La pedagogia hacker come pratica educativa

  1. Introduzione

Il libro Pedagogia Hacker di Davide Fant e Carlo Milani espone, con una considerevole quantità di esempi, l’approccio della pedagogia hacker come viene elaborato dal Centro Internazionale di Ricerca per le Convivialità Elettriche (CIRCE). Per capire di cosa stiamo parlando occorre partire più che dalla teoria dal contesto in cui queste pratiche nascono, ovvero gli hacklab. Si tratta di comunità pratiche e laboratori in cui ci si ritrova per smontare, rimontare e smanettare con i computer, le schede elettroniche, le macchine per videogiochi da bar in spazi occupati o con un forte approccio comunitario ed emancipante rispetto alla tecnologia. Gli hacklab annualmente si danno appuntamento in hackmeeting autogestiti, cioè dove non esiste chi organizza o fruisce ma solo chi partecipa. In simili contesti emerge la pedagogia hacker che evidenzia il valore pedagogico delle competenze e delle attitudini caratterizzanti questi luoghi. Parliamo della condivisione mutualistica, dell’autogestione accorta delle risorse e delle energie, della curiosità, della creatività e della ricerca della bellezza nel gioco con la materia. L’idea di hacker di Fant e Milani può essere racchiusa nell’immagine di una bambina curiosa che quando prende in mano un gioco lo vuole smontare per capire come funziona, cosa succede al suo interno, per apportare modifiche, miglioramenti e poi raccontare a tutti ciò che ha scoperto. A questo punto è bene provare a definire meglio i principi della pedagogia hacker. Il primo punto esposto da Fant e Milani è la necessità di avere un approccio critico e problematizzante rispetto al mondo e in particolare nei confronti della tecnologia. L’hacker si pone domande e problematizza la realtà. Davanti ad un problema che ritiene importante inizia a pensare, lavorare e operare per risolverlo. Si tratta di una persona curiosa appassionata anche della tecnica. Per questo motivo davanti ad un oggetto tecnologico sente il bisogno di smontarlo per vedere come funziona e cosa c’è dietro per poi reinventarlo e adattarlo anche per altri scopi, indipendentemente dall’obsolescenza dell’oggetto. Il secondo principio è la desacralizzazione della tecnica. Nessuna tecnologia è sacra e quindi tutto può essere smontato e rimontato. In questo modo si tenta di andare oltre l’immagine della tecnica come un vasto insieme di apparecchi di cui nessuno conosce il funzionamento e per questo motivo viene delegata agli esperti la gestione delle relazioni tecniche. Il terzo principio è il legame tra apprendimento e piacere. La fatica dell’apprendimento non è motivata dal guadagno economico ma dal piacere di superarsi, di creare e di divertirsi scoprendo le soluzioni ai problemi percorrendo strade inedite. Il quarto principio sostiene che l’hacker non debba seguire nessun canale ufficiale per il proprio apprendimento ma sceglie di volta in volta i propri obiettivi di apprendimento autorganizzando il proprio tempo di lavoro e di studio. Infine troviamo l’idea della dimensione sociale del sapere e della conoscenza come bene collettivo. L’attitudine degli hacker si realizza facendo circolare ciò che si è appreso, crescendo e imparando insieme. La conoscenza è un bene collettivo da mettere a disposizione per tutti. Questa attitudine non è circoscritta al solo computer ma si espande a tutti i sistemi tecnici di interazione e a qualsiasi apparecchio artificiale reso operativo per via elettrica, meccanica o in altri modi. Per questo motivo negli hackmeeting non è insolito vedere, accanto al coding di software e smanettamenti hardware, anche esperienze di panificazione, di coltivazione, di serigrafia e tante altre attività analogiche. Ovviamente anche la cultura hacker possiede dei lati negativi e per questo motivo una pedagogia critica hacker deve avere un approccio critico e dialogico anche verso la stessa realtà hacker che è composta da tendenze molto diverse tra loro. Ci sono hacker comunisti come hacker vicini all’individualismo liberista fino ad arrivare al suprematismo transumanista. L’attitudine hacker, inoltre, può essere tentata dal proporre un approccio soluzionista secondo cui qualsiasi problema ha soluzioni tecniche. Secondo Fant e Milani in questo modo si rischia di scivolare verso il mito del progresso e di vedere la razionalità risucchiata da una tecnocrazia salvifica che annulla la dimensione politica e umana. Un altro aspetto da criticare della cultura hacker è la sua dimensione individualistica e performativa che può avere risvolti negativi come il culto dell’eccellenza e il superamento costante del limite stesso come limite di tempo, di energie profuse e limiti corporei. L’idea di pedagogia hacker proposta da Fant e Milani si muove nel solco della pedagogia critica e in questo modo è possibile far emergere questi elementi negativi per affrontarli in maniera dialogica e riflessiva. Essere consapevoli delle ambiguità della cultura hacker è una precondizione per dare spazio alle sue potenzialità generative rispetto a quelle distruttive. La pedagogia hacker, inoltre, per sfuggire alla dimensione iper-razionalista e tecnica propria dell’ambito in cui nasce, innesta al suo interno anche pratiche volte alla disalienazione di fronte alla tecnica. L’obiettivo della riduzione dell’alienazione è raggiungibile attraverso lo sviluppo di tecnologie appropriate intese come tecnologie proprie, specifiche, di nostra proprietà essendo beni collettivi e costruiti in stretta connessione con l’umano, la sua precarietà e ineffabilità. Per questo motivo nella pedagogia hacker non manca mai la dimensione del gioco perché esso porta con sé la dimensione artistica, poetica, simbolica e narrativa che serve a mantenere viva nelle nostre pratiche la dimensione del corpo, emotiva, conflittuale, relazionale e di potere. Si tratta di dimensioni tipiche del vivente utili ad analizzare i processi di ibridazione con le macchine che ci piacciono e con cui costruire relazioni conviviali.

2. Attività di presentazione

Fant e Milani utilizzano per iniziare i laboratori di pedagogia hacker un gioco utile a stimolare la riflessione sulla tecnologia e per assumere una postura problematizzante che facilita la formulazione di domande di senso sul tema. L’attività si chiama Conferenza intergalattica e propone di simulare un gioco con ambientazione fantastico-fantascientifica dove si narra di una galassia vicina ad un grande conflitto tra quattro pianeti, cioè quello degli Ingegneri, dei Mistici, degli Smanettoni e dei Giurassici, a causa delle reciproche incomprensioni e delle distanze ideologiche. Ogni pianeta vorrebbe imporre la propria idea sul resto del sistema stellare e per questo motivo siamo vicini allo scoppio della guerra. Per evitare questo esito bisogna trovare una mediazione attraverso una riunione tra i rappresentanti di ogni pianeta. I partecipanti sono tenuti, a questo punto, a scegliere il proprio pianeta di appartenenza sulla base della propria attitudine prevalente nei confronti della tecnologia. Il pianeta degli ingegneri vede la tecnica come disciplina e regole. La tecnica funziona se si seguono le regole. Il pianeta degli smanettoni pensa alla tecnologia come un’occasione per metterci su le mani per giocare, imparare, smontare, rimontare e smanettare. Sul pianeta dei mistici non hanno idea di come funzioni la tecnologia e la trattano come un oggetto divino. Se funziona è un miracolo mentre se non funziona, preghiamo e troviamo un rituale per farla funzionare. Possiamo anche rivolgerci ad un Guru capace di mettere tutte le cose al proprio posto. Infine c’è il pianeta dei Giurassici che pensa alla tecnologia come a qualcosa di sopravvalutato. Per i suoi abitanti la tecnologia fa solo perdere tempo. Il fatto di doversi posizionare rispetto al rapporto con la tecnologia porta ad un primo momento riflessivo aprendo alla possibilità di ragionare sul modo in cui si affrontano le difficoltà oppure sulla strategia con cui si apprende. Spesso i risultati non sono scontati perché l’attitudine nei confronti della tecnologia per Fant e Milani non dipende dall’estrazione sociale, dalla lingua o dall’età. Per questo motivo può capitare di vedere, controintuitivamente, ragazzi, soprattutto nei gruppi intergenerazionali, posizionarsi nel pianeta dei Giurassici perché per loro la tecnologia fa perdere troppo tempo e causa inquinamento sul pianeta. Una volta scelta la propria fazione si deve elaborare a grandi linee il modo in cui la vita e la società sono organizzate nei rispettivi pianeti e i risultati di questi lavori saranno esposti dai gruppi in una conferenza al termine della quale si chiede ai partecipanti se vogliono cambiare pianeta, muovere guerra ad un altro pianeta oppure se hanno trovato un modo per scongiurare la guerra. L’attività termina con un momento di riflessione condivisa da cui emergono delle parole significative utili per esplicitare e formulare temi di indagine. Alcuni degli argomenti più frequenti che emergono da questi incontri sono: il rapporto tra tecnologia e potere, la funzione dei dati nella nostra società oppure il senso di impotenza nei confronti di dispositivi di cui non si capisce il funzionamento e su cui non si riesce ad esercitare un pieno controllo. Dalla discussione, quindi, si possono sviluppare molti temi e molte problematiche legate alla tecnologia spesso mascherate da qualcosa di ritenuto ineluttabile. Davanti ad un simile scenario Fant e Milani propongono un processo dialogico e problematizzante funzionale all’emersione dei freiriani temi generatori, cioè le cause più profonde delle contraddizioni e delle situazioni problematiche che caratterizzano ogni situazione storica e sociale. Si tratta di questioni che servono ad esplorare la relazione tra l’uomo e se stesso e tra l’uomo e il resto del mondo. Per gli autori questa è una strada che porta alla disalienazione e alla disalienazione da noi stessi e dal mondo attraverso una pratica non alienante.

Un’altra attività introduttiva che Fant e Milani propongono è l’intervista allo smartphone, ovvero una surreale immedesimazione con il proprio smartphone sulla base della tecnica psicodrammatica dell’inversione di ruolo. In questo modo ci si può soffermare su una relazione intima data per scontata con questo strumento. Inoltre viene data agentività al dispositivo e in questo modo si mette in discussione la convinzione che sia solamente uno strumento, concetto legato all’idea della neutralità della tecnologia e quindi che essa dipenda dall’utilizzo scelto dagli esseri umani. Un altro tema che si può esplorare in questo modo, in particolare con gli adolescenti, sono gli aspetti che mi fanno stare bene e che mi fanno stare male nella relazione con il proprio dispositivo. Ad esempio lo smartphone in alcuni adolescenti è associato negativamente al tempo perso su app come TikTok e Instagram e al controllo da parte dei genitori che possono chiamare in qualsiasi momento ma è anche lo strumento utilizzato per restare in contatto con i propri cari e per farsi nuovi amici online oppure per coltivare le proprie passioni.

3. L’importanza della poesia per la pedagogia hacker

I laboratori di pedagogia hacker sono utili per sostenere lo sviluppo di una consapevolezza del rapporto tra umani e macchine. Questi processi riflessivi sono attivati da uno sguardo strabico con cui gli individui guardano allo stesso tempo se stessi e l’ambiente tecnologico in cui abitano. L’approccio metodologico adottato è di tipo esperienziale che consente, da una prospettiva decentrata, di evidenziare le interazioni fra il sé e l’ambiente circostante e di acquisire una maggiore consapevolezza su di esse. Questa osservazione permette di rilevare gli elementi comuni ad ogni essere umano in questa relazione ma anche gli aspetti personali e unici. Ad emergere sono anche le tensioni economiche e politiche di queste relazioni. La prospettiva di apprendimento esperienziale adottata da Fant e Milani si basa sulla capacità degli individui di apprendere generando sapere significativo a partire dal proprio vissuto. Ciò può avvenire spingendo gli individui a compiere movimenti che si dividono in fondamentali (notare, trasformare, dirigere, generare) e ausiliari (interrogare, immaginare, azione e pausa). Nelle esperienze precedenti si è messo l’accento sul movimento dell’immaginare e dell’interrogare con la Conferenza intergalattica e dell’interrogare e del trasformare con l’Intervista allo smartphone. Proprio sulla trasformazione, cioè il cambiamento di forma, associato a un’immagine, una metafora e una narrazione, di qualcosa che abbiamo notato in noi e nel mondo, si concentra l’attività poetica all’interno dei laboratori hacker. La poesia serve per contrastare la tendenza della tecnica ad incancrenirsi in procedure alienanti perché alienate, cioè lontane da noi, e fredde automazioni. Per questo motivo Fant e Milani invitano a selezionare delle tecniche di nostro gradimento per sperimentare come hacker-artisti e hacker-poeti. Il rapporto con la tecnologia è un rapporto tra corpi, per esempio il corpo fisico e quello macchinico. In questa relazione si inserisce la poesia come fare poetico, come tecnica disalienante perché disalienata e a noi prossima che smuove, palpita e per questo è utile al nostro scopo. L’obiettivo non è trovare soluzioni affrettate ma maturare consapevolezza di ciò che sta accadendo dentro e fuori di noi tenendo insieme contraddizioni, ambivalenze, intuizioni e sensazioni poco nitide dando valore ai propri vissuti in quanto spazio di apprendimento e di cura. La tecnica utilizzata nelle attività laboratoriali di poesia proposte è quella dello stelo di frase, cioè dell’anafora. Viene scritta una poesia a cui fanno seguito delle parole reiterate all’inizio di ogni verso in una sorta di incipit che serve a scandire il ritmo e il senso del componimento. Nell’attività di Fant e Milani i partecipanti al laboratorio dovevano scrivere dieci versi che iniziassero con le parole “io sono il tuo smartphone e…”. L’esercizio poteva prendere spunto dalle attività laboratoriali iniziali e i temi che hanno fatto emergere. Nelle poesie scritte emerge una certa ambivalenza che deriva dallo stesso dispositivo poiché è allo stesso tempo uno spazio di dialogo protetto per gli adolescenti, uno strumento di evasione da dolori troppo grandi, un porto sicuro per momenti faticosi ma anche un luogo e origine di grandi sofferenze o un loro amplificatore. Di tutto ciò dobbiamo tenere conto quando vogliamo aiutare i giovani nel loro rapporto con questi strumenti. Non si può semplicemente limitare il loro utilizzo o trovare la regole giusta per i propri figli senza tenere conto di tutte queste tensioni. Si può lavorare su queste dinamiche anche nel laboratorio analizzando le notifiche dei dispositivi. Esse sono come punture di spillo che inquietano e non lasciano il corpo indifferente. Queste sofferenze legate al digitale vengono espresse “di pancia” dai ragazzi ma raramente sono tematizzate perché al massimo sono trasformati in improvvisi gesti aggressivi. Gli strumenti artistici possono venirci in aiuto attraverso la scrittura dei versi su queste sensazioni ma per farlo nel migliore modo possibile Fant e Milani propongono di partire dal movimento del notare per analizzare cosa accade al proprio corpo nel momento in cui si ascolta il suono di una notifica. Per realizzare questa attività è stato editato un file audio contenente suoni di notifiche provenienti da diverse app e diversi dispositivi. Mentre questo cut-up di sei minuti veniva riprodotto, i partecipanti si sono concentrati sul proprio corpo per capire quali parti di esso si attivano, come e quando. L’attività si chiude con una discussione di gruppo che deve portare alla sintesi in una parola delle sensazioni vissute durante l’esercizio. Il lavoro prosegue utilizzando la metafora per rappresentare le proprie sensazioni, ad esempio, con un colore, un suono, un materiale o una situazione della propria vita quotidiana. Una volta prodotte le metafore, le allegorie o le sinestesie, devono essere utilizzate per scrivere una piccola poesia.

4. Analizzare il demone delle app

A questo punto, seguendo sempre l’idea dello sguardo strabico, possiamo concentrare la nostra attenzione sulla macchina. I dispositivi non sono semplicemente degli strumenti che dipendono unicamente dal modo in cui vengono utilizzati. Per Fant e Milani, infatti, ogni strumento possiede un demone al suo interno, cioè una voce interna che guida i sistemi e le loro interazioni con gli utenti producendo anche risultati tossici. La macchina non umana non è un oggetto passivo ma gioca un ruolo importante nel determinare i comportamenti dell’umano costruendo i vissuti emotivi, scatenando re-azioni pre-determinate e talvolta fa tutto ciò in maniera invasiva e pressante. Non è un processo casuale ma è dipendente, a questo serve il concetto di demone, dalle modalità con cui il sistema tecnico è stato progettato e realizzato. Se sottovalutiamo la presenza di questo elemento finiremo per conferire una sorta di onnipotenza alla volontà umana e, nei contesti educativi, agli studenti. L’individuo non ha il pieno controllo del proprio agire perché esiste un piano di non-consapevolezza, di automatismo comportamentale e abitudine tanto diffusa quanto irriflessa in cui operano tutti i dispositivi. Partire dalla non neutralità di questi oggetti permette di formulare domande molto importanti come: quale sarà il carattere di questa applicazione? Cosa favorisce? Cosa mi spingerà a fare?

Per arrivare ad una risposta dobbiamo metterci in ascolto della voce del demone attraverso la messa a fuoco della cornice lasciando in secondo piano i contenuti. Generalmente ci concentriamo solo su quanto è riconducibile all’azione degli utenti o dei bot senza prestare attenzione su tutto ciò che si trova attorno come la struttura e l’infrastruttura che dipendono da chi ha progettato, disegnato e programmato la piattaforma. L’attività che a questo punto viene proposta da Fant e Milani si chiama Analisi di interfaccia. Per interfaccia si intende la maschera che la macchina utilizza per relazionarsi con l’utente. Analizzando il suo aspetto possiamo capire come si pone nei nostri confronti, quali dinamiche relazionali, meccaniche, prassi, vissuti emotivi spinge a creare. Esplicitare tutto ciò serve a porsi in maniera consapevole rispetto alla tecnologia. Un esempio di questa attività è la ricerca del demone di WhatsApp che abbiamo già incontrato quando è stata analizzata la violenza delle notifiche che possono arrivare in ogni momento generando sbalzi emotivi, scatti nervosi, tensione e stanchezza. Per evocare il demone dell’app occorre smontare automatismi di attribuzione di significati e funzioni facendo apparire, piano piano, tutto come un fatto non scontato. In questo modo scopriamo l’esistenza di numeri, lettere articolate fino a formare parole, buffe forme multicolori. Dopodiché si può iniziare a ri-attribuire senso a questi elementi come orari, emoji, icone. Nell’interfaccia di WhatsApp osserviamo l’orario di invio del messaggio, l’orario dell’ultima connessione, una faccina a sinistra rispetto a dove vengono scritti i messaggi, un’icona verde chiaro che spicca sulla destra con un microfono stilizzato bianco, il nome della persona con cui stiamo comunicando, una sua immagine, nuvole a forma di fumetti di colori diversi in cui si trovano i messaggi inviati o ricevuti. Cosa possiamo concludere da questa analisi? Dove ci vuole spingere il sistema in maniera gentile? Ci invita a comunicare il più spesso possibile, la comunicazione sincrona, fatta di botta e risposta, è preferibile a quella con una eccessiva distanza temporale tra messaggio e risposta. Se comunichiamo poco o lasciamo passare troppo tempo, stiamo usando male l’app. Il valore della persona e della relazione è dato dal numero di interazioni. WhatsApp valorizza il controllo sull’altro consentendo di vedere quando si connette e quando non si connette, sollecitando una risposta quando non arriva. Quindi, quando gli adolescenti esprimono disagio per i continui messaggi dei genitori, stanno sperimentando un corretto utilizzo dell’app. Quanto appreso, infine, può essere fissato attraverso un disegno, una poesia o un fumetto. Aver amplificato la voce del demone ci consente di capire come funzionano queste app figlie dell’economia comportamentale perché la teoria della spinta gentile deriva da questa scuola economica che sostiene come una riconfigurazione dello spazio cognitivo del soggetto per ottenere un determinato comportamento è più efficace della coercizione, della minaccia di una punizione o della moral suasion. Tutte queste informazioni servono per acquisire una maggiore consapevolezza su questi strumenti e decidere cosa farne. Possiamo non utilizzarli, possiamo provare ad abbassare la loro tossicità, possiamo moderare l’esposizione a queste app oppure trovare dei trucchi tutti nostri. Nel caso di Fant e Milani in pandemia hanno utilizzato WhatsApp per rimanere in contatto con i loro studenti dell’associazione Anno Unico contro la dispersione scolastica. Sapendo però della carica ansiogena di questi strumenti per ragazzi che venivano fuori da esperienze di ritiro sociale, hanno scelto di non creare i classici gruppi WhatsApp ma di usare la funzione broadcast che consente agli educatori di mandare messaggi a tutti i ragazzi ma permettendogli di rispondere individualmente in privato e in contemporanea con l’utilizzo di vecchi strumenti di comunicazione come il telefono. Questo lavoro di critica delle app è stato fatto anche con gli insegnanti analizzando il demone di Zoom e di Google Classroom, piattaforma sempre più diffusa nella nostra scuola pubblica. Nel primo caso ci troviamo davanti ad uno strumento utilizzato molto a scuola durante il lockdown per proseguire il lavoro didattico su mezzi digitali. Si aprì all’epoca un dibattito sul suo utilizzo che verteva sull’utilizzo delle telecamere per sorvegliare i ragazzi oppure su come far mantenere alla scuola la sua valenza anche in questa forma di videochat. La criticità maggiore riguarda l’assenza della dimensione fisica di questa scuola in uno spazio condiviso non sintetico, privo dell’incontro tra i corpi e con gli sguardi non mediati ma altri elementi rimanevano nascosti e dovevano essere fatti emergere con il gioco del demone. Per esempio, la maggior parte dello schermo viene occupato dall’immagine dei partecipanti. L’immagine non è un optional ma la cosa più importante. Quando un qualsiasi utente spegne il monitor lo spazio-monitor che occupa non scompare ma diventa nero con le iniziali dell’utente ben in vista. L’applicazione di default evidenzia, come in un richiamo, chi non c’è e lo esorta a mostrarsi. L’host ha molti privilegi come decidere chi entra e chi no in chiamata e può registrare. Per Zoom è essenziale controllare e non ama situazioni orizzontali. L’applicazione, quindi, ha amplificato la tendenza al controllo di alcuni insegnanti, utilizzando, per esempio, la necessità di un controllo visivo ma allo stesso tempo ha messo in difficoltà gli studenti che hanno un rapporto problematico con la propria immagine. Anno Unico ha proposto nuove regole per Zoom. Per esempio si può scegliere se tenere la camera accesa oppure spenta. Se intervenire con la chat oppure a voce. Viene dedicato del tempo per inventare modi con cui mostrarsi su Zoom in penombra oppure utilizzando avatar e filtri. Infine il lavoro didattico ed educativo su Zoom è alternato con altri dispositivi e piattaforme che non hanno bisogno del video. L’altra applicazione è Google Classroom, utilizzata da molte scuole per le comunicazioni insegnante-allievo, scuola-famiglia, per caricare compiti e materiali didattici. Dal gioco del demone emerge che la sua architettura è lineare e asettica. Per Google Classroom la razionalità è fondamentale. La piattaforma dà molta enfasi sull’orario di consegna perché la velocità è una qualità imprescindibile e violare i tempi di consegna può compromettere la valutazione. La piattaforma è fortemente numerificata perché la misurazione è essenziale in quanto fornisce valore a ciò che attraverso il numero è reso oggettivo. Infine c’è la possibilità dei moduli perché i test sono migliori delle verifiche a risposta aperta. Per Fant e Milani Google Classroom stuzzica la parte più razionale, ingegneristica e prestazionale dei docenti amplificandola. Il demone della piattaforma sussurra all’orecchio del docente che può utilizzare i moduli Google come verifica e magari la piattaforma stessa può correggere i compiti alleggerendo un po’ il suo lavoro. Il testo promozionale di Google Classroom, non a caso, sottolinea il risparmio di tempo senza mai fare alcun cenno alla prospettiva pedagogica di fondo o al fatto che il suo utilizzo non è neutro e influirà sul processo di apprendimento e sul rapporto con lo studente. Utilizzare una piattaforma digitale come mediatore o supporto all’apprendimento la renderà parte del setting e le sue regole finiranno per costituirsi come spinte gentili in grado di influire sulle dinamiche educative e didattiche.

5. Gamificazione

Fant e Milani proseguono la loro analisi provando a far emergere dei parallelismi tra videogiochi e social network. Questa intuizione è sviluppata individuando gli elementi di gamificazione dei social, cioè l’inserimento di elementi tipici degli schemi di gioco competitivi in contesti non ludici. Tutto ciò produce non un gioco qualsiasi ma una specifica tipologia di attività che poggia sulle tecniche di gamificazione per promuovere comportamenti predeterminati, presentando i compiti da svolgere sotto forma di azioni di gioco da reiterare. Per questo motivo bisogna promuovere consapevolezza rispetto alle dinamiche in atto dentro i social. L’intento è mostrare i processi oppressivi sottostanti e lavorare per l’apertura di spazi di libertà e di scelta. Questi obiettivi si traducono in attività di laboratorio come Giocare o essere giocati che consiste nel ripercorrere in modo attivo la storia del gaming fino agli anni ‘90 del XX secolo provando a rievocare lo spirito del tempo in cui sono stati concepiti e resi pubblici. Occorre cogliere, in questo modo, gli elementi che nelle diverse architetture ludiche portano ad un maggiore ingaggio, cioè di obbedienza a regole di gioco non scelte. L’attività consente, così, di cogliere le meccaniche manipolatorie dei contesti gamificati. L’approccio seguito è sempre quello dello sguardo strabico con un occhio rivolto allo schermo e uno al proprio corpo. Questa metodologia ci porta a domandarci: cosa mi succede mentre gioco? In corrispondenza di quali eventi? Quando sono molto ingaggiato cosa succede? Può essere inserito un terzo occhio che ci fa domandare: insieme a noi giocano altre persone? Che reazioni hanno? L’attività prosegue sulla falsa riga dell’Analisi di interfaccia. In breve, dobbiamo dimenticare tutto ciò che sappiamo sui videogiochi e iniziare a non dare nulla per scontato. Una volta chiarite le regole del gioco possiamo entrare consapevolmente nella zona del gioco. A turno uno o due volontari giocano ai videogiochi mentre un altro volontario prende appunti alla lavagna con lo scopo di fissare ciò che nota nell’analisi del prodotto multimediale. Il resto del gruppo osserva quello che succede sullo schermo e ai giocatori. Una volta terminata la sessione videoludica viene chiesto ai partecipanti di stilare una classifica dei social che rubano più tempo e viene chiesto di fare un confronto con gli elementi emersi nell’analisi dei videogiochi. Il confronto viene fatto a partire dall’analisi di interfaccia del social arrivato primo nella classifica e sfruttando le informazioni presenti sulla lavagna. Spiazza tutti sapere come nei social ritroviamo molti elementi presenti nei videogiochi. Per esempio i punteggi, siano essi like, numero di follower, condivisioni e commenti. Oppure i livelli. Nei social i profili sono divisi per livelli in base al numero di follower che corrisponde ad una specifica categoria di influencer. Infine un ultimo punto in comune che possiamo usare come esempio sono le strategie e le tattiche utilizzate per capitalizzare più like o follower. Una volta appurato che nei social ci sono dinamiche di ingaggio tipiche dei videogiochi possiamo chiederci: cosa comporta per l’utente ritrovarsi continuamente in un videogioco? Come tutto ciò influenza i suoi comportamenti? A partire da queste domande possiamo riflettere insieme su quali altri contesti della nostra vita subiscono un processo di gamificazione. Queste conclusioni possono essere approfondite a livello teorico sottolineando tre elementi propri delle nostre relazioni con le tecnologie: gamificazione, dopamina e zona della macchina. Della gamificazione abbiamo già parlato in precedenza ma possiamo aggiungere che dai giochi coatti prodotti in questo modo è difficile uscire perché sollecitano il circuito dopaminergico capace di trattenere l’uomo in cicli d’interazione. La dopamina è il neurotrasmettitore alla base della motivazione e degli stimoli riconosciuti come piacevoli. Gli stimoli gamificanti svolgono la funzione di rinforzo positivo, tramite il condizionamento operante, che porta a reiterare un determinato comportamento. Dentro uno spazio gamificato la ripetizione di un’azione ritenuta corretta è stimolata con premi, crediti, classifiche e accesso ad un livello gerarchico superiore. Per come sono strutturati i social, si produce un effetto di ingaggio che forza al controllo compulsivo del dispositivo ripetutamente per verificare se sono arrivate delle notifiche oppure se qualcuno ha messo like ad un proprio post. Tutto ciò porta ad una serie di automatismi nel nostro rapporto, per esempio, con gli smartphone che produce ore e ore di navigazione senza senso sui social. Queste esperienze molto comuni segnalano l’entrata nella zona della macchina, un luogo in cui è facile entrare ma da cui è difficile uscire. Il concetto viene ripreso da Fant e Milani dall’antropologa Natasha Dow Schüll che a sua volta la mutua dai giocatori d’azzardo di Las Vegas alla presa con le slot-machine. Loro sono stati i primi a definire la zona della macchina come lo spazio-tempo in cui per interi giorni si immergono dilapidando tutti i propri risparmi a causa dell’interazione tossica capace anche di renderli indifferenti a bisogni primari come andare al bagno per urinare. La sensazione provata dai giocatori è simile ad uno stato di trance in cui l’unico desiderio è restare nella zona e nient’altro ha importanza. L’obiettivo non è più vincere ma continuare a rimanere dove si è. L’essere umano, quando si relazione ai social, è immerso in uno stato di flusso fatto di emoticon, gattini, notizie e balletti dove non importa più quale sia il contenuto del flusso perché mentre ci siamo dentro nel nostro cervello si scateano scariche che producono l’ormone endogeno della dopamina. Si tratta di un ormone legato alla motivazione e al piacere che produce una sensazione fugace di piacere e appagamento. Tutto ciò ci motiva a restare nel flusso in attesa della prossima scarica di dopamina. Sono conclusioni simili a quelle contenute nel libro Dopo Internet di Tiziana Terranova. L’autrice analizza la cosiddetta economia dell’attenzione che viene letta come una componente centrale del capitalismo delle piattaforme capace di sfruttare la capacità di concentrazione degli utenti come risorsa economica. Questo modello economico si è consolidato con la transizione al Corporate Platform Complex, in cui il valore non è generato solo dal lavoro tradizionale, ma anche dalla partecipazione digitale e dalle interazioni sociali online. L’economia dell’attenzione si basa sul catturare e mantenere l’interesse degli utenti attraverso meccanismi progettati per stimolare risposte comportamentali compulsive. Tra queste ci sono il controllo continuo dei feed, i like, i click e altre azioni che offrono gratificazioni immediate. Questi comportamenti, definiti “dopamine-driven” (ossia guidati dalla dopamina), sono stimolati dalle piattaforme digitali per massimizzare il coinvolgimento degli utenti. Terranova sottolinea che questa economia dell’attenzione non è solo una strategia per massimizzare i profitti, ma ha anche profonde implicazioni sociali e cognitive. Infatti, l’enfasi sul coinvolgimento compulsivo ha portato a una serie di psicopatologie ordinarie legate al capitalismo cognitivo. Questo modello trasforma la partecipazione sociale e la produzione di valore in un processo estrattivo, che sfrutta la cooperazione e i desideri sociali per generare profitti. Con tutte queste informazioni in nostro possesso possiamo iniziare a trarre delle conclusioni importanti per il lavoro di educatore. I ragazzi che stanno per ore davanti ad uno schermo non sono stupidi ma hanno dimostrato come procurarsi piacere e motivazione con il minimo sforzo. Invece che trovarsi nuovi compagni di gioco oppure uscire e giocare, possono facilmente attivare i circuiti dopaminergici stesi sul proprio letto utilizzando un dispositivo digitale. Sicuramente il giocatore ludopatico che utilizza una slot-machine e l’abuso di social network o videogiochi sono fenomeni molto diversi tra loro ma scatenano in ogni caso dinamiche neurocognitive simili che hanno alla base la stimolazione e lo sfruttamento del circuito dopaminergico. Nei social commerciali esso viene sfruttato per poter attivare il condizionamento operante che porta, come negli esperimenti comportamentisti di Skinner sui piccioni, a nuovi comportamenti e condiziona anche la volontà. Questi meccanismi di cattura non operano solamente sui ragazzi ma anche sugli adulti. Fant e Milani ci invitano ad escogitare modalità, personali e collettive, per uscire ed entrare nella zona replicando quello che fanno i gruppi che utilizzano consapevolmente le sostanze psicoattive. Questo processo è più facile da realizzare nel digitale ma dobbiamo stare attenti perché la gamificazione è ormai estesa anche nelle nostre scuole. Ci sono tanti docenti che per sentirsi alla moda propongono di gamificare le attività per ingaggiare meglio gli studenti. Pensiamo solamente alla scuola Quest to learn di New York che ha organizzato tutta l’esperienza di apprendimento come se fosse un videogioco con tanto di livelli, punti e ricompense. Questo approccio può avere una sua utilità qualora dobbiamo addestrare qualcuno per un compito che contiene di per sé una dimensione performativa ma non è un approccio idoneo per un apprendimento di contenuti accompagnato da una costruzione di senso. Chi è ingaggiato si focalizza più sul punteggio raggiunto che sull’esplorazione dei contenuti perché quando si gareggia si impara essenzialmente a gareggiare. Quando la gara è finita e cala la scossa dopaminica, con la stessa velocità viene spazzato via ciò che si è imparato. Non significa che dobbiamo essere contro il divertimento mentre si apprende ma dobbiamo proporlo diversamente, senza gamificare l’attività ludica.

6. Il rapporto con i social

I social restituiscono continuamente una valutazione su quanto i nostri contenuti sono apprezzati, ci informano su quante persone hanno piacere nel seguire la nostra vita e in questo modo ci mettono in competizione con gli altri. Questa dimensione prestazionale ha effetti negativi sugli utenti, specialmente adolescenti e ci spinge ad imparare a selezionare quali argomenti privilegiare nei nostri post per guadagnare più punti possibili e, in maniera consapevole o meno, si inizia a reiterare quei comportamenti finendo per costruire un’identità altra che esiste solo nella dimensione digitale. Gli utenti finiscono per affinare delle strategie per avere maggiore successo su queste piattaforme. Per esempio se vogliamo raccogliere più like su Instagram finiremo per pubblicare foto in cui risultiamo belli e sexy oppure pubblicheremo contenuti con cui strappare agli altri una risata. La tipologia dei contenuti, in ogni caso, dipende dalla bolla in cui ci troviamo. Prendiamo come riferimento TikTok, un social di moda tra i giovanissimi. Facendo un’analisi di interfaccia notiamo come questa piattaforma punti a farci competere con gli altri per avere attenzione. Il valore dell’immagine in questo social è centrale, infatti il video occupa quasi tutto lo spazio disponibile. TikTok punta su video molto brevi che ci spingono a catturare l’attenzione in poco tempo. Per questo motivo gli utenti hanno elaborato dei trucchi con cui aumentare il successo sulla piattaforma. Il demone di TikTok ci dà tre suggerimenti: mostrarsi belli e provocanti, far ridere gli altri o fare qualcosa di assurdo e pericoloso. In questo modo viene prodotta una trasformazione comportamentale che gioca sulle nostre vulnerabilità che è importante conoscere per prendersene cura assieme alle altre persone e alle tecnologie a cui scegliamo di dare fiducia. A tal proposito Fant e Milani propongono nel laboratorio un’attività basata sull’analisi delle proprie immagini pubblicate sui social, in questo caso Facebook, con l’intento di riflettere sul nostro narcisismo, sull’esibizionismo e in generale sulle nostre vulnerabilità che hanno un ruolo centrale nella pratica di raccolta dati finalizzata alla manipolazione presente nelle piattaforme social. Pensiamo solamente alla vicenda Cambridge Analytica che ebbe un ruolo centrale nella prima elezione di Trump negli USA. I dati ottenuti attraverso i commenti scritti, i mi piace, il luogo di condivisione di un post o le condivisioni in generale erano utilizzate per profilare i singoli utenti. Per contrastare queste pratiche Fant e Milani propongono due giochi. Il primo è Chi mi conosce lo sa e consiste nel riflettere sul rapporto tra quantità di informazione posseduta su una persona e capacità di manipolare gli altri. Si chiede ai partecipanti di riflettere sui momenti in cui hanno utilizzato queste informazioni sugli altri per ottenere un vantaggio. L’altro gioco consiste nel riflettere sulle parole che possono essere utilizzate contro di noi per farci arrabbiare. La riflessione del libro prosegue spiegando come i ragazzi attivano forme di resistenza davanti a queste modalità di funzionamento dei social. Sono, ovviamente, comportamenti difficilmente codificabili dagli adulti e prettamente individuali. Il primo comportamento analizzato è quello del ghosting, cioè l’atto di sparire all’improvviso dalle piattaforme digitali smettendo di rispondere ai messaggi o al telefono. Questa pratica consente agli adolescenti di rompere con le incessanti richieste di attivazione dei dispositivi per conquistare spazi di respiro. Un altro esempio in tal senso è l’utilizzo di chat contenute nei videogiochi perché considerate un luogo più protetto dal dominio degli algoritmi in cui parlare di sé lontani dal palcoscenico e dai dispositivi dei social. Il digitale, quindi, può diventare anche una zona protetta rispetto alle dinamiche narcisistiche ed esibizionistiche che richiedono continuamente di performare, ormai proprie anche della vita esterna al mondo digitale. Fant e Milani descrivono anche pratiche più radicali come quella del tacchino freddo che consiste nell’abbandono della propria vita social in maniera repentina e senza alcuna supervisione esterna. Il termine rimanda alla disintossicazione da oppiacei da parte di persone dipendenti che avveniva in maniera volontaria e senza assistenza medica. Evitare a priori di entrare nelle interazioni social è un approccio che può scontrarsi con molti motivi che richiedono la nostra presenza su queste piattaforme. Per esempio se la rete sociale di cui facciamo parte, professionale o sociale, utilizza questi strumenti per comunicare non esserci significa condannarsi all’esclusione sociale. Altre pratiche radicali consistono nella distruzione dello smartphone in un gesto che per gli autori ricorda il luddismo che indirizza il proprio odio verso le macchine portatrici di oppressione, la sostituzione dello smartphone con flip-phones capaci solo di chiamare e inviare SMS oppure la pratica dell’ubriacatura consapevole di digitale. In quest’ultimo caso siamo consapevoli dei demoni delle app con cui interagiamo ma scegliamo consapevolmente la strada dell’abuso perché è un modo con cui allontanare il dolore dei vissuti depressivi e per contrastare la mancanza di senso. Il flusso ci porta verso una situazione di anestesia che tiene a bada la paura di confrontarsi e fallire in una società sempre più competitiva ed individualista. Si tratta, quindi, di uno strumento di resistenza al male di vivere che per molti è l’alternativa ad atti autolesionistici e talvolta mortali. A questo punto Fant e Milani propongono una serie di trucchi per esercitare la sottrazione e la diserzione dai social. Una prima serie di consigli per uscire dalla zona della macchina vengono dai cosiddetti “Pentiti della Silicon Valley” che operano dal sito Humanetech.com dove mettono a disposizione app per disinnescare i dispositivi della gamificazione o abitudini come scegliere il luogo di ricarica notturna del telefono lontano dalla camera da letto in modo che non sia né l’ultima né la prima cosa che guardiamo prima di dormire oppure scegliere dei giorni in cui non si sarà reperibili da nessuno e infine disattivare tutte le notifiche del dispositivo. Un approccio alternativo è l’autodifesa creativa hacker che si sviluppa durante i laboratori e propone di utilizzare criticamente i programmi legati alla navigazione su internet. Per esempio possiamo bloccare la pubblicità e l’autoplay di YouTube che favorisce l’abuso tramite il client NewPipe su Android oppure invidious.io per la navigazione via browser. Invece di usare i classici motori di ricerca possiamo ricorrere a DuckDuckGo che non traccia e non profila oppure è possibile utilizzare Tor Browser, più anonimo e lento, per navigare in rete. Infine WhatsApp può venire rimpiazzato con altre piattaforme per tenerci in contatto con le persone a cui teniamo di più. Un ultimo trucco prende le mosse dall’immagine di Ulisse e le sirene. Ulisse vuole ascoltare il loro canto ma non vuole gettarsi in mare e morire come gli altri marinari. Di conseguenza decide di farsi legare all’albero della nave per poter ascoltare il canto manipolatorio delle sirene. Possiamo abitare le piattaforme digitali, con il loro forte connotato dopaminico, con le precauzioni di Ulisse? La risposta è si ma abbiamo bisogno di stringere un patto con una persona di fiducia a cui chiedere di tirarci fuori dal flusso quando serve.

7. Ci si libera insieme

Dai laboratori emerge una tensione tra scelta individuale e questione collettiva. Possiamo a livello individuale sottrarci alla pressione tecnologica ma se la norma diffusa è l’utilizzo di una determinata modalità comunicativa il rifiuto del singolo si scontra con le consuetudini sociali. In senso opposto, se individualmente scegliamo di adottare le tecnologie più innovative ma nel nostro luogo di lavoro o tra gli amici c’è riluttanza e diffidenza nei loro confronti quello che per noi è innovazione per gli altri diventa un pericolo per la propria tranquillità. Questi problemi ci spingono a parlare di politica, del modo in cui vogliamo organizzare la nostra società rispetto alle tecnologie e non solo. Le strategie che abbiamo precedentemente visto sono individuali mentre noi abbiamo bisogno di mettere in discussione l’ambiente di interazione allargata in cui ci troviamo, la sua dimensione comunitaria e sociale. Fant e Milani propongono delle tracce da usare per lavorare in questa direzione. Abbiamo il tentativo di utilizzare diversamente insieme la tecnologia, sia uscendo da uno strumento non ritenuto sostenibile che ricercando un suo uso alternativo. Questo è il caso già visto di WhatsApp. Nell’ambito educativo di Anno Unico si è scelto di non creare i soliti gruppi ma di utilizzare la funzione broadcast affiancata da altri strumenti e ritualità comunicative come la chiamata settimanale o la chat individuale. Un simile modo di ragionare può essere esteso ai gruppi per uso privato o lavorativo, magari decidendo insieme di non utilizzarli durante il fine settimana, dopo una certa ora oppure di optare per modalità comunicative alternative. Si tratta di ricercare delle tecnologie appropriate. Un altro stimolo di Fant e Milani riguarda l’invito ad hackerare i setting di vita a partire dall’analisi degli elementi tossici degli ambienti digitali che sfruttano le nostre vulnerabilità, mettendoci in competizione e provocando ansia, per modificarli negli ambienti in cui viviamo nelle nostre realtà sociali. In questo modo è possibile creare spazi sicuri che combattono, rifiutano e disertano tutti gli elementi di abuso e oppressione che ostacolano i processi di liberazione. Il libro si conclude invitando i lettori a sperimentare, inventare e condividere all’insegna della pedagogia hacker.

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