Per una sintesi del problema dell’università neoliberale

Il libro di Francesco Maria Pezzulli L’università indigesta. Professori e studenti nell’accademia neoliberale è un’analisi critica dell’università neoliberale, cioè quella particolare forma di questa istituzione che prende vita alla fine degli anni ‘80 con la Riforma Ruberti per poi consolidarsi nei decenni successivi con altri interventi legislativi simili. Pezzulli sostiene che questo modello di università è ispirato da nuove concezioni di governance come il New Public Management derivante dal Research Assessment Exercise con cui Margaret Thatcher giustificò la riduzione dei finanziamenti statali inglesi e responsabilizzò gli atenei nella gestione dei bilanci. L’università, dopo trent’anni di vita, vive una profonda crisi che è la combinazione di una crisi di egemonia, non essendo più l’università il luogo autonomo dove si crea e trasmette il sapere, una crisi di legittimazione causata da un mercato del lavoro per i laureati sfasato essendo la qualità della domanda bassa rispetto all’offerta di alto livello fornita dalle università, e infine una crisi istituzionale legata ai gradi di autonomia stabiliti in base a standard economici e manageriali di efficienza e produttività. In circa quarant’anni l’università italiana passa dall’essere un organismo funzionale alla produzione e diffusione del sapere tramite il lavoro di una comunità di docenti e allievi finalizzato alla formazione di individui sociali pensati come persone complete ad un organismo più simile ad un’agenzia di formazione qualificata e operante nel mercato dei servizi professionali per la politica e l’impresa. Pezzulli avverte che questo giudizio non intende glorificare il passato perché il vecchio modello di università non era esente da paradossi e contraddizioni. Il suo obiettivo è analizzare come i criteri economici neoliberali di organizzazione e gestione dell’università influiscono sulle condizioni sociali, soggettive e professionali di studenti e docenti. 

  1. La ricostruzione storica della genesi dell’università neoliberale 

Pezzulli inizia la sua ricostruzione storica partendo dal testo di Felice Froio Università e classe politica che si inserisce all’interno del dibattito intorno alla Riforma Gui con l’intento di pacificare la contestazione studentesca e giovanile attraverso l’ascolto delle loro istanze. L’atteggiamento era chiaramente paternalista e produsse una serie di circolari e interventi settoriali parziali che avevano lo scopo di rimandare il più possibile una più organica riforma dell’università e non riuscì ad impedire l’esplosione del movimento del ‘68 che sviluppò una feroce critica all’università e alla sua funzione ideologica al servizio delle classi dominanti. La DC, nonostante la pressione dal basso degli studenti cattolici e delle Comunità cattoliche di base, mantenne una linea conservatrice, seppur contrasta senza successo da Aldo Moro, rispetto al ‘68 mentre il PCI stabilì con gli studenti un rapporto inizialmente dialettico che progressivamente divenne dichiaratamente ostile. Pezzulli, riportando alcune riflessioni critiche di Rossana Rossanda, evidenzia il limite del partito nella sua incapacità di fare proprie le rivendicazioni degli studenti o almeno problematizzarle come segni della crisi del capitalismo avanzato che si manifesta sempre nei punti alti dello sviluppo. A questo periodo risalgono la legge 162/1969 che istituisce il presalario e la legge 910/1969 che elimina, grazie alle lotte del ‘68 che produssero degli effetti fino al 1973, le barriere alle iscrizioni superando le limitazioni legate agli studi secondari e regolamenta i piani di studio liberi. Questi provvedimenti ebbero anche una funzione politica perché assorbirono molti ricercatori, spesso provenienti dal Movimento studentesco e altre organizzazioni della sinistra extraparlamentare, aprendo la strada al fenomeno del precariato universitario. Tuttavia aver superato le barriere all’immatricolazione fece aumentare la forza politica degli studenti assieme alla conquista sindacale delle 150 ore al diritto allo studio che consentì ai lavoratori di utilizzare un monte ore di permessi retribuiti per la propria formazione. Pezzulli riporta dei dati molto importanti per corroborare queste tesi. Nel 1961-1962 gli studenti immatricolati erano meno di 300.000 mentre nel 1971-1972 erano 750.000 e alla fine del decennio saranno oltre un milione. Una dinamica simile si registra per i laureati che passano dai 23.000 del 1961-1962 ai 74.000 del 1981-1982 con grande scorno degli Ordini professionali che accusarono la maggiore frequenza universitaria di aver stravolto le tradizionali professioni liberali. Nello stesso arco di tempo vennero costituite 88 nuove facoltà, saranno 295 nel 1982, mentre i docenti arriveranno a quota 48.000 nel 1981 portando il rapporto iscritti/docenti a 24 iscritti per docente rispetto alla media di 10 iscritti ogni docente del 1961-1962. Alla fine degli anni ‘70 il movimento studentesco si frantuma e si disperde come il movimento sociale che, sostiene Pezzulli, priva gli studenti del soggetto collettivo con cui esprimere i loro desideri di cambiamento politico. Si aprono così gli anni ‘80 della normalizzazione e del continuo sviluppo dell’università di massa. Il primo governo Cossiga emana norme aventi valore di legge che riordinano la sperimentazione e la docenza universitaria. Stiamo parlando della legge 382 del 1980. Queste modifiche portano all’istituzione dei ruoli di Professore Associato e Ricercatore Universitario che tramite procedure di idoneità assorbirono i precari generati dai Provvedimenti urgenti del 1973. Successivamente venne aggiunta una terza figura chiamata Professore a contratto pensata per supportare le attività accademiche e per svolgere la funzione di raccordo tra società e imprese. Gli interventi sulla sperimentazione portarono all’istituzione dei Dottorati di ricerca e alla nascita dei Dipartimenti in quanto Enti preposti alla ricerca da non confondere con le Facoltà che si occupano della didattica. In questo modo venne superato l’Istituto che Pezzulli definisce come un feudo del Professore Ordinario scardinato dal ‘68. La maggiore democrazia dentro l’università ha significato la nascita di nuovi controlli e meccanismi elettivi che hanno prodotto dei risultati molto discutibili. Sicuramente hanno innovato le vecchie procedure decisorie ma sono sorti fenomeni paradossali e distorsivi come l’aumento delle clientele accademiche e l’evaporazione delle responsabilità. Pezzulli sostiene che questa maggiore democrazia ha portato a dei meccanismi che si sono evoluti in veri e propri casi di corruzione. Il motivo è chiarito in maniera esemplare dall’autore. Siccome tutte le cariche dirigenziali e gestionali dovevano essere elettive, qualora un Professore Ordinario avesse ambito a diventare Direttore di Dipartimento, di Corso di Laurea o Preside, avrebbe avuto bisogno di una maggioranza di colleghi disposti a votarlo. Queste maggioranze, presenti ad ogni elezioni, sono diventate dei network di potere accademico capaci di riprodursi e solidificarsi grazie ai vantaggi offerti ai propri affiliati rispetto a chi non ne fa parte e questo indipendentemente dalle qualità dei soggetti in questione. Per quanto riguarda invece il tema dell’Autonomia, Pezzulli la definisce come una finzione utile solo al governo delle dinamiche universitarie ma senza avere alcuna efficacia rispetto alla rivoluzione organizzativa promessa dall’avvento dei Dipartimenti. Quest’ultimi dovevano, come all’estero, sostituire le Facoltà che invece hanno risposto con una dura resistenza nella difesa delle loro prerogative di gestione dei posti di Professore. Il risultato è che Facoltà e Dipartimenti hanno continuato ad esistere in maniera autonoma e giustificando la loro scarsa comunicazione con le diverse finalità del loro lavoro. Infine abbiamo il Consiglio universitario nazionale, un organo di garanzia e rappresentanza dell’autonomia universitaria che velocemente si burocratizza perdendo molto del suo senso originale. Pezzulli giudica la riforma del 1980 come un intervento di cerniera frutto delle lotte dei decenni precedenti che fu capace di assorbire molti di quei rivoluzionari diventati professori critici nell’accademia ma allo stesso tempo produsse le basi per fenomeni molto deleteri per la nostra università. Con la Riforma Ruberti, alla fine degli anni ‘80, si cambia totalmente musica e i perni attorno a cui ruota l’intervento sugli statuti e l’organizzazione degli atenei sono l’autonomia e l’efficacia. L’obiettivo è valutare gli atenei sulla base di criteri economici come i costi standard di produzione per studente. Il ministro Ruberti si pose come obiettivo trasformare l’università in un’istituzione del sapere da gestire secondo i principi dell’economia di mercato. Questo periodo coincide con l’aumento dei Titoli e dei Corsi di studio mentre le università iniziano ad essere valutate in base alle performance, incluse quelle finanziarie, ed emergono i crediti formativi e tutti gli indicatori dell’università neoliberale. La svolta viene approvata dall’allora segretario del PSI Bettino Craxi che affidò questo progetto di trasformazione della nostra università al ministro Antonio Ruberti il quale importò in Italia il New Public Management declinato attraverso il concetto di autonomia. Il termine non significa solo, impropriamente, svecchiamento ma anche autonomia finanziaria dei singoli atenei. Pezzulli a questo punto tenta la periodizzazione dei tre passaggi legislativi che hanno generato l’università neoliberale. Il primo risale al 1989 con la separazione tra Ministero dell’Università e dell’Istruzione e in questo momento si stabilisce che le università hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile inoltre le loro entrate possono provenire anche da contratti e convenzioni. Nel 1990 viene definita meglio l’autonomia per quanto riguarda la revisione degli ordinamenti didattici. Essa deve tenere conto delle previsioni occupazionali, introduce il tirocinio e un sistema di crediti didattici finalizzati al riconoscimento dei corsi seguiti con successo. Il terzo momento risale al 1993 con lo stabilimento delle modalità di riproduzione delle strutture universitarie attraverso una quota base valida, in misura proporzionale, per tutte le università e una quota di riequilibrio che va ripartita a partire da indicatori standard. Questa quota ha come scopo ridurre i differenziali tra aree disciplinari ma divenne effettiva a partire dal 1995 e progressivamente venne rafforzata a discapito della quota base. Un altro aspetto chiave della riforma è la creazione di nuclei di valutazione interna con il compito di verificare, attraverso analisi comparative dei costi e dei rendimenti, un’adeguata gestione delle risorse pubbliche, la produttività della ricerca e della didattica e infine l’imparzialità e il buon andamento dell’azione amministrativa. Ruberti innesta nell’università italiana nuovi regolamenti, nuovi contratti e convenzioni, costi standard, previsioni sulla futura occupazione, tirocini, crediti, valutazione e produttività della ricerca e della didattica. Tutto ciò da questo momento in poi modificherà radicalmente la prassi e l’atteggiamento degli atenei. La riforma trovò una ferma opposizione da parte del movimento studentesco della Pantera che prese il nome dall’avvistamento del felino il 27 dicembre 1989 sulla via Nomentana a Roma. Questo movimento fu il risveglio degli studenti dopo il lungo letargo degli anni ‘80. Ebbe breve durata ma fu molto intenso nei suoi passaggi decisivi dove dimostrò di avere bene in mente la posta in gioco nella trasformazione universitaria imposta da Ruberti che per questo motivo venne radicalmente contestata. Il movimento si consolidò nell’autunno del 1989 e sopravvisse sei mesi scanditi da critiche e nette prese di posizione degli studenti che criticarono la perdita di valore delle facoltà umanistiche rispetto a quelle scientifiche, gli attacchi agli atenei minori costretti a reperire con molte difficoltà autonomamente i fondi per la ricerca oppure la maggiore presenza degli interessi privati che orientano la ricerca pura e sperimentale. Per Pezzulli gli studenti erano anche consapevoli delle conseguenze della riforma sulle modalità di trasmissione e il ruolo del sapere. Esso passa dall’essere un bene comune fondamentale al diventare un aggregato di servizi specialistici di natura intellettuale, tecnologica e tecnica. La Pantera chiedeva di sganciare il sapere dagli interessi del mercato perché il rischio è avere a che fare con qualcosa di sempre meno indipendente e autonomo nel suo giudizio e sempre più condizionato da interessi capitalistici. In questo modo il sapere perde il suo carattere scientifico e il suo legame con il “vero”. Il movimento prese forma il 5 dicembre 1989 con l’occupazione della Facoltà di Lettere di Palermo a cui seguirono altre sette occupazioni mentre la lotta si espandeva in tutta Italia. Iniziano ad essere organizzate assemblee per discutere della riforma mentre il movimento cercava di coinvolgere docenti, personale amministrativo, tecnico e assegnisti di ricerca e trovare, senza successo, altre forme di lotta che sapessero andare oltre l’occupazione. Il movimento venne pesantemente colpito da due eventi. Il primo è stato un seminario autogestito organizzato dallo spezzone romano del movimento in cui prese la parola un ex militante delle BR. Questo fatto venne sfruttato dai giornali per dipingere la Pantere come la base per la ricostituzione della lotta armata contro lo Stato e alienò le simpatie di parte dell’opinione pubblica. Il secondo evento furono gli emendamenti del ministro Ruberti a favore degli studenti controccupanti rappresentati dalle organizzazioni giovanili di tutti i partiti tranne il PCI e Democrazia Proletaria. L’obiettivo era spaccare il movimento offrendo rappresentanza negli organi centrali e rendendo obbligatori i pareri del Consiglio degli Studenti. Questa mossa portò l’ala moderata del movimento, espressione della FGCI, ad accettare le proposte del ministro e alla spaccatura con l’ala antagonista che portò, qualche anno più tardi, alla nascita dell’Unione degli universitari (UDU). Dopo la manifestazione di Napoli la Pantera finisce come movimento di massa e le occupazioni delle facoltà iniziano a smobilitare. Pezzulli sostiene che la Pantera riuscì a riattualizzare le pratiche del movimento studentesco degli anni ‘70 come occupazioni, autoformazione e assemblee a cui aggiunse un nuovo modo di comunicare fatto di slogan virali e videoclip prodotti con la tecnologia allora disponibile. Esemplare da questo punto di vista fu l’utilizzo del fax per mettere in comunicazione in tempo reale tutte le facoltà occupate. Lo sviluppo dell’università neoliberale prosegue con l’introduzione, tramite il Decreto numero 509 del 1999, della Riforma Berlinguer che impone lo schema del 3+2 sulla scia del Processo di Bologna e nel nome dell’obiettivo della maggiore competitività degli studenti italiani in Europa. Le lauree italiane in questo modo sono raddoppiate con due cicli distinti e propedeutici. Il primo è di durata triennale ed è di base mentre il secondo è biennale con carattere specialistico. Entrambi i cicli terminano con il conseguimento di un titolo. La riforma, inoltre, rende obbligatori i crediti in tutti i corsi di studio tranne i corsi di dottorato di ricerca. Nel 2004, con il Decreto numero 270 passato alla storia con il nome di Riforma Moratti, avviene l’introduzione del limite di 180 crediti per la Laurea triennale e di 120 crediti per quella magistrale. Questa decisione è funzionale alla fissazione di parametri quantitativi per i Corsi e allo sviluppo di un sistema di misurazione e valutazione che stabilisce una gerarchia degli insegnamenti in base ai crediti corrispondenti. Si giunge così ad un terzo momento di sviluppo dell’università neoliberale. Tra il 2008 e il 2010 ci sono tre provvedimenti legislativi della ministra berlusconiana Gelmini che hanno dato all’università italiana la sua attuale fisionomia. La Legge 133/2008 consente alle università di trasformarsi in Fondazioni. Il Decreto Legge numero 180 del 2008 ha invece ridefinito le gerarchie delle strutture universitarie con la ripartizione delle quote del Fondo di Finanziamento Ordinario in base alla qualità dell’offerta formativa e dei risultati dei processi formativi, alla qualità della ricerca scientifica e alla qualità, efficacia ed efficienza delle sedi didattiche. Il terzo provvedimento è la Legge numero 240 del 2010 che ha ufficializzato le procedure di valutazione del personale sulla base dei principi del merito e della performance, introdusse meccanismi premiali a partire da criteri di efficienza della didattica e della ricerca e infine stabilì degli incentivi legati a risultati e il costo standard unitario di formazione per studente in corso come indicatore alla base dell’attribuzione delle percentuali del Fondo di Finanziamento Ordinario. Con Gelmini, dice Pezzulli, l’università italiana rafforza i suoi tratti neoliberali aumentando la sua subalternità alle imprese. Non a caso la ministra in TV descrisse molto bene la sua idea di questa istituzione quando nel gennaio 2011 a Ballarò si mise a parlare di lauree umanistiche inutili e lauree scientifiche utili e che servono alle imprese. Siamo davanti alla compiuta sostituzione del modello tedesco e francese di università, dove si punta all’educazione e allo sviluppo morale dei cittadini seguendo un principio onnilaterale capace di tenere insieme, criticamente, discipline scientifiche ed umanistiche, ad un modello anglosassone che sostiene un’educazione orientata al principio unilaterale in base al quale lo studente da formare deve acquisire competenze per risolvere problemi staccati dal contesto storico dove sono emersi. Il tutto è funzionale all’idea della formazione permanente con al centro un soggetto flessibile e capace di piegarsi a tutte le innovazioni delle imprese e della circolazione economica. Queste scelte trovarono ancora una volta la ferma opposizione del movimento studentesco riunito attorno all’Onda. Pezzulli sostiene che se la Pantera si è concentrata sulle conseguenze scientifiche e politiche imposte dalla gestione neoliberale dell’università, il movimento dell’Onda si è sviluppato in un’università già vittima di questa trasformazione e capì che questa istituzione, assieme alla scuola, stava per essere totalmente piegata alle esigenze del mercato rendendo la condizione degli studenti più simile a quella di lavoratori cognitivi precari. Stava saltando, infatti, ogni distinzione tra momento formativo e lavorativo e tutto questo era celato agli occhi dell’opinione pubblica dall’ideologia del merito. L’Onda, il cui nome è da ricondurre agli tsunami che devastarono il pianeta in quel periodo, ebbe il suo battesimo del fuoco nell’ottobre del 2008 quando ci furono varie occupazioni in tutta Italia oltre a cortei interni nelle università, come alla Sapienza, e una partecipazione del movimento al congresso della FIOM CGIL in cui invocarono una nuova alleanza tra operai e studenti. Il 28 ottobre i primi provvedimenti del ministro Gelmini diventano legge e il 30 dello stesso mese viene indetto uno sciopero generale del mondo della scuola con oltre 300.000 studenti in piazza a Roma e un milione in tutta Italia. Il mese successivo la lotta proseguì con l’assedio di 200.000 studenti di Piazza Montecitorio il 14 novembre e l’Assemblea generale del movimento alla Sapienza il giorno successivo. In questa sede, come accadde con la Pantera, il movimento si spacca. Una parte di esso ritenne necessaria la creazione di una struttura di rappresentanza nazionale per sostenere la lotta mentre dal lato opposto c’erano coloro che sostenevano la ricerca di nuove forme di lotta politica studentesca adeguate al passaggio capitalistico in corso. In pochi mesi questo movimento si disperse perché non riuscì a trovare strategie e forme organizzative utili al proseguimento effettivo della lotta nonostante avesse inquadrato molto bene sia le tendenze in atto nelle università che i problemi organizzativi e strategici che i movimenti avrebbero affrontato in futuro. Da allora sono rari i momenti in cui le soggettività accademiche hanno avuto la capacità di prendere la parola pubblicamente per condividere e discutere tesi su sé stesse.

L’ultimo tassello dell’università neoliberale arriva con il governo Monti che introduce l’obbligo della terza missione per le università. Essa comprende tutte le procedure e le attività utili a classificare le strutture di questa istituzione in base a criteri competitivi e al grado di interazione con il tessuto economico. In questo modo i Dipartimenti universitari sono equiparati ai centri di ricerca e sviluppo delle imprese mentre docenti e ricercatori sono equiparati a fornitori di servizi professionali ad alto contenuto tecnologico. La terza missione entra nello Statuto delle università grazie al Decreto Legislativo numero 19 del 27 gennaio 2012 che definisce i Principi Ava e con il Decreto Ministeriale numero 47 del 30 gennaio 2013 con cui sono formalizzati i parametri e gli indicatori di valutazione che concorrono alla definizione del profilo di competitività di una sede universitaria e la sua capacità di valorizzare economicamente la ricerca. Il tutto viene ulteriormente affinato dal governo Renzi. Nel 2015 vengono indicate le Linee guida per la valutazione della ricerca utilizzate per redigere il Manuale per la valutazione della terza missione delle università in cui è possibile trovare tutti gli indicatori di valutazione e i risultati attesi dalle università circa la gestione economica della proprietà intellettuale, il livello di imprenditorialità accademica, il numero e la qualità dei contratti di servizio acquisiti dall’università e dai suoi docenti, il livello di collaborazione tra università e intermediari istituzionali e l’attivazione di uffici interni all’università dedicati alle attività di trasferimento tecnologico e placement.  

Questa ricostruzione storica va conclusa facendo riferimento alla più stretta attualità e per raggiungere questo obiettivo ci serviremo dell’articolo di Giacomo Gabbuti Reagire all’attacco contro l’università uscito su Etica e economia. L’autunno universitario del 2024 è stato caratterizzato da un’ondata di mobilitazione senza precedenti contro il DDL Bernini e i tagli che si stanno per abbattere sulla nostra università. Dopo un’assemblea nazionale e uno sciopero del comparto istruzione e ricerca alla fine di ottobre, il 15 novembre si sono svolte manifestazioni in molte città, culminate il 29 novembre nella partecipazione allo Sciopero Generale. In tutta Italia si sono registrate iniziative universitarie. A Pisa si è tenuto un grande corteo mentre a Torino il Campus Einaudi è stato bloccato. Nel frattempo, presidi, mozioni nei dipartimenti e nei senati accademici e un’ampia diffusione delle “assemblee precarie” hanno contribuito a consolidare la protesta. Tuttavia, il sostanziale disinteresse dei media tradizionali ha reso poco visibile il movimento, tanto che persino chi lavora nell’università potrebbe chiedersi le ragioni di una simile agitazione. Per comprendere il contesto, è necessario un riepilogo dettagliato delle questioni che hanno portato alla mobilitazione, escludendo le vicende parallele dei Precari Uniti del CNR e le battaglie settoriali, come quelle sulla riforma del numero chiuso in medicina e le condizioni critiche degli specializzandi. Uno dei principali elementi di scontro è il Disegno di Legge 1240, noto come DDL Bernini o riforma del preruolo, presentato in estate. Il provvedimento è stato accolto con forte opposizione perché rappresenta un netto passo indietro rispetto alle prospettive di stabilizzazione accademica. Nel 2022, il cosiddetto DDL Verducci aveva delineato un riordino del preruolo, eliminando le figure di assegnisti e ricercatori a tempo determinato di tipo A e B (RTD-A e RTD-B) per sostituirle con due sole tipologie contrattuali:

  1. Il Ricercatore Tenure Track (RTT), con un contratto di sei anni e una chiara prospettiva di stabilizzazione, introducendo un percorso più strutturato e meno precario per chi intraprende la carriera accademica.
  2. Il Contratto di Ricerca biennale che segnava una svolta importante nel riconoscimento del lavoro post-dottorale. A differenza dei vecchi assegni di ricerca, il Contratto di Ricerca riconosceva il postdoc come un vero e proprio lavoro, con diritti fondamentali quali un chiaro inquadramento contrattuale, contributi previdenziali, ferie retribuite e il pagamento dell’IRPEF, requisito necessario per accedere a misure di welfare come il bonus maternità.

Uno degli aspetti più significativi del Contratto di Ricerca era inoltre l’inclusione nella contrattazione collettiva, diritto finora negato alle figure precarie dell’università. Questo avrebbe rappresentato un passo avanti nella tutela dei lavoratori del settore accademico, garantendo maggiore sicurezza contrattuale e diritti all’interno del sistema universitario. La riforma universitaria proposta dal Governo Draghi ha portato a un significativo cambiamento nel sistema dei contratti universitari senza però prevedere finanziamenti aggiuntivi per coprire l’aumento del costo del lavoro. Di conseguenza, è stato deciso che la spesa per i nuovi contratti dovesse rimanere sotto il livello preesistente, il che ha causato una serie di problematiche per i ricercatori e i lavoratori precari nel mondo accademico. Nel contesto di questa riforma la situazione è ulteriormente complicata dal fatto che i nuovi contratti previsti dal DDL Bernini non hanno previsto risorse aggiuntive. Inoltre, la riforma ha dato la possibilità di usare esclusivamente assegni e contratti di ricerca (RdtA) nei progetti finanziati dal PNRR, contribuendo così a un aumento delle figure precarie nelle università, in particolare per coloro che sono coinvolti nei progetti di ricerca. Nel DDL Bernini, oltre alla figura del Ricercatore Tenure Track (RTT) e del Contratto di Ricerca, vengono introdotte altre quattro nuove figure precarie:

  1. Contratto post-doc: simile al Contratto di Ricerca ma con una durata annuale e senza contrattazione collettiva. Questo nuovo contratto limita la protezione e i diritti dei lavoratori.
  2. Professore aggiunto: una figura a tempo determinato per tre anni che può essere nominato direttamente dalla governance dell’ateneo senza necessità di abilitazione scientifica, il che potrebbe portare alla creazione di una docenza precaria e di contratti di docenza non stabilizzati. La figura non ha limiti di retribuzione, il che solleva preoccupazioni riguardo alla gestione delle risorse e a una possibile disparità tra atenei.
  3. Assistente alla ricerca junior e senior: queste due nuove categorie vengono definite come “borsisti” e sono in pratica una reintroduzione degli assegni di ricerca, con condizioni ancora più precarie. Queste nuove figure riducono ulteriormente la stabilità professionale degli accademici e dei ricercatori.

La riforma ha portato a una situazione di incertezze operative e procedurali, con il Contratto di Ricerca che è stato sottoposto a una lunga contrattazione collettiva conclusasi solo il 9 ottobre ma al momento è ancora ferma al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Questo ritardo nella validazione ha creato una paralisi nelle università, dove non è stato possibile attivare nuovi contratti post-doc. Inoltre, le nuove figure previste dal DDL, come il Contratto post-doc e il Professore aggiunto, sono ancora in discussione nelle Commissioni del Senato, con l’approvazione definitiva che potrebbe avvenire non prima di aprile. Una volta approvato il DDL, il Ministero dell’Università e della Ricerca avrà altri 60 giorni per emettere i decreti applicativi. Nel frattempo, le università dovranno adattarsi e approvare i propri regolamenti interni ma tutto questo richiederà tempi ulteriori e l’attivazione dei contratti non sembra possibile prima di luglio. Questo crea una situazione di incertezza e di stallo, aggravata dal fatto che il bando Fis3, con cui sono messi a disposizione 475 milioni di euro per progetti di ricerca, prevede come unica forma contrattuale il Contratto di Ricerca non ancora operativo. Inoltre, il bando stabilisce che anche i vincitori dei progetti di eccellenza saranno inquadrati con contratti precari e senza possibilità di stabilizzazione. Questo scenario ha creato una serie di paradossi e difficoltà amministrative e organizzative per le università e per i ricercatori. Non solo l’inquadramento contrattuale precario impedisce la stabilizzazione dei ricercatori ma anche la difficoltà nell’attivare i contratti necessari per accedere ai finanziamenti europei e ai progetti di ricerca ha messo sotto pressione il sistema accademico, con il rischio che la precarietà diventi la norma. La situazione peggiora se prendiamo in considerazione il Decreto Ministeriale n. 1170 del 07-08-2024 che ha stabilito per il 2024 un taglio di 173 milioni di euro al Fondo di Finanziamento Ordinario delle università rispetto al 2023, rappresentando il primo taglio nominale dal 2015. Tuttavia, già negli ultimi anni le risorse destinate al sistema universitario erano diminuite in termini reali, con un calo progressivo almeno dal 2020, secondo l’analisi della FLC CGIL. Questa tendenza è confermata anche dall’andamento del Fondo di Finanziamento Ordinario in rapporto al PIL, come evidenziato dagli economisti Rocco De Nicola e Giovanni Dosi, che segnalano una costante riduzione del peso dell’università nel bilancio statale. A questo taglio si sommano 340 milioni di euro che erano stati vincolati ai piani straordinari di reclutamento previsti nel 2022, portando la stima complessiva della riduzione dei finanziamenti a circa mezzo miliardo di euro. Inoltre, l’entrata a regime degli aumenti delle retribuzioni del personale universitario ha determinato un ulteriore incremento della spesa per gli atenei di circa 300 milioni di euro rispetto al 2022. Questo significa che, oltre ai tagli diretti, gli atenei devono ora affrontare anche un aggravio di costi strutturali, senza un corrispondente aumento delle risorse disponibili. Le proteste della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) hanno spinto il Ministero dell’Università e della Ricerca a modificare la destinazione delle risorse già previste per il piano straordinario di reclutamento: invece di finanziare nuove assunzioni, queste verranno utilizzate per coprire l’aumento delle spese correnti. In sostanza, il Ministero ha scelto di garantire gli stipendi già in essere tagliando le assunzioni future, una soluzione che avrà effetti diretti sulla stabilizzazione del personale precario. Molti atenei, di conseguenza, hanno già segnalato difficoltà nel chiudere i bilanci e nella programmazione delle assunzioni. Oltre ai tagli già decisi per il 2024, la Legge di Bilancio ha previsto ulteriori riduzioni per i prossimi anni: 702 milioni di euro tra il 2025 e il 2027, accompagnati da un blocco del turnover al 75% nel 2025, in linea con quanto stabilito per l’intera Pubblica Amministrazione. Questo significa che per ogni quattro pensionamenti o cessazioni dal servizio, gli atenei potranno assumere solo tre nuovi lavoratori, con un impatto significativo sul ricambio generazionale e sulla continuità della ricerca e della didattica. Secondo il docente e economista Gianfranco Viesti, queste misure avranno un effetto fortemente diseguale nel sistema universitario italiano. Gli atenei più grandi e finanziariamente solidi avranno maggiore capacità di assorbire i tagli, mentre le università situate nelle aree più svantaggiate del Paese, già in difficoltà per la carenza di risorse, subiranno le conseguenze più gravi, rafforzando le disparità territoriali nell’accesso all’istruzione superiore e alla ricerca. Parallelamente, un elemento potenzialmente molto critico per l’università è contenuto nel DDL Sicurezza che introduce per la prima volta l’obbligo per il personale accademico di collaborare con i servizi segreti. Secondo l’Associazione Italiana per la Promozione della Scienza Aperta, questa norma potrebbe avere implicazioni gravi per l’indipendenza della ricerca, trasformando il mondo universitario in uno strumento dell’intelligence nazionale. Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha denunciato il rischio di un’ingerenza senza precedenti nella libertà accademica, con possibili pressioni sugli studiosi e limitazioni alla ricerca in determinati ambiti. Sul fronte delle riforme strutturali, il governo ha avviato un processo di revisione del sistema universitario, con la nomina di due gruppi di lavoro. Il primo, istituito a luglio, è presieduto da Ernesto Galli della Loggia e include Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, un think tank neoliberale che promuove una visione del sapere incentrata sul mercato. Il secondo gruppo, creato con il Decreto Ministeriale n. 1591 del 20-09-2024, ha il compito di riformare il reclutamento, la qualità della formazione, la governance universitaria e il sistema di valutazione della ricerca, con possibili cambiamenti di ampio respiro. Questa operazione, definita da Gabbuti “tagliando alla Gelmini”, si inserisce in un contesto politico in cui l’università è tradizionalmente trascurata: il centrodestra ha varato i tagli più pesanti mentre il centrosinistra, pur avendo gestito le rare fasi di espansione (tarda fase anni ‘90 e biennio post-pandemia), non ha mai promosso un finanziamento strutturale che portasse l’università italiana ai livelli europei. Infine, la situazione italiana si inserisce in una tendenza internazionale in cui l’università è sempre più oggetto di una guerra culturale da parte delle destre. Negli Stati Uniti, il vicepresidente di Trump ha dichiarato che “i professori sono il nemico” e ha lodato il primo ministro ungherese Viktor Orbán per il principio secondo cui i contribuenti devono avere voce nella gestione universitaria. La ministra Bernini ha rifiutato qualsiasi paragone con l’Ungheria ma resta aperta la questione se il governo italiano condivida o meno questa visione di controllo politico sull’università.

  1. Le università telematiche

La conclusione del precedente paragrafo ci consente di approfondire un elemento marginale nel lavoro di Pezzulli sull’università neoliberale: le università telematiche. Possiamo colmare questo vuoto utilizzando il rapporto della FLC CGIL Il piano inclinato. Rischi e punti di tenuta del sistema universitario italiano. L’ambiente promosso dalle riforme neoliberali ha favorito lo sviluppo di università non statali. Ad oggi rappresentano un terzo degli atenei abilitati al rilascio dei titoli di studio: 31 su 97 di cui ben 25 fondati dopo il 1991. Nell’anno accademico 2022-2023 raccoglievano quasi un quinto di tutti gli studenti e studentesse, parliamo di 372.286 unità su 1.909.360 secondo i dati USTAT, ed impiegano il 6,5% del personale docente di ruolo, sia a tempo determinato che indeterminato, ovvero 4000 unità sulle 61.000 totali. Questo insieme di università comprende realtà pubbliche, come le università di Bolzano e dalla Valle d’Aosta, atenei con particolari caratteristiche culturali, per esempio Cattolica o Bocconi, disciplinari, pensiamo all’Università medica internazionale UniCamillus, e infine le 11 università telematiche di cui 2 pubbliche, ovvero UniTelma Sapienza e il consorzio UniNettuno. Il rapporto sostiene che il nostro sistema universitario è di tipo humboldtiano, pur nel quadro di una crescente autonomia, e ha un inquadramento normativo che stabilisce per tutti gli atenei un regime pubblicistico autorizzativo per il rilascio dei titoli che hanno lo stesso valore legale, un’offerta formativa disciplinata da ordinamenti didattici nazionali, le stesse modalità di istituzione e soppressione, le stesse procedure di accreditamento delle sedi e dei corsi di studio, gli stessi criteri di misurazione e controllo degli standard qualitativi del servizio e del diritto di studio, un comune regime pubblicistico di reclutamento e gestione dei rapporti di lavoro con docenti e ricercatori e infine la medesima subordinazione ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministero. La gestione dell’emergenza pandemica ha rafforzato l’autonomia dell’università italiana, soprattutto attraverso la diffusione della didattica a distanza, che ha però radici più antiche nel paese. Già nel 1992 il Consorzio UniNettuno sperimentava corsi a distanza tramite RAISAT, anticipando lo sviluppo dei MOOC e contribuendo a definire criteri per l’organizzazione di questa modalità formativa. Il DM del 17 aprile 2003 e le Linee Guida ANVUR del 2014 hanno regolamentato l’accreditamento dei corsi a distanza, evidenziandone la specificità, il maggior impegno richiesto ai docenti e la necessità di integrare la lezione erogata con attività interattive come forum, esercizi e test di autovalutazione. Durante la pandemia, la diversificazione delle soluzioni didattiche (streaming, blended, registrazioni, modalità semplificate) ha innescato un dibattito negli atenei, inserendosi in un processo di rinnovamento avviato negli ultimi vent’anni con la riforma del 3+2, una programmazione più strutturata e l’uso diffuso delle slide. Se alcune pratiche di lavoro a distanza introdotte nel periodo emergenziale sono state mantenute per funzioni amministrative e di ricerca, sul piano della didattica si è riaffermata l’importanza della presenza, tanto per l’apprendimento quanto per la partecipazione alla vita collettiva dell’università. Negli ultimi anni, inoltre, si sono consolidate tre tendenze: l’aumento degli iscritti alle università telematiche, i cambiamenti nei loro assetti proprietari e lo sviluppo di modelli didattici ibridi. Questi fenomeni stanno determinando una trasformazione profonda dell’intero sistema universitario, alterandone gli equilibri tradizionali. Per quanto riguarda il primo punto, leggendo il rapporto ANVUR 2023, notiamo che più del 10% degli studenti universitari è iscritto in un ateneo telematico. I dati USTAT mostrano chiaramente un trend positivo per questo tipo di università. Nel 2008-2009 i loro iscritti erano 20.874 su un totale di 1,8 milioni, nel 2011-2012 si arriva a 40.164 su 1,75 milioni, nel 2015-2016 siamo a 62.276 su 1,65 milioni. Nell’anno accademico 2022-2023 la quota di iscritti alle telematiche è pari a 251.017, ovvero il 13,15% degli iscritti ad un corso di laurea, l’anno accademico precedente segnava quota 223.937 mentre in quello 2020-2021 il totale era fermo a 184.901.

Questa crescita inizia nel 2016, quando l’università recupera il numero di iscritti perso a causa delle recessioni negli tra il 2009 e il 2012 e dei tagli di Tremonti, si parla di un calo da 1.821.818 a 1.652.224 studenti. Con il 2020 si supera il dato del 2009 arrivando a 1.841.372 e nell’anno accademico 2023-2024 ci si attesta a quota 1.909.360. Nel suo complesso l’università in questi anni ha acquisito oltre 257.000 iscritti, ovvero +15,5% rispetto all’anno accademico 2015-2016. In questo stesso arco di tempo gli atenei telematici hanno registrato oltre 189.000 studenti con un aumento del 303,07%. In breve, oltre il 73% della crescita degli iscritti nelle nostre università è da attribuire all’espansione delle università telematiche. Questi iscritti sono in maggioranza lavoratori con oltre 31 anni di età. Il rapporto ANVUR 2023 ci dice che nell’anno accademico 2021-2022 l’80% degli studenti delle università tradizionali aveva un’età inferiore ai 26 anni mentre questa quota nelle università telematiche rappresentava il 34% del totale. Il 57% di essi aveva almeno 28 anni e di questi il 45% aveva più di 31 anni. Nello stesso anno accademico nelle università tradizionali l’80% dei laureati aveva 23 anni mentre nelle università telematiche il dato scende al 20,6% e quasi il 60% dei laureati aveva almeno 28 anni. Una parte significativa di questi iscritti lavora ed utilizza gli atenei telematici per completare la propria carriera universitaria e infatti il 70% di loro proviene da atenei statali. Nonostante ciò esiste una parte di iscritti che ha svolto una formazione solo telematica. Il rapporto ANVUR 2023 parla di metà degli iscritti a questi atenei. Questo dato ci parla di una tendenza in atto negli ultimi anni: l’aumento degli immatricolati nelle università telematiche. Una simile crescita avviene comunque in un contesto positivo per tutta l’università italiana visto che il numero di nuovi immatricolati negli ultimi tre anni ha superato quota 330.000 avvicinandosi al picco pre-crisi del 2003-2004, cioè 338.000 immatricolazioni. Di questi oltre 22.000 ha scelto, nello stesso periodo di tempo, di iscriversi alle università telematiche. Si parla del 7% di tutte le nuove matricole che pur essendo una percentuale inferiore rispetto al complesso degli iscritti delle università telematiche non è un dato da trascurare ed è in crescita rispetto al 5% del periodo pre-pandemia. Il rapporto della FLC CGIL ci dice che dopo il COVID-19 questi atenei hanno acquisito stabilmente tra le 6000 e le 7000 matricole in più all’anno. 

In tutto le università telematiche, dicevamo, sono 11. Tenendo in considerazione una certa variabilità negli anni e avendo come riferimento i dati USTAT 2023 la più grande è Pegaso con 90.000 iscritti, seguono E-Campus (47mila iscritti), Mercatorum (43mila iscritti); Cusano (22mila), Nettuno e Marconi (15mila), San Raffaele (10mila), Unitelma (3.300, ma circa il doppio a master e altri corsi avanzati), Fortunato (2.200), IUL (1300) e infine Da Vinci (300). Stando al rapporto ANVUR del 2023, nell’anno accademico 2021-2022 le università tradizionali avevano 5031 corsi di studio mentre le telematiche appena 149. La maggior parte di questi corsi sono legati all’ambito economico-giuridico e sociale (45,6%), STEM (25,5%), all’area sanitaria e agro-veterinaria (6,7%) e infine corsi di Sport e Scienze motorie. Il grosso degli studenti si concentra in particolari corsi di laurea. Il rapporto ne cita due che emergono per la loro elevata concentrazione: la laurea magistrale in Nutrizione umana (LM 61) e le lauree in Scienze Motorie (L 22 e LM 67). Questi dati hanno una certa rilevanza nel contesto nazionale come ci dice il Collegio nazionale dei presidenti dei relativi corsi di laurea. Nell’anno accademico 2021-2022 gli iscritti alla LM-61 in Italia erano 6873 di cui 2892 iscritti ad un corso erogato da un solo ateneo telematico, cioè il San Raffaele Roma. Nell’anno accademico 2022-2023, secondo i dati USTAT, gli iscritti a corsi di laurea in Scienze Motorie in tutta Italia sono in totale 63.564 di cui quasi 28.000 iscritti a atenei telematici. Su questo fronte UniPegaso fa la parte del leone con i suoi 24.841 iscritti che stacca nettamente i 2163 iscritti del San Raffaele Roma. Questi due atenei, insieme, fanno il 42% degli iscritti italiani a questi corsi di laurea. 

Questa tipologia di università è stata istituita nel 2002 con l’articolo 26, comma 5, della legge 289 che ha stabilito i criteri per l’accreditamento dei corsi universitari a distanza e delle istituzioni abilitate a rilasciare titoli accademici. L’autorizzazione è subordinata al possesso di adeguate risorse organizzative e gestionali, con particolare attenzione all’uso flessibile delle tecnologie, all’integrazione dei servizi di supporto alla didattica, alla qualità delle risorse di apprendimento, alla gestione dei contenuti attraverso teletutoring, alla verifica delle competenze e alla ricerca su sistemi innovativi di e-learning. Il decreto ministeriale del 17 aprile 2003 ha precisato i requisiti di accreditamento e istituito un Comitato di esperti poi sostituito dal CNVSU nel 2005 e dall’ANVUR nel 2010. Tra il 2004 e il 2006 sono state accreditate le undici università telematiche attualmente operative. Nel 2006 il governo Prodi II ha bloccato la creazione di nuove università telematiche subordinandone l’autorizzazione a un regolamento mai emanato, rendendo così impossibile l’istituzione di nuovi atenei. Inizialmente il Ministero aveva esteso il blocco anche all’accreditamento di nuovi corsi di laurea ma questa interpretazione è stata dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato nel 2013, a seguito di un ricorso di UniPegaso ed E-Campus contro il diniego ministeriale, confermando una precedente sentenza del T.A.R. del Lazio. Una tappa importante nella loro evoluzione si ha il 14 maggio 2019 con il Consiglio di Stato che pubblicò un parere che permise alle università di assumere la forma di società di capitali, riconoscendo loro esplicitamente un obiettivo di profitto. La richiesta di parere è stata avanzata dal MIUR dopo aver evidenziato la crescente tendenza delle università non statali, in particolare quelle telematiche, ad adottare modelli organizzativi improntati a una logica d’impresa e regolati dal codice civile. Dopo un’istruttoria approfondita che ha coinvolto MIUR, MEF e l’Università telematica Pegaso, il Consiglio di Stato ha espresso parere positivo, pur riconoscendo le problematicità derivanti dalla riconfigurazione del modello universitario sotto il paradigma del profitto. Tuttavia, ha ritenuto che non esistano impedimenti giuridici alla trasformazione delle università private in società di capitali, basandosi sul principio secondo cui tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito. Il 5 luglio 2019, l’Università telematica Pegaso ha modificato il proprio statuto adottando la forma di società a responsabilità limitata e assumendo la denominazione di “Università telematica Pegaso S.r.l.”, come sancito dal Decreto del Presidente del Consiglio di amministrazione dell’ateneo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Il decreto cita esplicitamente la nota MIUR del 19 giugno 2019, con cui il Ministero, acquisito il parere favorevole del Consiglio di Stato, ha dato il nulla osta alla modifica statutaria. Nell’agosto 2019 la stampa, in particolare Il Sole 24 ore, riporta la notizia secondo cui il fondo di private equity CVC è intenzionato a diventare socio delle università Pegaso e Mercatorum. CVC Capital Partners è un fondo britannico con sede legale in Lussemburgo nato come braccio europeo del Citicorp Venture Fund. Ha circa 50 miliardi di dollari di capitale raccolto e le sue attività spaziano da beni di consumo, industria farmaceutica e telecomunicazione fino ad una crescente presenza, almeno dagli anni Dieci, nei settori della salute e dell’educazione. Nel 2017 aveva acquisito per 700 milioni di sterline il QA Group nel Regno Unito, ovvero un’azienda impegnata nella formazione permanente in campo digitale che può contare su oltre 2200 corsi e certificazioni, percorsi di apprendistato, corsi base e diplomi post-laurea in collaborazione con varie università come Northumbria, Solent, Ulster, Middlesex e London Metropolitan University. Due anni dopo in Spagna ha acquisito per circa 1,1 miliardi di euro l’Universidad Alfonso X el Sabio che conta 15.000 studenti ed è specializzata nell’area sanitaria e il 30% di GEMS Education per circa un miliardo di dollari. Si tratta di uno dei più vecchi fornitori privati al mondo di istruzione K-12 con uno spettro che va dall’asilo fino ad arrivare alle scuole superiori. La sua sede è a Dubai ed ha ramificazioni in tutto il Medio Oriente oltre ad Africa, India, Gran Bretagna, Svizzera, Francia e USA con le sue oltre 60 scuole e i suoi 120.000 studenti. Nel 2021 è stato acquisto invece il gruppo giapponese TRY per circa un miliardo di dollari, si tratta del principale provider di servizi di tutoraggio personalizzato a casa e in classe, mentre nel 2023 ha realizzato una joint venture con la più grande università di Cipro, l’Università di Nicosia, per costruire una sua sede ad Atene per erogare corsi sanitari con titoli di studio riconosciuti.

Per quanto riguarda i suoi investimenti italiani, nel 2019 CVC Capital Partner entra in Multiversity acquisendo il 50% della proprietà dell’Università Telematica Pegaso che era già il più grande ateneo telematico in Italia con oltre 40.000 iscritti. Nel 2021 il fondo acquisisce il totale controllo di Multiversity investendo complessivamente 1,5 miliardi di euro. A sua volta nel 2022 Multiversity compra l’Università Telematica San Raffaele di Roma, operativa nell’area socio-sanitaria. Il gruppo è anche proprietario dell’Università Mercatorum, dell’85% del Sole 24 Ore Formazione, Università Telematica Pegaso a Malta e Certipass, l’ente erogatore di EIPASS. Multiversity è quindi alla testa della più grande realtà universitaria italiana per numero di iscritti. Se stiamo ai numeri dell’anno accademico 2022-2023 con oltre 140.000 iscritti è il principale soggetto universitario del paese. Gli atenei del gruppo Multiversity, inoltre, non solo sviluppano politiche commerciali coordinate ma hanno dato vita anche a modelli di gestione e funzionamento integrati. Il rapporto evidenzia il funzionamento delle relazioni con gli studenti e il passaggio delle informazioni. Tutto viene regolato attraverso i Learning point o Learning center. Si tratta di strutture distribuite su tutto il territorio nazionale che si definiscono come accreditate dalle università in oggetto come centro qualificato d’orientamento o per lo svolgimento di progetti didattici, educativi e formativi dell’Ateneo. Solamente UniPegaso ha all’attivo convenzioni con quasi 900 di questi centri sparsi in tutta Italia con propri tutor e personale a cui viene demandato il compito di tenere i rapporti con gli studenti con lo scopo non solo di promuovere i corsi e l’iscrizione ma anche tutte le pratiche amministrative e il supporto attivo al percorso didattico.

A questo punto il rapporto prova ad evidenziare i problemi fatti emergere nel nostro sistema universitario da questi atenei. In meno di vent’anni la creazione di un sistema di quasi mercato ha portato alla nascita di soggetti privati profit. Questa trasformazione ha attratto nel mercato universitario attori nazionali e player internazionali con ingenti investimenti. Il Consiglio di Stato nel 2019 evidenzia bene cosa ciò comporta per l’università: “l’attività di ricerca e formativa delle libere Università private, che ha una connotazione oggettiva di imprenditorialità e che tende sempre più a svolgersi nell’ambito di un mercato concorrenziale, impone l’esigenza, legittima e ragionevole, di poter attrarre capitali di investimento, per potenziare e migliorare l’offerta formativa e di servizi nella sua complessità, ed è possibile attrarre capitali solo se, tramite la redistribuzione degli utili, si può offrire una giusta remunerazione al rischio degli investitori”. Rincara la dose la Commissione speciale del Consiglio di Stato che aveva già evidenziato nel 2018, con il parere n. 2427, come le università non statali non sono obbligate a qualificarsi come organismi di diritto pubblico, poiché operano sempre più in una logica di competizione di mercato. Questa dinamica coinvolge anche le università pubbliche che modulano l’offerta formativa e logistica per attrarre studenti, la cui iscrizione rappresenta la principale fonte di finanziamento. Le università pubbliche devono inoltre gestire il servizio con criteri di economicità, decidendo l’istituzione o la soppressione di corsi e dipartimenti in base a valutazioni finanziarie e di sostenibilità economica. Di conseguenza, l’istruzione universitaria non è ontologicamente estranea alle logiche industriali o commerciali ma diventa tale solo quando è gestita senza criteri economici dal settore pubblico. L’ingresso delle università nella forma di società di capitali e la crescente logica di mercato sollevano la necessità di riflettere su come bilanciare l’attività imprenditoriale con la tutela dell’interesse generale. L’attuale normativa universitaria, sviluppata tra il 1933 e i primi anni Duemila, presupponeva che tutti i soggetti, statali e non, perseguissero un interesse pubblico ma oggi le strategie di business, le scelte operative e le modalità di erogazione dei servizi rischiano di essere guidate esclusivamente dalle logiche di mercato, a discapito dell’interesse collettivo, delle comunità accademiche e degli studenti. Gli strumenti di supervisione attuali, come il MUR, il CUN e l’ANVUR, non sembrano in grado di garantire un adeguato equilibrio rispetto al rischio che interessi particolari prevalgano su quelli generali. Questi problemi emergono quando si prende in considerazione il rischio di fallimento delle università configurate come società di capitali poiché una loro liquidazione comporterebbe non solo la dispersione di un patrimonio culturale e di ricerca ma anche gravi conseguenze per gli studenti e il personale, in particolare per quello assunto con contratti di diritto pubblico. Sebbene il Consiglio di Stato non abbia individuato ostacoli giuridici alla trasformazione delle università in società di capitali, riconosce la fondatezza delle preoccupazioni della Ragioneria generale dello Stato, dal momento che tali soggetti sarebbero pienamente esposti alle conseguenze della responsabilità patrimoniale prevista dal diritto privato. Il problema si estende alla gestione quotidiana delle università, poiché l’assenza di vincoli normativi stringenti e la periodicità triennale delle procedure di accreditamento rendono incerti i meccanismi di controllo, rischiando di compromettere la funzione educativa e di ricerca. Questa situazione evidenzia un vuoto normativo: al di là della possibilità di escludere per legge l’adozione della forma di società profit per le università e della più ampia questione della logica di mercato nell’istruzione superiore, la mancanza di norme specifiche rappresenta un pericolo per la stabilità del sistema universitario. Il Consiglio di Stato stesso riconosce che, senza un adeguato intervento normativo, le università in forma societaria potrebbero incontrare problemi operativi significativi. Per questo motivo, suggerisce al governo di promuovere in Parlamento modifiche legislative che aggiornino la disciplina universitaria, intervenendo anche sul testo unico del 1933, per meglio adattarla all’ingresso delle università private nella forma di società di capitali. Il rapporto sposta il focus sulla libertà didattica e di ricerca nelle università telematiche. Sappiamo che l’articolo 33 della Costituzione sancisce la libertà di ricerca e insegnamento, principio ribadito dalla Consulta nel 1988 e dalla legge 240/2010 che definisce le università come luoghi di libera formazione e ricerca. Questo principio è garantito dal regime pubblicistico dei rapporti di lavoro del personale docente in tutti gli atenei, statali e non statali. Tuttavia, lo sviluppo di logiche di mercato e l’estremizzazione dell’autonomia universitaria minacciano concretamente queste libertà poiché strategie di business e modelli organizzativi sempre più orientati al profitto influenzano direttamente le condizioni di lavoro e l’insegnamento. L’articolo 10 della legge 240/2010 ha inoltre decentralizzato le procedure disciplinari nei singoli atenei, aumentando il rischio di ingerenze del management sulle opinioni e sulle libertà dei docenti, come dimostrano i casi UniCusano (2013) e LUISS (2022) in cui la FLC CGIL è dovuta intervenire per difendere docenti da provvedimenti censori. L’impatto delle logiche di mercato si riflette anche sulla didattica, con alcuni atenei che impongono formati rigidi per gli esami, limitando l’autonomia del docente oltre quanto previsto dalla normativa vigente. Ad esempio, l’Università Telematica San Raffaele ha introdotto un format d’esame obbligatorio mentre in altri atenei sono state segnalate pressioni per adottare specifici testi d’esame. Queste pratiche contrastano con il principio secondo cui gli esami devono accertare la preparazione complessiva dello studente e non limitarsi alle nozioni impartite dal singolo docente. Infine, la scarsa tutela dei diritti dei docenti è evidenziata dalla mancanza di regolamenti chiari sugli impegni didattici nella metà degli atenei telematici, con solo due su undici che indicano il limite massimo di ore di insegnamento (120 annue). La FLC CGIL riceve numerose segnalazioni di carichi didattici ben superiori ai limiti previsti, spesso senza compenso, evidenziando una crescente precarizzazione del lavoro accademico. A questo punto possiamo riassumere brevemente i problemi riguardanti la qualità dei corsi, i criteri di accreditamento e del personale. Il decreto ministeriale del 17 aprile 2003 ha introdotto criteri specifici per l’accreditamento delle università telematiche, con requisiti semplificati rispetto alle tradizionali, soprattutto per il personale docente. Tuttavia, già nel 2010 e nel 2013 due rapporti critici, il primo del CNVSU e il secondo della Commissione di studio istituita dal DM 429/2013, hanno evidenziato la necessità di eliminare le deroghe normative per le telematiche, uniformando la disciplina e imponendo obblighi più stringenti sui docenti, come il rispetto di requisiti quantitativi e lo svolgimento di attività di ricerca. L’accreditamento periodico è stato introdotto con il d.lgs 19/2012 e attuato dall’ANVUR con il modello AVA1 nel 2014, seguito da AVA2 (2017-2021) e AVA3 (dal 2021). I risultati delle valutazioni AVA2 hanno mostrato che le università telematiche ottengono punteggi inferiori rispetto a quelle tradizionali: su 11 atenei telematici, solo uno ha ricevuto una valutazione “Pienamente soddisfacente” (9%), mentre la maggior parte (72,7%) è stata classificata come “Soddisfacente” e due hanno ottenuto un giudizio “Condizionato” (18,2%), a fronte di performance mediamente migliori per le università tradizionali. Nel 2018 si è tentato di regolamentare ulteriormente il settore con un Tavolo tecnico istituito dalla ministra Fedeli per rivedere la disciplina delle telematiche ma il lavoro si è arenato. Nel 2021 il DM 1154/21 ha eliminato le deroghe introdotte nel 2003, imponendo requisiti uniformi per le università tradizionali e telematiche tuttavia con criteri distinti per i corsi erogati a distanza. Questo ha portato a un aumento significativo del numero di docenti necessari per accreditare un corso di laurea nelle telematiche. Il decreto direttoriale 2711/2021 ha fissato al 30 novembre 2024 la scadenza per adeguarsi a questi standard. Nel gennaio 2024, alcuni deputati della Lega hanno proposto un emendamento al Milleproroghe per rinviare l’applicazione della norma ma è stato respinto con il parere contrario del MUR e critiche della CRUI. Multiversity ha tentato di bloccare il DM 1154/21 con un ricorso al TAR, respinto nel dicembre 2022, e successivamente con un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, anch’esso fallito. Tuttavia, questi ricorsi hanno portato alla creazione di un nuovo Tavolo di discussione con il DM 294/2021, i cui esiti non sono noti. Nel febbraio 2024, il DM 450 ha istituito un nuovo Gruppo di lavoro presso il MUR con l’obiettivo di valutare eventuali modifiche normative. Per rispettare la scadenza del 30 novembre 2024, molte università telematiche hanno avviato un massiccio piano di assunzioni: ad esempio, Pegaso ha bandito 105 posizioni tra professori ordinari, associati e ricercatori; Mercatorum 28; San Raffaele Roma 44; E-Campus 76. Nonostante queste assunzioni, persiste il problema della sproporzione tra il numero di studenti e docenti di ruolo nelle telematiche. Secondo il Rapporto ANVUR 2023, mentre nelle università tradizionali il rapporto studenti/docenti è intorno a 1/30 (e 1/21 considerando il personale a contratto), nelle telematiche è passato da 1/152 nel 2012 a 1/384 nel 2022, un valore enormemente superiore agli standard internazionali (UE: 1/14,3; Francia: 1/16,7; Germania: 1/11,1). Questa disparità non riguarda solo la didattica ma anche la possibilità di offrire attività formative come laboratori, seminari e il supporto alle tesi di laurea, mettendo in discussione la qualità complessiva dell’offerta formativa di questi atenei. Al 1° settembre 2023, i dati relativi alle università italiane, elaborati a partire da quelli di USTAT, indicano un totale di 1.908.360 studenti iscritti per l’anno accademico 2022-2023 e 63.758 docenti in ruolo (sia a tempo indeterminato che determinato). Il rapporto docenti/studenti complessivo è di 1 a 29,95, in leggero miglioramento rispetto all’anno precedente grazie al piano straordinario di assunzioni. Nelle università statali, il rapporto è più favorevole, pari a 1 a 25,8, mentre nelle università non statali tradizionali è più alto, 1 a 33,6. Se si escludono però le università non statali tradizionali, il rapporto nelle altre università non statali scende a 1 a 26,31, più simile a quello delle università statali. Il dato delle università telematiche è invece nettamente diverso, con un rapporto di 1 a 342,92. In queste istituzioni ci sono solo 732 docenti di ruolo per 251.017 studenti. Questo rapporto, benché ancora molto più elevato rispetto alle università tradizionali, è in calo rispetto a quello segnalato dall’ANVUR negli anni precedenti, grazie alle assunzioni in corso per raggiungere i requisiti minimi entro il 30 novembre 2024. Si prevede che il rapporto nelle università telematiche continui a diminuire ma comunque rimarrà molto più alto rispetto alle università tradizionali anche dopo l’attuazione delle nuove assunzioni. La composizione del personale docente evidenzia una differenza significativa tra università tradizionali e telematiche. I docenti nelle università italiane possono essere suddivisi in sei tipologie: Ordinari, Associati, RTI (Ricercatori a tempo indeterminato, ormai in esaurimento ma ancora circa 5.000 unità), RTT (Ricercatori a tempo determinato, destinati a diventare a tempo indeterminato dopo un certo numero di anni) e le due categorie a tempo determinato: Straordinari (professori assunti con contratti triennali finanziati con fondi esterni, previsti dalla legge Moratti) e Rtda (figura ad esaurimento, con obblighi didattici ridotti rispetto ai professori ma comunque considerata parte del personale di ruolo). Nel dettaglio, tra i professori Ordinari in Italia, il 25,23% ricopre questa posizione, pari a 16.086 unità. Nelle università non statali tradizionali, la percentuale di Ordinari è più alta, arrivando al 30,12%. Nelle università telematiche, invece, solo il 14,07% dei docenti di ruolo è Ordinario, il che rappresenta circa il 44% in meno rispetto alle università tradizionali. Un dato molto significativo è la percentuale di personale a tempo determinato nelle università telematiche che arriva al 29,51%, circa il doppio rispetto alle università tradizionali. La presenza di docenti Straordinari e Rtda nelle università telematiche è stata determinante per garantire il numero di docenti richiesti per l’accreditamento dei corsi di studio. Il numero di Straordinari è aumentato fino a un picco di 430 unità nel 2021, con 303 docenti nelle università telematiche, ma nel 2022 questo numero è sceso a 210 unità, un segno del cambiamento in corso. Alcuni atenei telematici hanno pubblicato bandi per concorsi da professore a tempo definito, una condizione che prevede un impegno didattico ridotto, la possibilità di svolgere incarichi professionali esterni e uno stipendio inferiore di circa il 35% rispetto a quello di un docente a tempo pieno. Tuttavia, il DPR 382/1980 stabilisce che la scelta del regime di impegno (tempo pieno o tempo definito) è una decisione individuale del docente, da comunicare al rettore almeno sei mesi prima dell’inizio dell’anno accademico e vincolante per almeno due anni. L’inserimento della condizione a tempo definito già nel bando di concorso è quindi illegittimo, poiché limita la libertà del docente di scegliere il proprio regime di impegno e consente agli atenei di ridurre i costi del personale. Inoltre, questo meccanismo può fungere da strumento di pressione nei confronti dei docenti che potrebbero essere incentivati a mantenere un profilo più controllabile per ottenere un eventuale passaggio a tempo pieno. E-Campus ha pubblicato tutti i suoi 39 bandi per professore associato con questa modalità, così come i 3 bandi per professore ordinario. Alla San Raffaele Telematica di Roma, 23 bandi per Associato e 13 su 18 bandi per RTT sono stati banditi a tempo definito. Anche Pegaso ha adottato questa pratica, con almeno 3 bandi per Associato pubblicati con questa restrizione. Particolarmente rilevante è la situazione dei 52 bandi per RTT, per i quali la pratica è formalmente consentita, ma appare orientata a un contenimento dei costi e al mantenimento di un controllo sulla possibilità di stabilizzazione del personale tenure track. Parallelamente, il personale tecnico, amministrativo e bibliotecario delle università presenta notevoli differenze tra le istituzioni statali e non statali. Nelle università statali, questo settore impiega 49.997 lavoratori nell’anno accademico 2022-2023, tra cui circa 1.800 a tempo determinato e 1.300 collaboratori linguistici, tutti inquadrati nel CCNL Istruzione e Ricerca come dipendenti pubblici. Oltre a questo personale diretto, gli atenei statali fanno sempre più ricorso all’esternalizzazione di servizi (portineria, pulizie, vigilanza, servizi informatici), una tendenza accentuata dalle restrizioni del DL 49/2012 che ha imposto vincoli stringenti sulla spesa per il personale, incentivando le università a ridurre le assunzioni dirette. Nelle università non statali, il personale tecnico, amministrativo e bibliotecario è composto da 5.038 lavoratori, di cui circa 440 a tempo determinato e 185 collaboratori linguistici. Di questi, circa 900 sono impiegati nelle 11 università telematiche. Tuttavia, a differenza delle università statali, questo personale non è inquadrato in un’unica o prevalente forma contrattuale. Non essendo dipendenti pubblici, non sono obbligatoriamente inseriti nel CCNL Istruzione e Ricerca, anche se alcuni atenei lo utilizzano come riferimento. In molti casi le università non statali adottano contratti tipici delle scuole private o del settore Multiservizi oppure si avvalgono di società esterne anche per ruoli centrali nel funzionamento dell’ateneo. Questa frammentazione contrattuale e la mancanza di vincoli normativi specifici rendono il personale amministrativo delle università non statali meno visibile e più esposto a condizioni di lavoro precarie e meno tutelate, nonostante il suo ruolo sia essenziale per il funzionamento degli atenei e per la qualità dell’offerta formativa e della ricerca. L’ultimo punto toccato dal rapporto riguarda gli esami e il loro controllo. Diverse università telematiche e profit pongono l’accento sulla facilità di accesso e sul successo accademico come elementi centrali delle loro strategie di attrazione degli studenti. Un esempio è la Link University che sul proprio sito evidenzia la possibilità di seguire corsi sia in presenza, nel rispetto delle normative, sia a distanza dalla propria città grazie a infrastrutture tecnologiche avanzate. Tale impostazione trova fondamento nel DM 17 aprile 2003 che disciplina l’accreditamento degli atenei telematici e dei loro corsi di studio, prevedendo la massima flessibilità nella fruizione della didattica. Secondo l’art. 4, comma 1, lettera e) del decreto, questi atenei devono consentire agli studenti sia di acquisire il massimo numero possibile di crediti annuali sia di distribuire tali crediti su un periodo pluriennale. Il modello didattico delineato dalla normativa prevede un ambiente di apprendimento basato sulla connessione in rete, l’uso del personal computer e un alto grado di indipendenza dagli orari e dalla presenza fisica. Inoltre, gli atenei telematici devono garantire il monitoraggio continuo dell’apprendimento attraverso tracciamenti del percorso formativo, momenti di valutazione e interazione digitale. Il sistema è quindi concepito per essere non solo flessibile ma anche adattivo, permettendo la personalizzazione del percorso di studio in base alle prestazioni dello studente e alle sue interazioni con i contenuti online. Tuttavia, l’applicazione concreta di questi principi all’interno di un sistema di mercato, in cui operano soggetti a scopo di lucro, può favorire dinamiche di facilitazione che vanno oltre la semplice flessibilità didattica, compromettendo la funzione di verifica dell’apprendimento. Il rischio è che l’attenzione al successo accademico si traduca in un indebolimento del rigore valutativo, con un impatto negativo sulla qualità dei titoli di studio rilasciati. Negli ultimi anni, e in particolare nel triennio successivo alla pandemia, si è assistito a una crescita significativa degli studenti iscritti alle università telematiche, accompagnata dall’espansione dei corsi online. Durante l’emergenza Covid-19, il DPCM 4 marzo 2020 e successive disposizioni del MUR avevano temporaneamente autorizzato lo svolgimento online non solo della didattica ma anche degli esami di profitto e delle discussioni delle tesi di laurea. Questa deroga è stata ufficialmente revocata il 31 marzo 2022 con il DL 24 marzo 2022, n. 24, convertito con la legge 19 maggio 2022, n. 52. A partire da tale data, tutti gli esami universitari, inclusi quelli delle università telematiche, devono essere svolti in presenza, senza eccezioni neanche per studenti fragili o con impedimenti oggettivi. Nonostante la normativa vigente, numerosi atenei telematici continuano a permettere lo svolgimento degli esami di profitto in modalità online. Il DM 17 aprile 2003 stabilisce all’art. 4, comma 2 che la valutazione degli studenti deve avvenire esclusivamente presso le sedi universitarie, sotto la supervisione di docenti e ricercatori. Tale vincolo è ribadito anche dal DM 289 del 25 marzo 2021 che all’allegato 4, punto A, lettera d) sancisce l’obbligo di svolgere in presenza sia gli esami di profitto sia le discussioni delle prove finali. Tuttavia, risultano ancora diffuse pratiche che aggirano queste disposizioni. L’Università Telematica San Raffaele, ad esempio, ha definito un regolamento operativo secondo cui gli appelli si svolgono per un mese in modalità digitale in presenza (tramite tablet nelle sedi decentrate) e per l’altro mese interamente online sulla piattaforma di ateneo, con somministrazione di test a scelta multipla. Anche l’università telematica Pegaso ha comunicato tramite i suoi canali informativi che, salvo modifiche ministeriali, gli esami per l’anno accademico 2023-2024 si svolgeranno sia online sia in presenza, nonostante la normativa non preveda questa possibilità. Di fronte alle contestazioni formali trasmesse al MUR e al CUN, alcuni atenei hanno fornito risposte contraddittorie. L’Università Telematica San Raffaele, ad esempio, ha dichiarato ufficialmente che gli esami si svolgono in presenza, pur continuando a prevedere sessioni online nei propri regolamenti interni. Inoltre, ha sostenuto che la valutazione a distanza rappresenta una modalità di accertamento equipollente a quella tradizionale, in contrasto con quanto stabilito dalle norme vigenti. Questo atteggiamento conferma le preoccupazioni su un possibile indebolimento del controllo sugli esami, con il rischio di una proliferazione di pratiche non conformi alla normativa. In assenza di un intervento chiaro da parte delle autorità competenti, permane l’urgenza di ricondurre tutte le prove di esame a un quadro di certezza normativa e di vigilanza effettiva, per garantire standard qualitativi adeguati e il rispetto dei requisiti di validità dei titoli rilasciati. Inoltre molti atenei telematici e non statali stanno moltiplicando le loro sedi distaccate, con alcune realtà arrivate ad averne fino a 60-70 distribuite nelle diverse province, aprendo una dinamica competitiva con le università tradizionali. Un caso emblematico è quello della Link University che ha istituito 9 sedi distaccate presso cui organizza esami, nonostante il suo modello formativo sia interamente in presenza. Questo solleva dubbi sulla conformità normativa poiché la possibilità di svolgere esami in sedi decentrate dovrebbe essere riservata a corsi prevalentemente o esclusivamente a distanza. Parallelamente, si moltiplicano le segnalazioni sull’adozione di format d’esame rigidamente standardizzati, come test a risposta multipla, utilizzati sia per gli esami nelle sedi distaccate sia per quelli online. Un caso particolarmente significativo è quello dell’Università Telematica San Raffaele che prevede sessioni d’esame in cui gli studenti devono rispondere a quiz preimpostati, spesso somministrati attraverso piattaforme digitali. Inoltre, alcuni learning center utilizzano canali WhatsApp e Telegram per fornire informazioni e materiali di studio. In alcuni casi questi canali sono organizzati in gruppi monotematici per corso di studio e addirittura per singoli esami. Un esempio è il portale Studenti telematici che si presenta come Centro di Orientamento Ufficiale per le università Pegaso, Mercatorum e San Raffaele e che collabora con enti di certificazione e formazione digitale. Da questi numerosi canali social emerge con facilità l’esistenza di cosiddetti “panieri di domande d’esame”, ovvero raccolte di quesiti che vengono utilizzati per la preparazione e spesso coincidono con quelli effettivamente posti durante le verifiche di profitto. Questo meccanismo trasforma gli esami in una sorta di test prevedibile, simile a quelli utilizzati nei quiz per la patente di guida, riducendo il loro valore valutativo. Dal punto di vista didattico, la tendenza alla flessibilità e all’adattabilità, sancita già dal DM 17 aprile 2003, ha portato alla diffusione di modalità di insegnamento asincrone, in cui le lezioni vengono registrate e rese disponibili per la fruizione senza vincoli di orario o interazione diretta con i docenti. Questo modello, sebbene risponda all’esigenza di accessibilità, presenta due criticità principali:

  1. L’interattività nei percorsi di apprendimento si riduce a forme minime di didattica integrativa, spesso limitate a test a risposta multipla o a interazioni standardizzate con tutor, compromettendo la dimensione relazionale della formazione universitaria.
  2. L’uso di videoregistrazioni favorisce una didattica standardizzata, in contrasto con la tradizione accademica humboldtiana, in cui l’insegnamento dovrebbe essere costantemente arricchito dai risultati della ricerca e dal confronto nelle comunità scientifiche di riferimento. L’assenza di un’integrazione tra didattica sincrona e asincrona rischia di compromettere ulteriormente la qualità dell’apprendimento.

Il rapporto ANVUR 2023 fornisce dati che evidenziano il successo accademico apparente degli studenti delle università telematiche rispetto a quelli delle università tradizionali. Se nelle università statali circa il 75% degli iscritti risulta in corso, nelle telematiche la percentuale sale all’85,7% e nelle università non statali all’89%. Per quanto riguarda il conseguimento della laurea triennale nei tempi previsti, il divario è ancora più evidente: il 44,8% degli studenti delle telematiche si laurea nei tre anni previsti, contro il 37,8% degli iscritti nelle università tradizionali. Questo quadro alimenta il timore di una deriva in cui alcune università, anziché puntare sulla qualità dell’insegnamento e sulla verifica rigorosa delle competenze acquisite, costruiscono strategie di mercato basate sulla garanzia implicita di percorsi facilitati e di esami di profitto semplificati. Il rischio è quello di un sistema in cui il valore del titolo di studio si indebolisce e in cui il controllo sulla legalità delle prove di valutazione diventa sempre più difficile, con una conseguente perdita di credibilità per l’intero settore della formazione universitaria. L’inquadramento nazionale dei corsi di studio, insieme all’azione del CUN e dell’ANVUR nei processi di accreditamento, ha finora impedito l’erogazione a distanza di determinati percorsi accademici considerati di particolare rilevanza. Questo vincolo è particolarmente evidente nei corsi delle aree sanitarie e di Scienze della Formazione Primaria nei quali il ruolo professionale delle figure in formazione e la necessità di garantire una preparazione adeguata sono sottolineati dalla presenza di lauree a ciclo unico e dal rispetto di obblighi e indicazioni europee. Questi ultimi impongono, tra le altre cose, una formazione laboratoriale specifica e lo svolgimento di attività di tirocinio pratico, elementi ritenuti essenziali per la costruzione delle competenze professionali richieste in tali ambiti.  In questo contesto, desta particolare preoccupazione l’attivazione di corsi di area sanitaria e di Scienze della Formazione Primaria da parte di un ateneo che propone un modello denominato “Experience universitaria live streaming”. Questo sistema consente agli studenti di seguire gli insegnamenti sia in presenza, nel rispetto delle normative vigenti, sia dalla propria città di residenza, attraverso infrastrutture tecnologiche e telematiche avanzate. Il rischio insito in questa modalità è che vengano meno le garanzie offerte dall’attuale sistema di formazione, compromettendo la qualità degli apprendimenti e la preparazione pratica degli studenti in settori in cui l’interazione con docenti, tutor e pazienti (nel caso dell’area sanitaria) o con gli alunni (nel caso di Scienze della Formazione Primaria) è considerata imprescindibile.  

3. Come cambiano docenti universitari e studenti nell’università neoliberale 

Tornando a Pezzulli e alla seconda parte del suo libro, ritiene l’università neoliberale un dispositivo perché è stato capace di creare nuove parole, di imporre nuovi rapporti di forza e nuovi processi di soggettivazione nelle università. Ad essere modificate sono le relazioni sociali e le soggettività degli studenti e dei docenti che sono state ridefinite in modo da tale da produrre una reciproca indifferenza. Il loro rapporto è sempre più mediato da procedure formali e digitali cosa che li rende molto distanti mentre sono tenuti ad impiegare in maniera produttiva il loro tempo sulla base di standard quantitativi legati al punteggio di carriera per quanto riguarda i professori e i crediti formativi per quanto riguarda gli studenti. L’università neoliberale ha modificato il ruolo e la figura sociale del professore universitario. Non a caso alcuni di loro parlano di cambiamento antropologico dovuto ad un esteso processo di burocratizzazione causato dalle Riforme e messo in pratica da circolari e protocolli Anvur che obbligano i docenti a svolgere molte attività amministrative, di valutazione e autovalutazione togliendo spazio allo studio, all’insegnamento e alla ricerca. Il valore assunto dalla ricerca grazie al nuovo quadro normativo e i criteri di ripartizione dei fondi universitari hanno modificato le gerarchie interne attenuando il potere dei baroni mentre si sono formate tante piccole sovranità. Il lavoro del docente universitario è sempre più simile a quello di un impiegato pubblico guidato da una morale privatistica e al soddisfacimento di obiettivi personali. La categoria è ormai dominata da figure scientificamente preparate che vivono il proprio impiego come un ritaglio specialistico, per citare uno sfogo di Piero Bevilacqua sul Manifesto, che ha come scopo produrre risultati da certificare presso agenzie di controllo. Tutto ciò ostacola una loro partecipazione alla vita politica e culturale della nostra società. Alcuni docenti descrivono queste attività burocratiche come bullshit per i quali bastano le competenze di un barracaselle e non indicano in alcun modo la qualità dell’insegnamento. Rifiutare di svolgere queste mansioni significa ridurre il finanziamento alla propria università e di conseguenza le disposizioni ANVUR premiano il conformismo perché non protestare e svolgere queste attività in maniera ligia fa aumentare la quota di finanziamento statale. Non tutto è perduto, dice Pezzulli, perché nelle università sopravvivono alcuni professori critici consapevoli che scienza e interessi possono convertire il vero in vantaggioso. Sono docenti formati prima delle Riforme, dentro un’università pensata come comunità con l’obbligo di valorizzare le vocazioni individuali nella vita sociale e privata. Sono insegnanti ostili all’ideologia del capitale umano ma nonostante ciò vengono valutati e incentivati con la metrica propria di quest’ultima che comporta un costante assedio di dispositivi capaci di influenzare l’esercizio delle attività didattiche e di ricerca. Questa figura è ben diversa dai cani sciolti dell’università riformata con il D.L. 382/1980 perché quest’ultimi, pur sacrificando la carriera in nome della libertà per via del rifiuto di partecipare ai giochi di potere dell’accademia, erano tollerati dentro l’università. I critici di oggi, invece, non possono tirarsi fuori dai giochi dell’università neoliberale e contribuiscono, attivamente o meno, alla sua riproduzione. Pezzulli, tuttavia, ritiene la loro esistenza fondamentale per qualsiasi processo di cambiamento nell’università perché portano con sé idee diverse di questa istituzione, assieme ad un modo alternativo di insegnare e fare ricerca. Si tratta di energie universitarie marginalizzate, precarizzate e in alcuni casi sorvegliate e criminalizzate. Faticano a creare un progetto di comunità universitaria alternativo ma restano gli ultimi docenti e ricercatori che difendono la natura pubblica, comune e cooperativa del sapere scientifico e del suo insegnamento e di conseguenza potrebbero essere fondamentali alleati per un futuro movimento studentesco. Il lavoro di Pezzulli termina proprio indagando la figura dello studente nell’università neoliberale. A differenziarlo dallo studente dell’università precedenti alle Riforme è la sua necessità di diventare imprenditore di sé stesso già durante la formazione e non dopo. Questa mutazione è in linea con l’analisi del neoliberismo di Foucault che previde la trasformazione del comportamento degli individui per renderli il più possibile simili alle imprese e alla loro logica strumentale. Per questo motivo si stabiliscono relazioni in modo utilitaristico, si compiono scambi vantaggiosi, si perseguono obiettivi adeguati ai mezzi che si possiedono, ci si autopromuove in continuazione… 

La logica del mercato è la stessa che regola la società e le istituzioni. Questa trasformazione diventa evidente quando si analizza lo slogan per le immatricolazioni del 2002 dell’università Sapienza di Roma: “Sapiens fabbrica di sapere” e “non tutti gli studenti sono Sapiens”. Essi segnano l’avvenuta creazione di un’università-fabbrica che incide sullo studente in tre modi. In primo luogo moltiplicando le discipline grazie al cosiddetto aggiornamento dell’offerta formativa che ha comportato lo spezzettamento dei Corsi annuali con la nascita di nuovi Corsi nelle 42 classi di laurea nate con le Riforme. Molti di questi corsi sono creati ad hoc per attirare studenti costruendo dei profili professionali a partire da esami una volta considerati facoltativi. Pezzulli riporta dei dati a sostegno di questa tesi. Nei primi 5 anni di applicazione della Riforma che ha istituito il 3+2 i corsi di laurea sono incrementati di 770 unità passando da 2444 a 3241 mentre gli insegnamenti sono arrivati a quota 181.000. Una seconda conseguenza di questi mutamenti è l’intensificazione dei ritmi di studio e apprendimento. Prima del 3+2 uno studente, per non andare fuori corso, doveva superare mediamente 5 esami in un anno solare. Il dato è raddoppiato con questa trasformazione dei corsi di laurea. Inoltre le Riforme hanno previsto per lo studente imprenditore di sé stesso altre attività che si aggiungono alle lezioni, come, per esempio, centinaia di ore di tirocinio in università o in imprese. Il percorso universitario diventa una corsa ad ostacoli lungo attività predefinite contraddistinte da fretta, sovraccarico, ansia, noia e ripetitività. Questa realtà spiega il titolo del libro. Pezzulli parla di università indigesta perché gli studenti affrontano percorsi ad alta velocità dove mangiano tantissime conoscenze e nozioni senza avere il tempo per digerirle, farle proprie e interiorizzarle. Il tempo di apprendimento nell’università neoliberale assomiglia al tempo di lavoro dentro la fabbrica come se fossero entrambi misurabili e standardizzabili. Questa modalità di organizzare lo studio, inoltre, limita le scelte autonome di studio, come la lettura di libri e documenti non richiesti per l’esame, e le attività riflessive legate all’interiorizzazione e alla socializzazione di quanto studiato. La terza e ultima conseguenza è l’estensione dei tempi di verifica e valutazione. Le conseguenze di tutto ciò sugli studenti sono l’aumento di ansia, attacchi di panico, senso di inadeguatezza e purtroppo anche suicidi. Un nuovo movimento studentesco dovrà essere in grado di mettere in discussione quella che Pezzulli chiama corruzione degli studenti, ovvero una forma specifica di produzione di soggettività in grado di realizzarsi in un dispositivo auto-educativo e di auto controllo che premia le scelte produttivistiche degli studenti, incluso lo spirito competitivo, e svaluta le condotte solidali proprie della comunità universitaria.

Una versione ristretta e leggermente modificata del presente articolo è disponibile su Dinamopress.

1 Reply to “Per una sintesi del problema dell’università neoliberale”

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