Non è raro sentire l’uso di termini che, oramai, sono connaturati nel linguaggio comune come nazionalismo o populismo, i quali vengono spesso connotati con il medesimo significato.
Infatti, se l’identificazione del nazionalismo col populismo, termine connesso storicamente a mobilitazioni avverse alle istituzioni nazionali, può essere opinabile (per molti studiosi, due fra tutti Pier Aldo Rovatti e Alfonso Iacono, «populismo» è un termine abusato, di carattere puramente giornalistico senza alcun valore euristico), l’ondata populista che sta investendo le attuali istituzioni occidentali è composta da una forte componente di tipo nazionalista. Tale componente vuole essere la garanzia della difesa dell’identità nazionale contro le ingerenze tecnocratiche e globaliste, ritenute dirette da organi elitari e rigorosamente stranieri: secondo questa visione del mondo, al popolo inteso come aggregato indistinto di «moralità e disinteresse» rappresentante i più, viene associata la duplice ideologia di nazionalismo come emancipazione nazionale dall’oppressione ed esaltazione della potenza nazionale in ogni sua espressione. Se la prima non necessita della seconda per esistere (basti pensare le lotte anticolonialiste in Africa o Indocina), la seconda necessita della prima per darsi un senso che possa essere compreso ed universalmente accettato dai più.
L’interrogarsi sul motivo della presunta universalità di tali istanze è necessario, affinché si capisca quanto il tipo di nazionalismo radicato all’interno delle logiche vigenti abbia in comune la stessa base ideologica dei fenomeni culturali e politici nati negli ultimi vent’anni del XIX secolo: ciò si prefigge questa tesi, in cui si vuole analizzare quanto le cause del neonato nazionalismo ottocentesco possano spiegare il nazionalismo corrente.
Quello che prima del 1880 poteva venir definito come un nazionalismo aperto, solidale, fraterno fra stati, aveva come basi salde le teorie fiorite dalla Rivoluzione Francese e dal Risorgimento italiano (con particolare riferimento verso la Repubblica Romana e le tesi mazziniane, nelle quali la Nazione si affermava come massimo garante dei diritti naturali ed imprescrittibili di qualsiasi essere umano) non sopravvisse all’abbandono dell’idea di «Repubbliche Consorelle» o di «Stati Uniti d’Europa». L’astio revanscista francese dopo la sconfitta di Sedan, la nascita del Partito Nazionalista come terza forza politica italiana o la creazione di associazioni ultranazionalistiche con un enorme bacino di consensi tipiche dell’Inghilterra e della Prussia posteriore a Bismarck hanno aperto la strada nei rispettivi stati alla psicosi collettiva, nella cui spirale venne trascinata la stampa sensazionalistica, dalle cui colonne veniva celebrata l’arte della guerra come tutela degli interessi nazionali dall’incapacità del governo di imporsi risolutamente in campo internazionale. L’abbandono del principio della taglia minima, per cui le rivendicazioni nazionali su nuove terre trovavano legittimità solo quando queste, soggiogate al dominio straniero, concorrevano alla formazione di uno stato definito dall’aggregazione di realtà preesistenti e affini per lingua e tradizione, ha portato alla ricerca della giustificazione delle mire espansionistiche nei principî di etnia e razza, mutuati dalle teorie evoluzionistiche e dal metodo di classificazione dei viventi e trasposti nell’ambito del genere umano. La stessa importanza viene data alla creazione di una lingua nazionale, come l’irlandese, desunto da un lento ed artificioso processo di accostare le caratteristiche dei molti dialetti presenti sull’isola.
Si può affermare che tali discriminanti abbiano non solo esaltato il semplice sentimento nazionale come senso di appartenenza ad una determinato sostrato culturale, bensì l’abbiano distorto entro i confini della fede e del mito, innalzandolo a paladino del diritto politico della nazione. In tal senso, la spirale che porta allo sciovinismo come più alta espressione della sacralità della Nazione ha sempre bisogno di un notevole innesco, dato da un diffuso malcontento di massa. È da tal punto che già si rendono visibili gli elementi comuni delle due forme di nazionalismo, quello di fine ’800 e quello del secolo corrente, tali da identificarle in un solo corpo ideologico, definito con lo scopo di costruire un apparato culturale a copertura di una triplice azione: la sedazione diretta dei moti popolari e dei conflitti di classe; lo sviamento della comprensione della realtà del subalterno grazie ad efficaci mitologie nazionali; e l’incanalamento delle energie degli agenti sociali in una gramsciana rivoluzione passiva per toglier vigore e radicalità alle istanze trasformative da istituzionalizzare, queste ridotte, depotenziate, e rese reazionarie.
Il primo punto citato è ben dimostrato da Paul Kennedy in Germania ed Inghilterra in competizione, in cui viene ben delineata la composizione dei quadri e dei sostenitori dei maggiori movimenti nazionalisti inglesi e tedeschi. La Lega Navale Britannica rappresentava, a fine Ottocento, in tutto e per tutto il gruppo sociale dominante che utilizzava il suo peso politico – dato anche dal pressante proselitismo in ogni ambito della società – per muovere la politica a proprio vantaggio. L’equivalente tedesco del 1898 venne fondata dalle lobby dell’industria pesante ed operava di concerto col Bureau dell’ammiraglio Tirpitz. Seconda forza tedesca, ma non per bacino di proseliti, fu la Lega Pangermanica, facente parte dell’opposizione nazionale al governo e costituita da personaggi in ambito strategico. Costoro avevano mansioni che spaziavano dal campo dell’istruzione a quello dell’economia sino alla politica e all’amministrazione dello stato del Kaiser. Di netta importanza è sottolineare il potere della Lega sulle decisioni del governo il quale, per avere il suo appoggio, doveva cedere alle sue posizioni visto il netto rifiuto della Lega Pangermanica di instaurare un piano di mediazione.
Gli interessi che queste leghe ultranazionalistiche perseguivano erano rappresentati dagli interessi della borghesia industriale dei paesi avanzati e consistevano principalmente nella lotta al socialismo (visto come causa ed effetto della fragilità dello stato) e nel garantirsi un solido piano politico e di legittimazione popolare rispetto le loro azioni in campo internazionale. La lotta al socialismo era dettata dalla necessità di eliminare quella dottrina che poneva la classe proletaria come negazione assoluta della società borghese con l’esatto antagonismo nelle componenti ideologiche: se il socialismo di stampo marxista propugnava un programma rivoluzionario ed internazionalista (il famoso Proletarier aller Länder, vereinigt euch! del Manifesto), tali associazioni presentavano un programma di tipo conservatore e decisamente legato all’esaltazione della Nazione. Il consenso popolare rispetto alle loro azioni invece era dettato dall’esigenza di giustificare politiche imperialistiche totalmente a favore del proprio tornaconto o, nel caso italiano, per garantire ai settori produttivi la protezione economica di uno stato già immesso nella corsa alle colonie, concorrente della Francia nel Nordafrica: un esempio evidente del primo caso sono le politiche coloniali prussiane successive alla cancelleria di Bismarck, necessarie al fine di rifornire il settore secondario – tra i più sviluppati di allora – di un continuo flusso di materie prime.
Tali legittimazioni popolari traevano spunto dal nuovo concetto di razza entro cui erano promosse le azioni civilizzatrici del «fardello dell’uomo bianco» di Kipling e di Pascoli e dell’affermazione del primato di una cultura sulle altre. Esempio su tutte era quella tedesca che, con la Dichiarazione dei Professori dell’Impero Tedesco, si dichiarava superiore poiché fondate sulla scienza tedesca di cui l’esercito, identificato col popolo stesso, ne determinava la massima manifestazione (la disciplina che tanto si esalta, in tal caso non è altro che la disciplina di fabbrica e lo studio gestionale finalizzato all’aumento di efficienza); altro discorso apparteneva al ragionamento della purezza linguistica tedesca di Fichte o al movimento dell’hegeliano Spirito Assoluto che si risolveva completamente nella società tedesca, secondo i quali si affermerebbero i connotati superiori della cultura germanica. Entro tal narrazione viene a manifestarsi la paura del diverso, data dalle migrazioni di massa dove tutti si sentivano estranei e grazie alle quali, sfruttando la leva di compressione salariale data dalla creazione di un’aristocrazia proletaria dei lavoratori autoctoni nei confronti dei lavoratori stranieri (mancanti di un vero e proprio potere di contrattazione), la borghesia industriale riusciva a resistere alle richieste di innalzamento del livello salariale e, allo stesso tempo, riusciva a creare forti contrasti tra lavoratori autoctoni e non, con l’antica strategia del divide et impera.
Oltre a queste strategie, Pascoli e Corradini dimostrano quanto si possa incanalare il malessere della massa e rendere delle istanze emancipative realmente reazionarie: ambedue, al fine di appianare il conflitto di classe, figurano l’Italia come patria proletaria, sfruttata per eccellenza, che deve stringersi nell’unità militare per redimersi ed andare a conquistare ciò che è diritto inviolabile della massa, il proprio sostentamento e la liberazione dal dominio straniero. In tal caso, in Pascoli più che in Corradini, si evidenzia una contraddizione che verrà alla luce durante la costruzione del PNF, ovvero l’esaltazione della componente sociale di tal nazionalismo, ponendo un messaggio progressista all’interno di un apparato ideologico fortemente compromesso e reazionario, tale da depotenziare ogni istanza realmente progressista: nello stesso Pascoli esistono elementi stridenti come la fede verso un socialismo umanistico, la negazione del concetto di lotta di classe, l’esaltazione della mobilità sociale, la felicità dell’individuo che lavora all’interno della propria classe, la pace sostanziale e la necessità di muover guerra.
L’analisi a cui si è sottoposto il periodo in cui nasce il nazionalismo di fine Ottocento determina importanti analogie con quello moderno (tanto che si può affermare il fatto che condividano ambedue la stessa base), pur avendo superato il modello imperialistico puramente coloniale. I nazionalisti del Nord Europa puntano all’amplificazione della paura identitaria generata dei flussi migratori incontrollati, creando proseliti in particolare nei subalterni: persiste ancora un modello di nazionalismo “di destra”, attivamente antagonista a qualsiasi tipo di internazionalismo e puramente usato per la strategia del dividere il soggetto politico per controllarlo meglio. Nei paesi del Sud le cause dell’aumento del bacino elettorale di partiti nazionalisti sono dovute dal lungo e travagliato periodo di crisi economica che colpì, parlando principalmente dei PIGS, le fasce più basse della società, decretando radicalmente la sfiducia nelle istituzioni europee e nelle capacità delle politiche monetarie di assorbire gli squilibri venutisi all’interno dell’Eurozona. Questi nazionalismi “di sinistra” ripercorrono ancora quella contraddizione dell’elemento progressista nell’impianto reazionario, volendo proporre politiche economiche di sinistra aumentando la spesa pubblica all’interno di un atteggiamento tipicamente distensivo nei confronti dei conflitti sociali.
— Elia Pupil