I rapporti tra Arabia e Qatar. Uno scossone idrocarburico nel mondo arabo

Veduta aerea di Doha, la capitale del Qatar

Il 23 giugno, i Paesi del cosiddetto Blocco Arabo, ossia Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto, rispettivamente tre monarchie assolute e una dittatura militare tutte di stampo islamico conservatore, hanno consegnato alle autorità qatariote un ultimatum, dovuto de iure alla presenza di terroristi e dei finanziamenti ai terroristi quali Al-Nusra e Al-Qaeda in Siria, ed ai rapporti amichevoli con l’altra sponda del Golfo, l’Iran. La reazione del Qatar è stata di totale rifiuto delle condizioni richieste: il 5 luglio sono state pervenute le risposte ufficiali dell’emiro del Qatar riguardo alla situazione, e dando all’Arabia Saudita dello Stato arrogante, nonché sostenendo che tali provocazioni in passato si sono risolte con l’aggressione, evocando il III Reich e la Polonia.

Riad potrebbe minacciare a sua volta un intervento armato, avendo dieci volte più esercito rispetto a Doha, ma ormai è passato oltre un mese e gli scontri diplomatici si sono conclusi, per ora, con un embargo dell’Arabia Saudita ed alleati nei confronti della piccola penisola qatariota, dunque chiudendone l’unico confine terrestre, una linea di un centinaio di chilometri in pieno deserto. L’Arabia Saudita, infatti, oltre ad avere il predominio politico in Arabia, avendo scatenato la guerra dello Yemen per sospetti di finanziamenti iraniani nella zona, ad aver legato a sé l’Oman, ha una fortissima influenza nei Paesi africani, soggiogati dal Fondo per lo sviluppo, che infatti hanno subito preso le posizioni del Blocco Arabo nei confronti del Qatar, come le isole Mauritius, le Comore, il Senegal, la Mauritania, il Niger, il Ciad ed il Gabon, tutti Stati subsahariani dall’economia fragilissima a maggioranza o con una presenza sostanziale di devoti ad Allah. È erogando i fondi direttamente alle personalità delle istituzioni locali, che la monarchia assoluta saudita corrompe e mantiene a livelli preoccupanti la corruzione locale, per poi poter attuare una vera e propria politica imperialista impegnata a privare queste popolazioni delle ricchezze della loro terra e facendo costruire infrastrutture con una notevole presenza di tangenti alla base. Il Qatar, impegnato in una missione di pace, ossia in un’operazione militare della Nato nel confine tra Gibuti ed Eritrea, ha visto l’inimicarsi di entrambi gli Stati come una minaccia diretta per le truppe coinvolte, ritirate, poiché lo Stato saudita ha un potere enorme sul Corno d’Africa, dove costruisce scuole coraniche e moschee, per influenzare col modello wahhabita, ultraconservatore e assolutistico, l’islam di quei luoghi, molto più libertario. Al contempo il Qatar ha intrapreso un ruolo di pacificatore tra Sudan e Darfur, così da ridurre al minimo gli attacchi Nato nella zona, ed è tanto influente da mantenere entrambi gli Stati neutrali all’embargo, nonostante le pressioni saudite.

Le condizioni espresse dall’Arabia al Qatar minano inoltre, in un’onda ipocrita antiterroristica, la libertà d’informazione, con l’obbligo di chiusura della testata Al-Jazeera, e di evitare i finanziamenti e i contatti col gruppo islamico filo-marocchino dei Fratelli Musulmani, che governavano l’Egitto prima della dittatura militare di Al-Sīsī. Tali esponenti erano i promotori delle Primavere Arabe e portatori di una rivisitazione più democratica e libera della religione islamica, secondo la linea che rimanda ai fasti dell’Impero Arabo di Mohammed VI di Marocco, che mira ad un intervento diplomatico per rilassare i toni, come il presidente turco Tayyp Erdoğan. È proprio il Marocco a opporsi direttamente al potere saudita, per costituire un polo arabo come quello che fu la Libia di Gheddafi, fornendo cibo all’emirato qatariota, e facendo inoltre leva per la neutralità della Nigeria, dell’Algeria della Tunisia, mentre la Turchia ha istituito un ponte aereo per l’approvvigionamento alimentare, annullando quindi l’embargo, data l’opposizione, con la base turca a Doha, gli interessi sul petrolio e il gas liquido, alla predominanza saudita in Arabia, a sua volta appoggiata dal Presidente statunitense Donald Trump.

Però non tutti gli Stati Uniti sono d’accordo col Potus, infatti il Dipartimento di Stato si dichiara contrario alla prepotenza saudita, seppur dando solo una disapprovazione morale e concludendo con un nulla di fatto, e con l’implicita tendenza allo status quo con un alleato controverso ma oltremodo comodo per gli idrocarburi. Il Blocco Arabo, d’altra parte, esige l’espulsione dei sauditi, egiziani, emiratini e bahreiniti ed una cessazione dei rapporti con l’Iran, assieme al quale il Qatar condivide il più vasto giacimento di gas liquido al mondo, e anche per evitare un ingresso prepotente di Teheran sul mercato globale degli idrocarburi, cosa che sconvolgerebbe l’attuale monopolio degli Stati filo-statunitensi, in primis Riad.

In questa guerra a parole, le bombe lanciate erano, e sono, accuse fondate di finanziamento al terrorismo, da entrambe le parti. L’Arabia nell’ultimatum, oltre a pretendere ridicoli risarcimenti «per il disturbo», accusa l’emirato assoluto qatariota di proteggere dei «terroristi», quando entrambe le monarchie islamiche perseguono nei finanziamenti diretti di denaro e armi ad Al-Nusra e al Califfato Islamico, in chiara funzione contraria al governo del Presidente siriano Bashar al-Assad e contro il popolo siriano, per combattere gli ultimi rimasugli di socialismo arabo del partito della Ba’th, e poter mettere le mani sul petrolio siriano, che è recluso in maniera similare all’alleato persiano. La tensione petrolifera tra i due Paesi è tale che il Bahrain, uno stato insulare del Blocco Arabo pressoché soggiogato all’Arabia Saudita, ha indetto tre anni fa una straordinaria repressione della rivoluzione repubblicana, promossa dagli sciiti, la maggioranza locale, contro il monarca sunnita. Tale repressione è poi sfociata in questi giorni con uno scandalo tra i due piccoli emirati nel Golfo, con delle intercettazioni tra l’ex-Primo Ministro qatariota col leader del partito sciita Wefaq, il motore rivoluzionario, per minare gli interessi e la stabilità della zona, il cui unico collegamento terrestre è un’autostrada sopraelevata al mare che connette l’arcipelago bahreinita con la penisola araba.

Sempre sul terrorismo i fatti recenti di Barcellona puntano il dito, nonostante il fondatore dello Stato Islamico di Siria e Iraq, tale Abu Mus’ab al-Zarqawi, dal gruppo terroristico Al-Qaeda in Iraq, sia stato addestrato dagli stessi “Stati Uniti e alcuni alleati europei [che], attraverso militari specializzati, addestrano i ribelli siriani affinché garantiscano scorte di armi chimiche in Siria” (fonte CNN del 2012), difatti in quell’anno i combattenti del Califfato sono intervenuti direttamente contro il governo di Bashar al-Assad, e nel 2013, avendo conquistato una parte del territorio siriano e scelsero come propria capitale Raqqa.

Questi «alleati» degli Stati Uniti chiamati tali dal comunicato ufficiale del CNN sarebbero la Turchia, che è il responsabile del reclutamento di militanti e del rifornimento di armi tuttora in corso allo Stato islamico e ad al-Nusra (gruppo radicale islamico siriano) dall’inizio del conflitto in Siria nel 2011, sarebbero gli Emirati Arabi, che liberarono dalle sue carceri migliaia di detenuti a condizione che si uniscano alla lotta dell’Isis contro Assad in Siria, sarebbe Israele, che sostiene le brigate di Is e al-Nusra nel Golan, un territorio conteso da Israele e Siria: nel febbraio 2014 il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, visitò un ospedale al confine con la Siria, dove strinse la mano ad un ribelle islamico siriano ferito, sarebbe il Qatar, ove si insegnò la pratica delle decapitazioni nei loro campi di addestramento. Inoltre è molto ambigua la posizione attiva americana sul fronte dei bombardamenti, all’inizio dell’azione contro l’ISIS molto sporadici, e diretti per di più all’infrastruttura economica e petrolifera dell’Iraq e della Siria, invece di colpire direttamente l’ISIS.

Il paradosso è che, mentre l’Isis è cresciuta grazie al sostegno americano, l’obiettivo “strategico” degli Stati Uniti è la lotta contro l’islamismo radicale del gruppo jihadista.

La campagna anti-terroristica contro Al Qaeda iniziata nel 2001 e lo Stato islamico ha contribuito notevolmente alla «demonizzazione» dei musulmani, che sono associati alle crudeltà degli jihadisti, mettendo poi sotto l’obbiettivo della Difesa e del Governo la vita dei cittadini, violando le libertà civili e la privacy, con decreti-scusanti come il Patriot Act americano. Inoltre chiunque metta in discussione la “guerra al terrore” è dichiarato terrorista e sottoposto alle numerose leggi anti-terrorismo approvate negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti. Inoltre, nell’estate del 2013 il senatore repubblicano degli Stati Uniti John McCain, ora il maggior critico repubblicano dell’azione presidenziale di Donald J. Trump, incontrò i leader terroristi jihadisti, tra cui militanti dell’Isis compreso lo stesso Al-Baghdadi.

Saltano all’occhio però le cause economiche dello scontro tra Arabia e Qatar, mai nominate ma implicitamente intese da tutte le parti: l’apertura del Qatar all’Iran, il quarto maggior produttore di petrolio dopo rispettivamente Venezuela, Arabia Saudita e Canada, dovuta alla maggioranza sciita nel paese e alla contiguità dei giacimenti di gas liquido, di cui sono infatti il primo e il secondo produttore al mondo, mina ulteriormente il predominio economico petrolifero saudita, garantito dal petroldollaro e dall’alleanza con gli Stati Uniti. Se l’Iran, tramite il Qatar, raggiungesse il mercato mondiale, vi sarebbe una notevole quantità di petrolio slegato al dollaro, la cui egemonia è già discussa dal Venezuela di Nicolás Maduro. Nel secondo dopoguerra il commercio internazionale si era strutturato in maniera tale da utilizzare esclusivamente la moneta americana; tutto il mercato delle materie prime, e tra queste anche il petrolio, avveniva esclusivamente in dollari. Sono questi i motivi, assieme al Minotauro globale che hanno permesso al dollaro, nonostante la rottura dei trattati di Bretton Woods, di continuare a svolgere la funzione di moneta mondiale.

In seguito alle continue svalutazioni del dollaro, alcuni paesi produttori di petrolio hanno posto l’accento sulla necessità d’utilizzare altre monete nel commercio dell’oro nero. Per gli Stati Uniti sarebbe un colpo durissimo se il prezzo del petrolio non dovesse esprimersi più in dollari. Il nesso che esiste tra prezzo del petrolio e valore del dollaro, ha consentito agli Stati Uniti di trarre considerevoli vantaggi sia politici che economici. Dato che il prezzo del petrolio è espresso in dollari, è possibile far aumentare la domanda di dollari sul mercato mondiale con la compravendita forzata dei titoli della FED per tenere fermi i tassi di cambio, in vista delle ingenti riserve globali in dollari, e quindi il suo valore facendo lievitare il prezzo del petrolio. Mentre gli altri paesi, per far aumentare il corso della propria moneta, devono alzare i tassi d’interesse, con un aggravio nella gestione del debito pubblico, gli Stati Uniti hanno la possibilità di rivalutare il dollaro facendo aumentare il prezzo del petrolio. Per questo motivo gli Stati Uniti possono praticare dei tassi d’interesse più bassi, con notevoli risparmi nella gestione del debito pubblico, ed avere nello stesso tempo un afflusso di capitali stranieri.

La tendenza saudita da tre anni a questa parte è la progressiva diminuzione del prezzo del petrolio aumentando la produzione. Ma perché l’Arabia Saudita fa ciò? La motivazione più accreditata è sulla volontà saudita di distaccarsi dal petroldollaro e dalla produzione degli scistosi statunitensi, in una vera e propria guerra finanziaria contro la produzione americana, il cui declino viene maggiorato difatti dalla diminuzione dei prezzi, nonostante il continuo aumento di consumo d’energia nelle economie avanzate. Ma i risultati di questa azione di Riad porta anche una diminuzione delle vendite di riserve saudite, decresciute nel periodo 2014-2015 di 100 miliardi di dollari.

Per controbilanciare l’offensiva petrolifera saudita, l’OPEC dovrebbe far diminuire la produzione globale di petrolio, così da mantenere il prezzo stabile in vista dell’entrata dell’Iran nel mercato del greggio, e di un conseguente incremento iraniano di circa +0,6 milioni di barili al giorno in un anno, secondo quanto stimato dal FMI, che al contempo calcola che se l’OPEC non attuasse le misure di stabilizzazione del prezzo, questo crollerebbe intorno al -5%/-10% rispetto ai valori del 2015. La crescita di diverse economie occidentali nel 2016, in ispecie in Italia, è infatti dovuta all’abbassamento drastico del prezzo del petrolio, e non alle riforme in salsa neoliberista che vengono propinate ai popoli per la difesa dell’élite borghese locale ed internazionale. Eduard Gracia, responsabile della società di consulenza AT Kearney, afferma che la decisione dell’Arabia Saudita di non tagliare la produzione è dovuta in parte alle dinamiche di offerta-domanda del mercato globale. «Ha senso solo tagliare la produzione se la situazione dell’approvvigionamento è tale che una piccola riduzione dell’output comporta un notevole aumento dei prezzi», ha detto Gracia ad Al Jazeera. «In una situazione di sovraccarico globale questo non può essere il caso, quindi l’appello di una strategia di taglio della produzione non è chiaro».

Frattanto che la Repubblica Islamica d’Iran aumenta la propria produzione, ciò non fa altro che aumentare le pressioni economiche sull’Arabia Saudita, che attua infatti una spesa pubblica, quindi anche quella privata dei governanti, sempre più austera rispetto ai fasti di qualche anno fa, come testimoniano i blocchi di nuove infrastrutture in Arabia Saudita, dove peraltro il 90% del PIL è da parte degli introiti petroliferi, i tentativi di ridimensione dello spreco energetico e gli ordini dismessi di automobili e arredamento da parte del sovrano Salman, il cui isolamento del Qatar è tanto un monito all’Iran sul petrolio quanto un’affermazione del potere saudita in Medioriente e sul Corno d’Africa.

In questo clima di incertezza, l’incremento del PIL saudita del 2015 fu la metà rispetto alla crescita del 4,4% di Teheran, e le agenzie di rating iniziano già a rivalutare al ribasso la sicurezza dell’economia del regno d’Arabia, come Standard and Poor’s che abbassa il rating da AA-/A-1+ ad A/A-1 nell’ottobre 2015, con un avvertimento di un possibile ulteriore degrado, aumentando i costi dei prestiti, mentre il governo saudita intende vendere 20 miliardi di debito alle banche locali, riducendo l’importo dei prestiti ai privati.

— Compagni Elia ed Emanuele

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