Tra risoluzioni del Parlamento Europeo che accostano i simboli del nazismo a quelli del comunismo ed esternazioni di esponenti dell’estrema destra mondiale che definiscono il nazismo una forma di socialismo, sentiamo il bisogno di scrivere qualcosa per fare, per l’ennesima volta, chiarezza sull’argomento. Iniziamo con il definire brevemente cos’è stato a livello economico il regime nazista. A tale scopo utilizziamo L’économie allemande sous le nazisme di Charles Bettelheim che analizza il funzionamento economico della Germania hitleriana interpretandolo come una manifestazione della crisi del capitalismo e non come un modello alternativo a esso. L’economista francese sviluppa una critica approfondita dell’idea secondo cui il nazismo avrebbe rappresentato una terza via tra capitalismo e socialismo, dimostrando invece come il regime abbia preservato e rafforzato le strutture economiche capitalistiche, accentuando il dominio dei monopoli industriali e finanziari. Il nazismo, senza sovvertire i rapporti di produzione, ha modificato il ruolo dello Stato per garantire la sopravvivenza e l’espansione del grande capitale in un contesto di crescente competizione imperialista. La situazione economica della Germania alla vigilia dell’ascesa del nazismo, caratterizzata da una grave crisi dovuta alla Grande Depressione e alle restrizioni imposte dal Trattato di Versailles, è contraddistinta dall’instabilità economica che provocò una disoccupazione di massa e una forte polarizzazione sociale, creando le condizioni per il rafforzamento di forze politiche autoritarie. Il nazionalsocialismo, pur presentandosi come un movimento rivoluzionario che avrebbe spezzato il dominio della finanza e delle élite tradizionali, in realtà ha stretto un’alleanza con le grandi industrie e i settori più conservatori della borghesia tedesca per i quali il movimento hitleriano rappresentò uno strumento per contenere il proletariato e contrastare la diffusione del comunismo. Lo Stato nazista in economia non aveva come scopo una socializzazione dei mezzi di produzione bensì una regolamentazione del mercato funzionale agli interessi dei grandi gruppi industriali. L’intervento statale aveva come obiettivo principale la preparazione della guerra attraverso una politica economica basata sulla pianificazione militare e sulla subordinazione del lavoro alle esigenze della produzione bellica. Le grandi imprese, come Krupp, IG Farben, Siemens, hanno tratto enormi benefici da questa politica, ottenendo finanziamenti pubblici, commesse statali e l’accesso a un’enorme quantità di manodopera a bassissimo costo, inclusi i lavoratori forzati e i prigionieri dei campi di concentramento. Per quanto riguarda le politiche occupazionali e salariali del nazismo, il regime ha ridotto drasticamente la disoccupazione attraverso il riarmo e le grandi opere pubbliche. Questo apparente successo si è basato su una compressione dei salari reali, sulla distruzione dei sindacati indipendenti e sulla limitazione dei diritti dei lavoratori. L’introduzione del Deutsche Arbeitsfront ha sostituito le organizzazioni sindacali con un’istituzione corporativa controllata dal partito nazista che imponeva la subordinazione totale della classe operaia agli obiettivi del regime. La libertà di contrattazione venne eliminata, i salari furono congelati e ogni forma di sciopero fu dichiarata illegale. Nel frattempo venivano rafforzate le misure repressive contro chiunque cercasse di opporsi a queste condizioni. L’aumento dell’occupazione, quindi, non si tradusse in un miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice perché si era di fronte ad un sistema di sfruttamento intensivo mascherato dalla propaganda di regime. L’intero sistema produttivo venne riorganizzato per garantire l’autosufficienza del Reich e la preparazione al conflitto attraverso un’espansione accelerata dell’industria bellica e una politica di autarchia che cercava di ridurre la dipendenza della Germania dalle importazioni. Tuttavia, questa strategia si rivelò insostenibile nel lungo periodo: la necessità di materie prime e nuove fonti di approvvigionamento spinse il regime a perseguire una politica di conquista, culminata nell’invasione dell’Europa orientale. Bettelheim interpreta la guerra non come una scelta accidentale o ideologica ma come una conseguenza strutturale della logica espansionistica del capitalismo tedesco che aveva bisogno di nuove risorse e mercati per mantenere la propria stabilità interna. Questo modello economico era destinato al collasso senza un’espansione territoriale e la rapina sistematica dei territori occupati, il saccheggio delle economie conquistate e l’uso del lavoro forzato furono dunque strumenti essenziali per sostenere il sistema produttivo del Reich. Possiamo concludere che il nazismo non fu un fenomeno autonomo dalla storia dello sviluppo del capitalismo in Europa ma dobbiamo evitare una sua interpretazione solamente economica. Per esempio nel saggio Labour and extermination: economic interest and the primacy of Weltanschauung in National Socialism l’autore Ulrich Herbert analizza il rapporto tra le politiche naziste del lavoro forzato e lo sterminio degli ebrei, dimostrando come la logica genocidaria abbia, a suo avviso, prevalso sulle esigenze economiche del regime. La tesi centrale dell’autore è che, nonostante l’enorme fabbisogno di manodopera della Germania in guerra, la priorità ideologica della distruzione della razza ebraica abbia determinato decisioni che spesso si rivelarono irrazionali dal punto di vista produttivo. Il Terzo Reich sfruttò il lavoro forzato in modo sistematico ma, quando si trattava degli ebrei, ogni possibile utilità economica venne subordinata alla necessità ideologica di annientarli, anche a costo di compromettere la stessa macchina bellica tedesca. Herbert mostra come, prima dell’avvio della Soluzione Finale, il regime avesse già attuato politiche di segregazione e sfruttamento del lavoro ebraico, specialmente nei territori occupati dell’Europa orientale. Nei ghetti della Polonia e nelle zone sotto amministrazione militare, gli ebrei furono costretti a lavorare per imprese tedesche e per l’amministrazione occupante, spesso in condizioni di schiavitù. Tuttavia, questo sfruttamento si rivelò instabile e contraddittorio perché all’interno della gerarchia nazista si scontravano due visioni: da un lato, alcuni funzionari locali e industriali avrebbero voluto preservare almeno temporaneamente la manodopera ebraica, soprattutto a fronte della crescente carenza di lavoratori; dall’altro, l’apparato ideologico delle SS e della leadership nazista spingeva per una progressiva eliminazione della popolazione ebraica, indipendentemente dalla loro utilità produttiva. Il passaggio dallo sfruttamento alla distruzione avvenne con l’intensificarsi della guerra e la decisione di avviare lo sterminio su larga scala. Herbert evidenzia come, già con l’invasione dell’Unione Sovietica nel 1941, l’eliminazione degli ebrei divenne una priorità assoluta. Le Einsatzgruppen cominciarono a sterminare intere comunità ebraiche senza alcuna considerazione per il loro potenziale contributo lavorativo. Questo fenomeno dimostra come, contrariamente a un’interpretazione puramente economica del nazismo, la logica ideologica fosse un motore centrale delle politiche di sterminio. Mentre altre categorie di lavoratori forzati, come i prigionieri di guerra sovietici o i lavoratori deportati dall’Europa occidentale, venivano sfruttate con metodi brutali ma comunque orientati alla massimizzazione della produttività, gli ebrei erano sistematicamente condannati all’annientamento, anche nei contesti in cui avrebbero potuto essere utili all’economia di guerra. Nei campi di sterminio come Auschwitz, Majdanek e Treblinka venivano selezionati per il lavoro solo quei prigionieri considerati temporaneamente idonei ma il loro destino era comunque segnato: le condizioni di vita, la denutrizione e la violenza sistematica garantivano che la maggior parte di loro non sopravvivesse a lungo. Anche nelle fasi più critiche della guerra, quando la Germania affrontava gravi carenze di manodopera, non ci fu alcun tentativo significativo di rivedere questa politica. Al contrario, la logica dello sterminio accelerò dimostrando come il nazismo non perseguisse una razionalità economica ma un progetto ideologico radicale che vedeva la distruzione degli ebrei come un fine in sé. Questa doverosa premessa ci porta finalmente al confronto con il comunismo che vogliamo iniziare utilizzando il libro Stalinism and Nazism: History and Memory Compared, curato da Henry Rousso e non facilmente tacciabile di marxismo. Questo lavoro si propone di analizzare criticamente il confronto tra stalinismo e nazismo, opponendosi all’idea di una loro equivalenza come sembra emergere dal dibattito generato dal famoso Libro nero del comunismo. Attraverso un’analisi storica e comparativa basata su fonti archivistiche e studi accademici gli autori dimostrano che, sebbene entrambi i sistemi abbiano praticato forme di repressione violenta e abbiano istituito regimi autoritari, le loro differenze strutturali, ideologiche e operative impediscono una loro assimilazione. Il nazismo era fondato su un’ideologia razziale che giustificava l’eliminazione fisica di interi gruppi umani, considerati intrinsecamente nemici del popolo tedesco. L’Olocausto e la politica di sterminio nazista non avevano lo scopo di trasformare la società ma di annientare categorie di persone giudicate irrimediabilmente inferiori o pericolose. Il comunismo sovietico, invece, si basava su una dottrina rivoluzionaria orientata alla trasformazione della società attraverso la lotta di classe e la dittatura del proletariato. La violenza stalinista, sebbene brutale, non era diretta contro gruppi definiti su base biologica ma su base sociale e politica: si trattava di una repressione almeno teoricamente reversibile e con la possibilità di riabilitazione per alcune delle vittime. Bisogna poi affrontare il modo in cui la memoria del nazismo e dello stalinismo è stata costruita nei paesi dell’Europa orientale. Dopo la caduta dell’URSS è stato promosso un discorso pubblico che tendeva a enfatizzare i crimini del comunismo e a minimizzare o relativizzare quelli del nazismo, spesso con intenti politici. In alcuni paesi, come la Polonia e la Romania, la narrazione ufficiale ha cercato di assimilare l’occupazione nazista e quella sovietica, equiparando le due esperienze e riducendo le specificità dello sterminio nazista. Questa interpretazione è contestata dagli autori del libro che evidenziando come la memoria storica sia stata usata per fini politici e per giustificare nuove alleanze geopolitiche e ideologiche. Infine, il testo critica il concetto stesso di totalitarismo quando viene usato per sostenere l’equivalenza tra i due regimi. Gli autori riconoscono che entrambi erano sistemi autoritari basati sul culto del leader, sul monopolio dell’informazione e sull’uso della violenza politica ma sostengono che queste somiglianze non bastano per considerarli identici. L’ideologia, le finalità e le modalità di repressione erano troppo diverse per giustificare un paragone diretto. L’equiparazione tra nazismo e comunismo, secondo Rousso, è quindi più un’operazione ideologica che un’analisi storica fondata. Tesi simili vengono avanzate dal marxista Domenico Losurdo nel libro Il peccato originale del Novecento. Uno dei punti centrali di questo lavoro è la critica alla teoria del totalitarismo, elaborata in particolare da Hannah Arendt e poi sviluppata in molteplici forme nella storiografia occidentale. Losurdo contesta l’idea che nazismo e comunismo possano essere assimilati in una categoria comune solo perché entrambi caratterizzati dalla presenza di un partito unico, dal ricorso alla repressione politica e dalla negazione del pluralismo liberale. Questa assimilazione ignora le profonde differenze ideologiche e pratiche tra i due sistemi. Il nazismo, lo abbiamo già detto, è un’ideologia fondata sulla selezione razziale e sull’annientamento fisico di intere categorie di persone mentre il comunismo si presenta come un progetto di trasformazione sociale ed emancipazione, per quanto possa aver prodotto pratiche repressive nel suo sviluppo storico. Losurdo insiste sul fatto che la violenza nazista è una violenza di tipo essenzialista. Essa si basa sulla convinzione che determinati gruppi umani siano biologicamente inferiori e debbano essere eliminati per preservare la purezza della razza. L’Olocausto, lo sterminio dei rom e la persecuzione degli slavi sono esempi di questa logica incapace di offrire la possibilità di redenzione per le vittime. Il comunismo sovietico, pur ricorrendo a misure estreme come le purghe staliniane e la repressione politica, non fonda la sua violenza su criteri razziali o biologici bensì su logiche politiche e di classe. La repressione colpisce individui o gruppi considerati nemici dello Stato socialista senza basarsi su una condanna definitiva e irreversibile. Infatti in molti casi le vittime delle epurazioni sono state riabilitate o reintegrate, una possibilità inesistente nel nazismo. Un elemento chiave della sua argomentazione è però il confronto tra nazismo e colonialismo. L’autore mostra come le pratiche messe in atto dal Terzo Reich non siano un’eccezione nella storia europea perché hanno un precedente diretto nelle politiche coloniali delle potenze occidentali. I campi di concentramento, l’eliminazione fisica di intere popolazioni, il lavoro forzato e le teorie della superiorità razziale erano già presenti nell’esperienza coloniale britannica, francese e belga. Inoltre furono applicate anche dagli Stati Uniti nei confronti delle popolazioni indigene e degli schiavi afroamericani. Hitler stesso vedeva l’espansione tedesca a est come un’operazione simile alla conquista del West da parte degli americani, i quali avevano sterminato i nativi per appropriarsi delle loro terre. Losurdo evidenzia come questa continuità tra colonialismo e nazismo venga sistematicamente rimossa nel discorso pubblico occidentale mentre insiste sull’accostamento tra nazismo e comunismo. Questa operazione ha una precisa funzione politica: mentre il nazismo viene presentato come un’anomalia, un male assoluto estraneo alla tradizione occidentale, il comunismo viene descritto come un prodotto diretto della modernità europea e quindi come un pericolo sempre presente. In questo modo la critica al comunismo diventa uno strumento per delegittimare qualsiasi progetto di trasformazione sociale capace di mettere in discussione il primato del capitalismo e delle democrazie liberali.
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