma sui destinatari. La legge impone che questa venga prevista per tutti gli schemi di atti normativi del governo, e che vengano coinvolti e consultati i portatori di interesse in una fase istruttoria, prevista. In teoria, i ddl e i regolamenti governativi non possono essere discussi dal Consiglio dei Ministri, ma in pratica la legge non è mai stata applicata.
Sul versante trasparenza, rilevano diversi provvedimenti. Il primo è l’anagrafe patrimoniale eletti del 1982, per cui le cariche elettive di ogni livello sono obbligate a rendere pubblici gli interessi patrimoniali attraverso una dichiarazione entro tre mesi dall’elezione, e a pubblicare a fine mandato le variazioni di patrimonio. Fino al 2013, non essendoci una sostanziale sanzione per chi non rendeva pubblici i propri interessi, la norma è stata disapplicata perché intesa come un obbligo facoltativo (!) e i moduli di chi li compilava erano coperti da segreto.
Il secondo è la legge del 2013 sull’abolizione del finanziamento pubblico, che ha abolito il finanziamento pubblico ma ha non ha reso il finanziamento privato trasparente, dato che solo il finanziatore che vuole scaricare dalle tasse il finanziamento di un determinato partito deve uscire allo scoperto. La legge Spazzacorrotti del 2019 ha però reso obbligatoria la rendicontazione dei finanziamenti delle campagne elettorali, quindi si sapranno i finanziatori delle campagne elettorali, ma solo dopo le elezioni.
Il terzo provvedimento è la legge Severino del 2012, riguardante l’accessibilità totale alle informazioni concernenti organizzazione e attività delle PA, a cui si aggiunge il decreto legislativo 33/2013, sulla pubblicazione della dichiarazione dei redditi dei dirigenti apicali della PA e degli Uffici.
Il quarto riguarda il traffico di influenze illecite, normato dalla legge Spazzacorrotti, secondo cui il soggetto che paga qualcuno per influenzare il decisore pubblico al fine di fargli commettere un atto contrario ai propri doveri d’ufficio (il “traffico di influenze illecite”) è punito con la reclusione. Peccato che senza una definizione del perimetro del lobbying lecito la cosa diventa discrezionale.
Il quinto provvedimento è la legge 241/1990, che ha rappresentato una vera e propria rivoluzione nell’ordinamento giuridico: in base a questa legge, il decisore pubblico deve informare i soggetti interessati dall’attuazione di un provvedimento e far partecipare al procedimento il portatore di interesse (pena la nullità dell’atto) e prevede l’obbligo di motivazione della decisione presa.
Sul versante del revolving door, il decreto legislativo 39/2013 e la legge 481/1995 impongono un cooling off di due anni per tutta una serie di cariche.
– Il Parlamento
Passiamo ora al Parlamento. Gli artt. 144 del regolamento della Camera e 48 del regolamento del Senato riguardano le audizioni, e dispongono che ogni commissione può procedere ad audire, oltre ai rappresentanti del governo, “rappresentanti di enti territoriali, di organismi privati, di associazioni di categoria e altre persone esperte nella materia in esame”, per acquisire notizie, informazioni e documenti utili all’attività parlamentare. Chiariamo subito una cosa: le audizioni, nella pratica, non sono come le hearings americane. Infatti, nonostante i regolamenti prevedano solo audizioni formali, queste nella pratica possono essere sia formali (cioè tracciabili), sia informali (senza né resoconto né pubblicità), e ovviamente le seconde sono molto maggiori delle prime. Inoltre, il criterio di scelta dei soggetti auditi nelle audizioni formali è totalmente discrezionale: le commissioni possono audire chi vogliono, per quanto tempo vogliono e senza seguire alcun ordine, possono persino negare l’accesso a certi soggetti e permetterlo ad altri in maniera arbitraria. La logica di queste audizioni sembra essere solo quella di ribadire l’opinione della maggioranza attraverso la bocca di “esperti”.
Inoltre, l’8 febbraio 2017 la Camera dei Deputati ha adottato un atto per istituire un registro dei portatori di interesse, in cui questi devono iscriversi descrivendo l’attività che devono compiere e i deputati che si vogliono contattare. L’atto prevede anche una sorta cooling off di un anno per ex deputati o ministri, siccome questi non possono iscriversi al Registro per quella durata una volta cessato il loro incarico. Peccato che il registro sia inutile, dato che norma solo chi fa lobbying in maniera professionale (senza specificare che diamine vuol dire), fisicamente nelle sedi della Camera (evidentemente senza capire che il lobbying è un’attività a 360 gradi di cui il contatto nelle sedi istituzionali non è che l’approdo finale) e nei confronti dei soli deputati (e non anche dei collaboratori, dei membri dello staff e dei consiglieri parlamentari), e dato che ci si può iscrivere la qualunque. Altri problemi dell’atto sono poi la mancanza di tracciabilità di ogni profilo economico, dato che gli iscritti non hanno l’obbligo di dichiarare le risorse economiche di cui dispongono o gli eventuali contributi forniti alla campagna elettorale di partiti o candidati, e la discriminazione a favore delle lobby “corporative” (le organizzazioni sindacali e imprenditoriali) che hanno diritto a più tesserini di accesso rispetto alle altre. Il Senato, neanche a parlarne, prova ciclicamente a disciplinare il fenomeno lobbistico, sempre senza successo.
– I Ministeri
Anche i Ministeri hanno provato a fare qualcosa per regolamentare il fenomeno lobbistico, con i cosiddetti “Registri fai da te”. I ministeri che si sono dotati di un Registro sono: Sviluppo Economico, Trasporti e Infrastrutture (soppresso con l’avvento del Conte I), Lavoro e Politiche Sociali (uguale a quello del MISE), Funzione Pubblica (soppresso con la caduta del governo Renzi), Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare (ora Transizione Ecologica), Politiche Agricole Alimentari e Forestali (non più aggiornato dal 2014). Da questa ricognizione, solo MISE e MLPS si possono considerare “ministeri virtuosi”, mentre il MITE sembra sia un ministero “troppo virtuoso”, dato che l’agenda incontri è stata oscurata dal Garante della Privacy per eccesso di trasparenza (!). Va poi considerato che anche in questi Registri chiunque può iscriversi all’elenco scrivendo quello che vuole e il decisore non è costretto ad aggiornare l’agenda degli incontri e precisare chi è stato incontrato, con quali “scambi” e per quale fine. Inoltre, la frammentazione della regolamentazione crea una confusione terminologica che non permette di regolare per bene il fenomeno, dato che lo stesso soggetto può ad esempio essere considerato un lobbista presso il MISE ma non presso la Camera dei Deputati.
– Le Regioni
Vediamo, per chiudere su questo punto, le Regioni. Con la riforma del titolo V (legge costituzionale 3/2001) si prende coscienza dell’accresciuta importanza delle Regioni (elezione diretta del Presidente regionale, aut simul stabunt aut simul cadent, aumento delle competenze, nuovi statuti con nuove forme di partecipazione). Da una lettura comparata dei diversi statuti emergono tre modalità di raccordo tra cittadini, lobby e istituzioni:
- La presenza di forme aperte di istruttoria legislativa (come consultazioni preventive e contestuali all’esame di un ddl regionale da parte delle commissioni tramite audizioni) tali da permettere e legittimare l’intervento di qualunque soggetto portatore di interessi particolari (questo è vero per alcune Regioni: Emilia-Romagna, Toscana, Piemonte, Marche, Lazio, Umbria, Liguria, Campania e Lombardia)
- La possibilità da parte di gruppi di cittadini (generalmente 5000 o più) di presentare al Consiglio o alla Giunta petizioni o interrogazioni scritte per conoscere le intenzioni dell’organo politico o rappresentativo o sapere se un fatto corrisponde a realtà
- La presenza in tutti gli Statuti del concorso delle organizzazioni sociali alla programmazione economica, sociale e territoriale, anche attraverso la Conferenza permanente
Tuttavia, solo alcune Regioni hanno leggi specifiche sul lobbying:
- La Sicilia è un caso molto particolare: per placare i moti indipendentisti siciliani in seguito alla Seconda Guerra Mondiale, venne approvata la legge costituzionale 2/1948 (che ratificava il decreto del re di maggio sullo statuto della Sicilia), in cui è previsto che i portatori di interessi della Sicilia siedano di diritto nel parlamento siciliano e che partecipino alla elaborazione dei progetti di legge (senza diritto di voto). Il regolamento attuativo di tale legge non c’è mai stato.
- L’Emilia-Romagna è, a mio avviso, la Regione più avanzata in termini di regolamentazione del lobbying (e non solo su quello). La legge regionale 27/2019 inquadra il lobbying all’interno del paradigma della regolamentazione-partecipazione. Il nucleo essenziale della legge è l’istituzione di due registri ad iscrizione obbligatoria dei rappresentanti dei portatori d’interesse, uno presso l’ufficio di Gabinetto del presidente della Giunta e l’altro presso l’ufficio di Presidenza del Consiglio regionale, in cui i lobbisti devono dimostrare la sussistenza del loro incarico e descrivere la natura e gli scopi del portatore di interesse. I lobbisti iscritti hanno il diritto di essere ascoltati e ricevuti dai decisori pubblici per informazioni e chiarimenti, la facoltà di presentare proposte, studi e ricerche e la facoltà di seguire i lavori delle Commissioni consiliari. La partecipazione ai lavori della Giunta, invece, è a discrezione dello stesso organo esecutivo. I loro doveri sono invece il rispetto dei principi di legalità, trasparenza e correttezza istituzionale, la non elargizione di regalie e la presentazione (a seguito di specifica istanza) di una relazione sulle attività svolte. Non è consentita, infine, qualunque forma di pressione che possa compromettere la libertà di giudizio, di voto e di determinazione dei decisori pubblici (art. 4, c. 3). Anche dal lato del decisore pubblico sussistono degli obblighi, come quello di comunicare, nella relazione illustrativa dei progetti di legge, i soggetti consultati e le attività svolte con i lobbisti in riferimento alla predisposizione e all’elaborazione degli atti deliberativi, e di riportare le date degli incontri con i lobbisti, gli argomenti trattati e la documentazione prodotta.. Infine, sia la Giunta che il Consiglio hanno l’obbligo di presentare, ogni due anni, un’apposita relazione che faccia il punto sullo stato di attuazione della legge, sul numero di iscritti ai registri e sul grado di accoglimento delle proposte avanzate dai lobbisti.
- La Toscana invece è stata la prima Regione a disciplinare le lobby in modo organico (legge 5/2002). Non ne dà una definizione ma ne distingue due tipologie, cioè le associazioni di categoria e gli altri gruppi. È obbligatoria per entrambe l’iscrizione a un Registro, e l’iscrizione è possibile solo se l’organizzazione è democratica al suo interno, se è più vecchia di 6 mesi e se persegue interessi meritori. Le richieste dei soggetti accreditati riguardano atti proposti o da proporre all’esame del Consiglio: nel primo caso i rappresentanti possono richiedere audizione alle commissioni competenti, nel secondo caso le richieste formali e la documentazione sono trasmesse a tutti i gruppi politici.
- Il Molise ha adottato la stessa legge della Toscana (legge 24/2004), copiandone ogni singola parola, ma non ha avuto attuazione concreta.
- L’Abruzzo (legge 61/2010) definisce il lobbying in modo estremamente ampio (ogni attività svolta da gruppi di interesse attraverso proposte, richieste, studi, position paper ecc. intesa a perseguire interessi leciti propri o di terzi al fine di incidere sui processi decisionali pubblici) e definisce i decisori pubblici (dirigenti regionali, presidente della giunta regionale, assessori, consiglieri) ma non impone obblighi di iscrizione al Registro e offre come unico vantaggio l’audizione prioritaria.
- La Calabria (legge 4/2016) ha istituito tramite legge un Registro cui sono tenuti a iscriversi tutti i soggetti che intendono svolgere attività di influenza presso il Consiglio, la Giunta e i dirigenti regionali, garantendo loro il diritto di essere auditi e di presentare iniziative (studi, proposte ecc.) che perseguano le finalità dei propri gruppi di interesse, nonché di accedere agli uffici per informazioni e chiarimenti di carattere tecnico relativi ad atti di loro interesse o all’organizzazione procedurale. Sempre a fini di trasparenza, l’attività svolta dai lobbisti nei confronti dei decisori deve essere menzionata nel preambolo degli atti. Anche in questo caso la legge è ancora inattuata.
- La Lombardia (legge 17/2016) ha disposto un pubblico elenco per quei gruppi che intendano svolgere attività di influenza, e ha introdotto obblighi (relazione annuale sull’attività svolta) e diritti (accesso alle sedi istituzionali e presentazione di proposte, studi ecc. al fine di influenzare il decisore) per i lobbisti.
- Il caso del Lazio è meraviglioso. La Regione infatti ha approvato la legge 12/2015, che nei fatti è una legge fatta per dire che avrebbe approvato una legge (!) sul lobbying. Ovviamente tale legge non è stata ancora presentata.
- La legge 30/2017 della Puglia ha istituito un Registro dei lobbisti, ha circoscritto l’ambito dei decisori pubblici (giunta, direttori dei dipartimenti e vertici di aziende strategiche) e ha normato il lobbying intendendolo come ogni attività di gruppi di interesse particolare diretta a incidere in maniera lecita sul processo decisionale pubblico, svolta attraverso la presentazione per iscritto di proposte, studi ecc. che riportino in maniera anche meramente ricognitiva la posizione del gruppo. Gli iscritti al registro possono svolgere attività di lobbying, possono accedere agli uffici di giunta e consiglio e possono essere auditi dalle commissioni, mentre i decisori devono rendere nota l’attività di lobbying negli atti. La legge prevede poi il cooling off di due anni per ex decisori pubblici, consulenti dell’ente regionale o di altre PA e giornalisti iscritti all’Ordine.
- La Campania, con la legge 11/2015, ha puntato invece sulla disciplina in materia di partecipazione dei gruppi di interesse alla fase di elaborazione delle proposte di legge di iniziativa della giunta, introducendo l’obbligo per tutti i ddl di elaborazione dell’AIR: in questo modo si consultano i destinatari delle norme in fase di elaborazione delle stesse, quantificandone e valutandone preventivamente gli effetti, e si rende il trasparente il meccanismo relazionale, perché la legge consente di tracciare le interrelazioni fra lobbisti e decisori.
Anche qui, vedendo il modo molto diverso in cui le Regioni hanno affrontato il problema della regolamentazione del lobbying, si conferma il quadro disorganico e schizofrenico: a Regioni più “virtuose” si accompagnano Regioni restie all’attuazione e all’applicazione delle normative in materia.
Regolamentazioni Fallite e Proposta Socialista
Prospettive nere
Più sopra ho detto che la visione trascendente che caratterizzava il decisore italiano in tema di rapporto con le lobby è in via di ritrattazione. Quello che non ho detto però è che questa ritrattazione ha assunto un profilo grottesco. I tentativi di regolamentazione organica del fenomeno lobbistico in Italia accumulatisi negli anni sono infatti circa 100 e possono essere suddivisi in varie fasi:
- 1974-1988: questa fase è caratterizzata dai primi disegni di legge che riguardano il lobbying. Questi sono però frammentati, lo confondono con le pubbliche relazioni e lo connotano come un fenomeno patologico che deve essere limitato
- 1988-2006: questo periodo è caratterizzato dalla presa di coscienza del lobbying come fenomeno rilevante. Maccanico (l’allora ministro delle riforme istituzionali) che in un’intervista inquadra il fenomeno lobbistico nella cornice di una riforma delle istituzioni. Egli continua però a confondere il lobbying e le pubbliche relazioni e a darne un giudizio negativo. Venuta meno la “Repubblica dei partiti” con il 1992, le lobby cercano di colmare lo spazio vuoto lasciato dai partiti, e i provvedimenti frammentari presi sono in simbiosi con misure anticorruzione.
- 2006-2013: In questo periodo si compie una vera e propria rivoluzione epistemica da parte del decisore pubblico, che non affronta più il lobbying come elemento patologico, ma come elemento fisiologico. Il provvedimento che esprime questa rivoluzione è il ddl Santagata del Governo Prodi. Questo si basava su due perni: la previsione di una serie di obblighi sui portatori di interesse (iscrizione a un Registro tenuto dal CNEL, relazioni annuali sulle risorse impiegate) e la creazione di diritti di partecipazione (presentare proposte, analisi e richieste secondo le modalità definite dai decisori). Il ddl non passò perché nel 2007 cadde il governo.
- 2013-oggi: Illustre personaggio di quest’ultima fase è Enrico Letta. Il 5 luglio 2013 l’allora Presidente del Consiglio presenta un ddl sul lobbying al suo consiglio dei ministri, la cui logica era quella di favorire la partecipazione del lobbista al processo decisionale e di creare obblighi di trasparenza in capo al decisore pubblico. Nello specifico, il ddl istituiva un Registro obbligatorio per i lobbisti, introduceva obblighi di trasparenza per i decisori pubblici (come sui finanziamenti ricevuti e gli incontri) e introduceva il diritto dei lobbisti alla partecipazione al processo decisionale, tracciando al contempo gli scambi di informazioni fra decisori e lobbisti attraverso relazioni periodiche di quest’ultimi. Il decreto venne bocciato dal suo stesso consiglio, che probabilmente non ne condivideva le prospettive sugli obblighi di trasparenza.
In seguito a Letta, gli altri tentativi che sono stati fatti ne hanno ricalcato il modello normativo e hanno affidato il ruolo di vigilanza in taluni casi all’ANAC, in altri all’AGCM. L’ultima legge di regolamentazione organica vittima dell’inerzia dei nostri politici è stata la sintesi delle proposte di legge Silvia Fregolent (IV), Marianna Madia (PD) e Francesco Silvestri (M5S), che era passata alla Camera il 12 Gennaio 2022 ma che non è stata votata in Senato perché, qualche giorno prima della sua discussione, è caduto il governo. Stando a quanto riportato sul Sole24Ore, la legge definiva in maniera ampia i portatori di interesse e ne statuiva i diritti e i doveri secondo il modello della regolamentazione-partecipazione, istituiva un registro obbligatorio e un codice deontologico per i portatori di interesse, dava un’ampia definizione dei decisori pubblici, il tutto sotto il controllo di un Comitato di sorveglianza sulla trasparenza dei processi decisionali pubblici presso l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. La legge comunque era tutt’altro che perfetta e nel paragrafo sulla mia proposta vedremo perché.
I partiti di adesso invece che cosa propongono in tema lobbying? Purtroppo sembra che il tema non interessi quasi a nessuno, e quando interessa è soprattutto per fare una facile retorica completamente slegata da contenuti politici. Il termine lobby compare solo in tre dei programmi dei partiti italiani per le elezioni del 25 settembre 2022. In due di questi, quello di Unione Popolare e quello di Italexit, il termine lobby assume un significato negativo, o perlomeno è associato a qualcosa che nel programma vuole esser connotato negativamente. Nel programma del Partito Democratico, nonostante il suo segretario attuale sia proprio Letta, le lobby non compaiono per niente. Forse Letta nel frattempo si è allineato alla posizione dei suoi vecchi ministri.
Nel programma del partito del giornalista uscito dalla Gabbia, discutendo in relazione al vincolo esterno e allo svuotamento di sovranità del nostro paese, si afferma che «È una strategia destinata al fallimento quella che cerca di superare il vincolo esterno senza agire anche su quello interno, che si annida in alcuni partiti specifici (i partiti di sistema), in alcune lobby potenti e in qualità di funzionari ed eminenze grigie nei palazzi del potere (nei ministeri, in Banca d’Italia), e rappresentano di fatto l’establishment costituito: mentre i ministri passano, quello resta». Le lobby insomma sono associate alle “eminenze grigie” e all’”establishment” e sono visti come corpi estranei da eliminare. Non proprio una proposta di regolamentazione. Da Paragone però non è lecito aspettarsi molto.
Unione Popolare è invece una grande delusione, dato che purtroppo anche fra quelli che dovrebbero essere compagni c’è questa ricaduta da sempliciotti. Nel programma del cartello elettorale patrocinato da De Magistris si arriva addirittura a parlare di “lotta alle lobby”: «6. Operare a livello europeo per una riforma in senso democratico delle istituzioni di Bruxelles con abbandono completo delle politiche di austerità e lotta alle lobby che influenzano la politica della UE. Dare al Parlamento europeo più centralità e forza rispetto al ruolo della Commissione europea». Una parola d’ordine del genere non solo dimostra la loro completa ignoranza su che cosa sia una lobby, ma proprio in virtù di tale ignoranza si dà la zappa sui piedi da sola. Non penso infatti che avrebbero scritto una cosa del genere se avessero saputo che, per esempio, anche le associazioni no-profit in difesa dell’ambiente, quelle per i diritti civili e i sindacati (anche quelli di base!) sono lobby. Dato che (come abbiamo visto) le criticità in tema di lobbying nell’arena europea ci sono, avrebbero potuto sfruttare l’attuale situazione per denunciare la mancanza di trasparenza del Consiglio dell’Unione Europea o i buchi regolamentatori della Commissione; o avrebbero potuto concentrarsi sul fatto che i gruppi imprenditoriali sono quelli più organizzati in termini di accesso a livello europeo, e lavorare per combatterli su quel terreno migliorando il tasso di europeizzazione e di accesso delle lobby a più affini all’Unione. Invece hanno preferito un vuoto proclamo da novelli Le Chapelier.
L’unico partito che nel proprio programma abbia proposto (in maniera generica) una regolamentazione del fenomeno lobbistico è il Movimento 5 Stelle (nella sezione “Dalla parte delle istituzioni”), e questa non è una sorpresa, dato che si tratta di un partito che (bisogna dargliene atto) si è occupato del fenomeno lobbistico con costanza. Il Movimento ha però subito una contrazione di parlamentari rispetto alla precedente legislatura, a favore soprattutto della coalizione di destra-centro, e con tutta probabilità non farà parte del prossimo governo. Questo per la regolamentazione del lobbying non rappresenta affatto un bene. Nessuno dei partiti che fa parte della coalizione menziona il tema. Nei fatti, poi, riferendomi all’ultima proposta di legge sulla regolamentazione organica che è stata presentata, Forza Italia e Fratelli d’Italia sono stati i due partiti che più si sono opposti attraverso l’uso di emendamenti.
Regolamentazione del Lobbying e Socialismo Democratico
Prima di formulare una mia proposta, vorrei discutere del perché ritengo il tema importante da un punto di vista socialista democratico e perché ritengo che sia possibile connotare una proposta in senso socialista democratico. Per darne una risposta, voglio rivolgere l’attenzione su diversi concetti che fanno parte dell’arsenale teorico di importanti pensatori socialisti e comunisti.
Il primo di questi è il concetto di Stato integrale, coniato da Antonio Gramsci. Studiando la funzione degli intellettuali e il comportamento dello Stato soprattutto a partire dal primo dopoguerra, Gramsci argomenta che la classica divisione fra pubblico e privato, fra Stato e Società Civile, fa acqua da tutte le parti se viene intesa (come fanno sia i liberali classici sia gli anarco-sindacalisti) in maniera reale e non funzionale. Egli nota infatti che, fra lo Stato inteso come apparato coercitivo e la società intesa come luogo di interazioni economiche, esistono tutta una serie di associazioni “private” che svolgono però una funzione “pubblica”, e a ciò collega il concetto di egemonia. Queste associazioni ci sono, non possono essere ignorate e anzi svolgono un ruolo fondamentale. La prospettiva trascendente non è quindi compatibile con questo tipo di interpretazione. Gramsci forse aveva in mente soprattutto i partiti, ma io penso che questo possa valere anche per le lobby, dato il loro ruolo di organizzatrici di un’interesse e di pressione sul decisore pubblico. Ecco quindi il motivo iniziale per cui da socialisti e comunisti dovremmo studiare il sistema degli interessi e la sua regolamentazione: per conoscere i rapporti di forza interni allo Stato integrale e contestare l’egemonia delle associazioni filo-capitalistiche e reazionarie in favore di quelle a noi affini.
Cosa connota in senso socialista democratico una proposta di regolamentazione? In merito, due concetti di Karl Polanyi fra loro collegati, ossia quello di embeddedness (radicamento) e il binomio opacità-trasparenza, ci vengono in soccorso. Polanyi formula il concetto di embeddedness nella sua critica della società di mercato, per mostrare come (a differenza delle società precedenti) in essa il mercato autoregolantesi tenda a sradicarsi e a operare come un’entità trascendente che ingloba il resto della società sottoponendola alle sue regole. Io penso però che il concetto di Polanyi possa essere applicato non solo al mercato, ma anche allo Stato. Ciò accade ad esempio quando lo Stato, senza rispettare le comunità e ascoltare i cittadini, impone dall’alto (in maniera trascendente) la propria logica di governo a scapito del tessuto sociale su cui vanno a impattare le decisioni. Lo “Stato autoregolantesi” sarebbe, in pratica, uno Stato burocratico e non democratico. Come impedire (o comunque limitare) la tendenza dello Stato alla burocratizzazione? Fra le risposte possibili credo che la partecipazione della società alla formazione delle politiche pubbliche (attraverso, per esempio, delle audizioni) sia un ingrediente fondamentale. E come fa la società a organizzarsi per partecipare al processo di policymaking? La risposta è semplice: attraverso le lobby. Anche usando le lenti di Polanyi, la prospettiva trascendente è incompatibile con il socialismo democratico.
La partecipazione al processo di formazione delle politiche pubbliche deve però avere delle regole e in merito entra in gioco il binomio opacità-trasparenza. Anche il binomio è stato formulato da Polanyi per criticare la società di mercato, in particolare nella sua incapacità di realizzare pienamente il concetto di libertà. Essendo una società divisa in classi, dove la forza-lavoro (cioè gli esseri umani) è una merce da comprare sul mercato, dove la vita è dominata da forze oggettive impersonali (ossia lo Stato burocratico e il mercato autoregolantesi), e dove gli individui agiscono per massimizzare la propria utilità anche a scapito degli altri, le relazioni sociali tra le persone assumono la forma di relazioni esterne tra le cose. Data questa condizione di reciproco estraniamento generato sistemicamente, gli individui non sono in grado di prendere decisioni morali adeguatamente in merito all’impatto delle loro azioni. La società di mercato è quindi una società opaca. Per Polanyi invece, una società trasparente tende a due cose: la prima è l’uguaglianza sociale e poiltica fra persone, la seconda è la capacità della singola persona di valutare l’impatto che le sue azioni hanno sulle altre persone. Ora, la regolamentazione del lobbying di sicuro non è un rimedio a tutte queste storture, soprattutto quelle riguardanti il rapporto fra le parti della società civile. Ma nei termini del rapporto fra le parti della società civile e lo Stato, la regolamentazione del lobbying e l’equa partecipazione delle lobby alla formazione del processo decisionale permette sia di ampliare lo spazio democratico dello Stato, sia di raccogliere informazioni rilevanti al fine di produrre decisioni e valutarne l’impatto, sia di far emergere quali interessi influiscono sui politici e l’amministrazione pubblica. Sarebbe insomma una piccola vittoria per la trasparenza in senso polanyiano.
Un altro concetto in grado di orientarci è quello di lotta per il riconoscimento, formulato da Axel Honneth. Nella sua ridefinizione del socialismo, questo lemma gioca un ruolo fondamentale, e indica sostanzialmente la lotta per l’eliminazione delle barriere della “comunicazione” sociale. Il socialismo sarebbe quindi, secondo Honneth, un processo di lotta nato all’interno della modernità che mira a intraprendere sforzi sempre nuovi per rendere pubbliche le richieste di gruppi sociali fino a prima ignorati per ampliare i margini d’azione della libertà sociale. A mio avviso, una proposta di regolamentazione del lobbying che includa la partecipazione è in linea con questo modo di intendere il socialismo, non tanto perché dà voce a un gruppo sociale precedentemente ignorato, quanto perché rende la struttura statale capace di dare ascolto a nuovi gruppi sociali nella forma di interessi organizzati.
Da questi concetti si ricava quindi che il modello da adottare secondo una prospettiva socialista democratica sia quello della regolamentazione-partecipazione. La sola regolamentazione-trasparenza infatti, sebbene miri a registrare tutte le influenze esercitate sul decisore pubblico, non garantisce spazi di equa partecipazione alle lobby, con il risultato che quelle con maggiori risorse (e quindi, probabilmente, soprattutto quelle imprenditoriali) possano essere quelle con più capacità di accesso e influenza. Inoltre, anche da un punto di vista strettamente politico, ritengo estremamente utile proporre questo tipo di regolamentazione. Dato che i partiti si sono indeboliti e siccome non esiste un forte partito capace di rappresentare le istanze socialiste e comuniste, nel caso di una buona regolamentazione le lobby orbitanti attorno al mondo socialista e comunista (sindacati, cooperative e terzo settore, associazioni ambientaliste, pacifiste, femministe) avrebbero comunque a disposizione una valida arena in cui poter influire sul processo decisionale.
La mia proposta
Con ciò ho tutti gli elementi necessari per formulare una mia proposta. Inizierei mettendo in evidenza i problemi che caratterizzavano l’ultima proposta di legge. Innanzitutto, questa escludeva Confindustria e i sindacati dagli obblighi di trasparenza, con la scusa che questi svolgono attività di concertazione. Inoltre, metteva a carico delle lobby l’onere della pubblicazione degli incontri, quando l’onere della trasparenza dovrebbe essere a carico dello Stato. Infine, non menzionava l’obbligo di eque consultazioni pubbliche delle lobby interessate a determinate policy: si trattava, insomma, di un modello di regolamentazione-trasparenza che però privilegiava gli interessi corporativi.
Ora, per punti, esporrò la mia proposta. Innanzitutto, credo sia necessaria l’abolizione dell’articolo 99 della Costituzione, ossia l’articolo istitutivo del CNEL. Lo ritengo un passo importante, dato che la sola presenza di questa istituzione per me rappresenta un privilegio ingiustificato per le lobby corporative (privilegio che arriva fino all’affidamento di capacità legislative).
Poi, dal lato dei lobbisti, credo sia necessario innanzitutto istituire un Registro unico nazionale a iscrizione obbligatoria (unico perché le definizioni e le regole valgono per tutti i livelli amministrativi). La definizione di chi dovrà iscriversi a questo Registro dovrà essere tale da coprire sia i lobbisti conto terzi che quelli in house, e dovrà riguardare tutte le attività di pressione che una lobby può mettere in campo nei confronti del decisore pubblico (compresi i lavori a essi preparatori). Il Registro conterrà informazioni sulle varie lobby, fra cui soprattutto gli interessi che intendono tutelare e i settori di lobbying su cui si intende influire, i nominativi delle loro fonti di finanziamento e le politiche su cui hanno influito e su cui intendono farlo. Questo registro sarà detenuto Comitato di sorveglianza sulla trasparenza dei processi decisionali pubblici, che sarà istituito presso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (e non, come in altri casi, presso l’ANAC, dato che il fenomeno va inquadrato in termini di concorrenza fra le parti sociali e non in termini di corruzione). Questo Comitato dovrà avere poteri sanzionatori in caso di violazione (p. es. multe, interdizioni dai pubblici uffici e cancellazione temporanea o permanente dal registro) e di controllo della veridicità dei dati immessi.
Dal lato del decisore pubblico, questo va individuato in maniera abbastanza ampia da considerare tutti i decisori rilevanti ai fini del policymaking (su tutti i livelli amministrativi) e la definizione deve essere tale da comprendere anche i membri dei loro staff e gli alti funzionari. Vanno poi limitate le regalie (sia nei loro confronti che in quelle dei familiari) e vanno registrate quelle di valore inferiore al limite posto in essere. Spetta poi alle istituzioni l’obbligo rendere pubblici, in un apposito Registro, tutti gli interessi di cui sono a qualsiasi titolo portatori e tutte le attività o funzioni retribuite da loro esercitate, e di fornire informazioni sugli incontri svolti coi portatori d’interesse entro 15 giorni dal termine dell’incontro, rendendo pubblici la data e il motivo dell’incontro, il nome del decisore pubblico incontrato, la tematica trattata e il nome della società incontrata (il tutto sul sito web di riferimento all’istituzione). Questi obblighi vanno presi seriamente, per cui le sanzioni devono poter arrivare (come per il Parlamento UE), a fronte del continuo inadempimento, fino alla sospensione dall’ufficio. Va poi disciplinato il fenomeno del revolving door, prevedendo un periodo di cooling off (impossibilità di iscrizione al Registro unico nazionale dei lobbisti) di 2 o 3 anni per tutti i decisori definiti.
Quanto detto rileva sul lato trasparenza. Per quanto riguarda il processo di partecipazione democratica al policymaking invece, io punterei soprattutto sulle audizioni e sull’AIR. Per quanto riguarda le audizioni io sono un fautore del modello statunitense. Questo implica l’eliminazione della pratica degli incontri informali, il diritto di convocazione spettante ai lobbisti, l’annuncio delle udienze con almeno una settimana di anticipo a tutti i portatori di interesse per cui rileva il provvedimento in discussione, la possibilità per ogni lobbista di esporre le proprie ragioni per un tempo definito (uguale per tutti), il contraddittorio con la commissione e la possibile modifica o l’integrazione del progetto di legge alla luce degli argomenti ascoltati. per quanto riguarda l’AIR, invece, a livello governativo è necessario trovare un modo per sanzionare la disapplicazione della sua obbligatorietà, mentre per quanto riguarda le Regioni ritengo sia benefico estendere il modello della Campania.
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The Good Lobby – Una legge sul lobbying, per il bene della democrazia
https://pagellapolitica.it/articoli/programmi-partiti-elezioni-2022
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