Potere economico e potere ecclesiastico nelle colonie

di Roberto Spanò

Introduzione

L’analisi e lo studio dell’esperienza coloniale europea mette in luce alcune implicazioni epistemiche e teoriche che possono risultare molto contrastanti con l’attuale prospettiva egemonica della conoscenza. Innanzitutto, la teoria della successione storica delle forme di lavoro e di controllo del lavoro sembra non essere molto adeguata per il caso americano, ma se vogliamo, più in generale, per tutto il mondo capitalistico moderno. Lo scambio, la schiavitù, la servitù e la produzione indipendente sono percepiti da noi europei come elementi di una progressione storica che precede la mercificazione della forza lavoro o del capitale, anzi sono considerati radicalmente incompatibili con quest’ultimo. Ma in America la schiavitù fu istituita e organizzata come una merce destinata a produrre merci per il mercato globale, articolata su una specifica razza, così come la servitù imposta ai nativi; nelle colonie americane varie forme di lavoro e controllo del lavoro operavano simultaneamente nello stesso spazio-tempo ed erano articolate intorno all’asse del capitale: esse configuravano un sistema nuovo, quello capitalista.

Il capitale, inteso come rapporto sociale basato sulla mercificazione della forza lavoro, probabilmente nacque intorno ai secoli XI-XII nelle zone meridionali della penisola iberica e italica, ma prima del suo sviluppo in America in nessun posto del mondo, per quanto ne sappiamo, esisteva un sistema strutturalmente articolato in tutte le varie forme di organizzazione e controllo della manodopera e del lavoro. Fu dall’America che il capitale finì per consolidarsi e conquistare il predominio mondiale1; in America era necessario distinguere e separare tutte le forme di lavoro e di controllo del lavoro, e soprattutto separarle dal capitale-salario, esclusivo appannaggio dei bianchi. Nel caso in questione, con popoli molto diversi tra loro, era necessario creare singole identità in modo da poterle meglio connettere a specifiche forme di lavoro. Questa nuova tecnologia di dominio, in cui razza e lavoro furono configurati socialmente in modo da apparire “naturalmente” associati, ha goduto per tanto tempo di uno straordinario, seppur terribile, successo.

Per quanto riguarda la teoria dei rapporti temporali, essa si poggia sui seguenti presupposti:

  • ogni forma è una totalità storica in sé stessa, una economia o un modo di produzione;
  • sull’idea che queste siano strutture di elementi omogenei che si relazionano in maniera continua e sistemica;
  • sul fatto che il processo di cambiamento prevede che una totalità abbandoni progressivamente, omogeneamente e completamente la scena storica, in una catena sequenziale;

Ma l’analisi delle vicende storiche ci permette di capire che il capitalismo mondiale è tutt’altro che una totalità omogenea e continua, come del resto tanti altri fenomeni storici. Anzi, l’eterogeneità delle esperienze, raccolte sotto un’unica struttura di potere, potrebbe portare ad ammettere il carattere storico-strutturale di quella eterogeneità; di conseguenza, il processo di cambiamento di questa totalità capitalistica non può essere una trasformazione omogenea e continua dell’intero sistema o di ciascuno degli elementi che lo compongono2. Urge ricordare poi, che la modernità, come epoca storica, si riferisce a una specifica esperienza che ha avuto inizio con l’America: qui vennero alla luce nuovi rapporti sociali e materiali, soggettivi e intersoggettivi, accanto all’emergere dello Stato moderno e della sua nuova struttura di potere mondiale, eurocentrica, capitalista e coloniale3.

Secondo il gesuita padre Nóbrega, inviato in Brasile nella seconda metà del Cinquecento e autore del Dialogo sulla conversione dei Gentili, la vita dei nativi nella giungla non era compatibile con l’insegnamento del Vangelo. Coadiuvato dal nuovo governatore Mem de Sá, arrivato in Brasile alla fine del 1557, elaborò nuove regole di controllo dei nativi, che egli stesso sintetizzerà in una lettera contenuta nel secondo volume dei Monumenta Brasiliae:

  1. “Evitare che gli indios mangino carne umana e che muovano guerra (ad altri gruppi di indios) senza il permesso del governatore”;
  2. “far sì che abbiano una sola moglie”;
  3. “farli vestire”;
  4. “allontanare gli stregoni”;
  5. “farli vivere nella giustizia tra di loro e nei confronti dei cristiani”;
  6. “farli vivere tranquillamente, senza farli spostare altrove, se non tra i cristiani, e stando vicino ai sacerdoti della Compagnia di Gesù per indottrinarli”4.

La “missione civilizzatrice” spagnola si reggeva sulla certezza della missione cristiana: Dio aveva fatto sì che gli spagnoli prima, e i portoghesi poi, trovassero quei popoli barbari per educarli, civilizzarli, abbattere l’idolatria, la sodomia, il cannibalismo e la stregoneria. Encomienda e corregimiento erano istituzioni cristiane che assicuravano il giusto progredire di una società cristiana, ma ciò non significa che la Chiesa coloniale fosse sempre perfettamente allineata alla Corona e ai fini imperiali, anzi. All’interno della Chiesa, i frati mendicanti regolari e il clero secolare costituivano due potenti gruppi opposti: il primo gruppo comprendeva i francescani, i domenicani, gli agostiniani e gesuiti, ai quali erano affidati poteri parrocchiali e sacramentali per il conseguimento degli obiettivi missionari; poi vi erano i chierici della gerarchia episcopale, tradizionali detentori di questi poteri, spesso in attrito con le “intrusioni” dei mendicanti regolari5. Tra tutti gli ordini presenti, per molto tempo il monopolio dell’impresa missionaria fu nelle mani dei francescani: i primi dodici apostoli missionari arrivarono in Messico nel 1524 e provenivano da un movimento di riforma e mendicante che in Spagna era guidato dal cardinale Francisco Jiménez de Cisneros. Fin da subito i primi frati giunti nelle colonie si impegnarono per fondare scuole, con l’obiettivo di inculcare, tramite l’alfabetizzazione, i valori ispanici e la dottrina cristiana. Ma attenzione, si trattava esclusivamente di istituti per la formazione cristiana di giovani nativi delle classi alte, che avrebbero poi occupato posizioni di rilievo nella loro società. Tra tutte ricordiamo la scuola fondata da Pedro de Gante a Tenochtitlan che servì da modello a molte altre successive, anche se il centro di eccellenza della formazione umanistica era il Colegio de Santa Cruz a Tlatelolco, dove giovani nativi selezionati studiavano anche il latino.

L’eliminazione di tutti gli elementi non cristiani in quelle terre fu molto veloce, con la distruzione di templi, la soppressione della classe sacerdotale azteca e dei sacrifici umani. Ma europei e nativi americani condividevano qualcosa: le grandi chiese e gli edifici “monastici”, le cerimonie pompose, le processioni e immagini dei santi, ma anche il rito del matrimonio, il battesimo, le penitenze, i digiuni e le offerte. Il vero dilemma del cristianesimo nelle colonie fu il fatto che i nativi convertiti non smisero mai di portarsi dietro un bagaglio di credenze residuali e antitetiche; gli standard di comportamento cristiani, comunicati tramite l’insegnamento o con la costrizione, non riuscirono a rendere comprensibili i concetti europei di virtù e peccato; la comunità dei santi non fu accolta come intermediario tra Dio e l’uomo, ma come una sorta di pantheon di divinità antropomorfe. Il Dio cristiano fu ammesso, ma non come esclusivo e onnipotente6.

Interessante notare come le dispute ecclesiastiche abbiano coinvolto maggiormente le comunità di nativi molto di più rispetto alle dispute tra encomenderos, e sappiamo che gli encomenderos sfruttavano strategicamente le varie rivalità tra i vari gruppi di nativi. Per esempio, a Tenochtitlan nel 1569 il viceré invio alcuni membri del clero secolare dove avevano officiato messa da poco i francescani: l’intera congregazione di nativi si sollevò contro di loro:i membri del clero secolare e un giudice inviato dal viceré vennero lapidati e il potere dei francescani venne immediatamente ripristinato7. Nel 1530 la Chiesa di Texcoco giustiziò un nativo per idolatria e un altro venne torturato con acqua e garrota; un altro nativo venne condannato alla prigionia per essere bigamo, altri accusati di concubinaggio vennero mandati in esilio e al lavoro in monasteri. Nel XVI secolo i francescani, in alcuni insediamenti, si occupavano anche della giustizia civile e penale degli indiani, i quali spesso venivano radunati e frustati. Ma ben presto qualcuno iniziò a pensare che i frati si stessero intromettendo nelle prerogative reali. Le prigioni ecclesiastiche erano state abolite su ordine imperiale proprio nel XVI secolo, ma molte saranno attive ancora fino al XVIII secolo, periodo in cui ancora i nativi venivano periodicamente radunati, contati e ricevevano delle conferme di presenza. Fino al XVIII secolo i tribunali ecclesiastici continuarono a celebrare gli auto da fé, soprattutto contro casi di stregoneria e bigamia di nativi.

Nel 1780 il curato di Cuauhtitlan si vantò di non aver mai ordinato, in trent’anni di lavoro, di “fare picchiare un solo indiano”; nello stesso anno il curato di Ixtapalapa richiese la fustigazione pubblica di un indiano che non era riuscito a presentare il suo “papel” (documento di presenza). I testimoni della comunità locale dichiararono che il curato passasse la maggior parte della settimana a Città del Messico, si presentava a Ixtapalapa solo il sabato sera e andava via dopo la messa della domenica. L’accusato si difese affermando di aver partecipato alla messa in un’altra città, poiché quella domenica il curato non si era presentato prima di mezzogiorno. Alla fine fu il vescovo a intervenire contro il curato, sia per la residenza lontano dalla sua “missione” che per l’ordine di fustigazione dell’accusato. Questa vicenda, simile a molte altre presenti nelle carte coloniali, rivela qualcosa su un clero ormai disinteressato alla sua missione ma neanche più troppo libero di infliggere qualsiasi punizione corporale, almeno non come nei primi cinquant’anni della conquista. Ma attenzione, le vicende storiche sono sempre più complesse di quello che si crede: nel 1569 i francescani avevano iniziato a credere che i nativi volessero essere disciplinati, poiché vi erano prove, secondo loro, che nel periodo iniziale della colonizzazione avessero adottato atteggiamenti di rispetto e paura, gli stessi che provavano nei confronti di caciques ed encomenderos. I chierici strinsero ovunque alleanze con i caciques e si affidarono spesso alle autorità esistente dei leader indiani, mentre si opponevano maggiormente al potere degli encomenderos.

Organizzazione del lavoro e prelievo fiscale.

Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, sappiamo che nelle comunità di nativi l’amministrazione di qualsiasi opera era sotto il controllo del cacique, motivo per cui coinvolgere i caciques significava coinvolgere la manodopera che avevano a disposizione, per la realizzazione di chiese e di qualsiasi altra opera coloniale di pubblico interesse. Ma con il lento declino del potere dei caciques e con la diminuizione della popolazione locale, gli spagnoli dovettero creare una sorta di circoscrizione obbligatoria per avere una manodopera assicurata. L’ultima grande “donazione” di lavoratori da parte di un cacique fu di 3.000 lavoratori in tre mesi, da parte del cacique di Tacuba, donati a una chiesa gesuita della città nel 15708. Tutti i nativi erano soggetti a questa leva obbligatoria, ma nelle comunità lontane da Città del Messico la costruzione di chiese era indipendente da fondi reali e poteva procedere nei momenti in cui i lavori nelle cabeceras de doctrina si fermavano. Qui, lontano dalla capitale, vennero realizzate chiese molto piccole in cui si rifletteva un senso di identità comunitaria, soprattutto dopo lo sviluppo dei sistemi di lavoro forzato degli spagnoli. Queste chiese erano definite iglesia de visita, ed erano “adattate” alla concezione nativa del lavoro: era un’impresa diretta da soli nativi, non comportava sforzi o tempo eccessivi, dipendeva dalla fornitura di materiali e manodopera nativa e contribuiva all’onore di una comunità e al suo santo locale. Il più completo resoconto di una costruzione di una iglesia de visita si ritrova nei documenti di San Juan Ixhuatepec, una località a nord di Guadalupe. Qui, nel 1539 gli indiani si riunirono volontariamente per pianificare la costruzione di un nuovo edificio e decisero che il patrono doveva essere San Juan Bautista. Si trattava di una piccola costruzione coperta di paglia e il curato esortò tutti a frequentarla9.

Come funzionari della corona sotto il patronato monarchico, i membri del clero ricevevano il proprio stipendio dal tesoro reale o da fondi che altrimenti sarebbero stati versati a questo. Nelle città-encomienda erano forniti dall’encomendero, nelle città della corona dai fondi reali; l’encomendero era inoltre responsabile delle forniture di olio e vino e talvolta, anche per sostenere economicamente parte della costruzione della chiesa. Ben presto la situazione venne regolarizzata sotto il controllo reale: nel XVI secolo la corona stabilì che l’encomendero dovesse versare cento pesos e cinquanta fanegas di mais (o il corrispondente in denaro) annualmente ad ogni chierico. Ora, poiché i nativi pagavano i tributi agli encomenderos, che a loro volta sostenevano il clero, tutto si riversò fin da subito sui popoli nativi. Ma con il progressivo diminuire della popolazione locale diminuirono anche gli importi dei tributi. Nel XVII secolo il tributo indiano da versare a Cuitlahuac scese al punto che i cento pesos e cinquanta fanegas di mais ricevuti dal frate superarono la quantità rimasta per l’encomendero; a Hueypoxtla all’inizio del XVII secolo l’encomendero riferì di aver dovuto operare in deficit, poiché le entrate di tributi indiani non erano sufficienti a sostenere il clero.

Dagli anni ‘30 agli anni ‘50 del Cinquecento il problema principale riguardò la responsabilità della decima, o diezmo, una tassa del dieci percento sul reddito o sull’aumento delle merci, che avrebbe sostenuto il clero, i costi di costruzione delle chiese e altre spese. Molto si discusse sulla sua legittimità, correttezza e giustizia; in generale il clero regolare si opponeva, mentre quello secolare la sosteneva. I regolamenti degli anni ‘60 del Cinquecento aumentarono maggiormente i tributi che i nativi dovevano versare e accantonarono una parte dei fondi della comunità come residui di tributo nelle tesorerie locali, da cui dovevano essere sostenute le spese della comunità e della chiesa locale, sebbene non gli stipendi del clero10. Un consiglio ecclesiastico del 1555 aveva stabilito che il clero non doveva far pagare tasse per l’esecuzione di sacramenti e che tutti i pagamenti dovevano essere “volontari”; le istruzioni del clero di circa 15 anni dopo proibivano tasse per confessione e battesimo ma consentivano una tariffa per la sepoltura e il matrimonio, e molti curati, ormai da molto tempo, facevano pagare molto di più degli importi ufficiali. Intorno al XVII e XVIII secolo ebbe inizio una sistematizzazione più precisa dei tariffari, con le pubblicazioni di prezzi fissi o massimi da addebitare. La novità è che ormai la terminologia ufficiale abbandona ogni traccia di volontarietà del donatore per parlare di obvenciones o derechos parroquiales; ma le usanze locali e i tariffari non erano uguali per tutto il territorio posto sotto il governo della Corona; per esempio, le tariffe per la sepoltura variano in base allo status sociale del defunto, con costi che vanno, in media, dai tre ai dodici reales11.

La chiesa del tardo periodo coloniale era ormai un’organizzazione complessa e molto ricca, che riceveva un’infinità di fondi e sostegno in vari modi. Di questo periodo è tipica la cofradía o associazione di parrocchiani. Questa rappresenta una sorta di risposta indiana al cristianesimo, benché non fu un prodotto della prima attività missionaria. Verso la fine del secolo XVII nella valle del Messico ne esistevano a centinaia e non vi era una relazione necessaria tra il numero di abitanti di una località e il numero di associazioni. Queste associazioni assicuravano ai loro membri una sicurezza spirituale e un senso di identità collettiva, evidentemente carente nella vita nativa del secolo XVII. Era un’istituzione duratura che sopravviveva ai suoi membri e questo potrebbe aver instillato un senso di comunità in una popolazione ormai fortemente ridotta di numero e sottoposta a difficoltà di vario genere. Queste cofradías erano di varie dimensioni e grande complessità. La cofradía di Veracruz a Xochimilco, nel secolo XVII, si limitava a sostenere una messa cantata al mese al costo di tre pesos: i visitatori ecclesiastici, che di tanto in tanto controllavano i registri, criticarono l’uso della lingua nahuatl e l’elencazione confusa di entrate e uscite. Per lunghi periodi non furono registrate le eccedenze, ma solo l’entrata regolare di tre pesos mensili per la messa. I registri della Cofradía de la Santísimo Cristo de Burgos a Culhuacan, negli anni ‘70 del Settecento, mostrano un’organizzazione più complessa: i membri versavano due reales per l’ammissione, un reale al mese, sei reales per la festa dell’Ascensione, un reale a novembre per il giorno dei morti. La voce di spesa più grande era per il pagamento di circa quarantacinque messe all’anno. Papa Innocenzo XI (1676-1689) decise di concedere l’indulgenza plenaria il giorno dell’ingresso nella cofradía e poi il giorno della morte, i membri erano dunque esentati dall’espiazione in purgatorio12.

Nel XVIII secolo a Huitzilopochco il reddito di terreni particolari era destinato direttamente alla chiesa: un’area di trenta acri serviva per la “fiesta titular”, un altro appezzamento più piccolo, di quattro o cinque acri, era destinato alle “fiestas minori” durante l’anno; infine, altri sette segmenti di terra, di circa venticinque acri, sostenevano messe per vari santi per tutto l’anno nei giorni appropriati. Sempre per volontà dei nativi, venne organizzata tutta la rete di adorazione dei santi locali: per la valle del Messico si potrebbe scrivere un lungo catalogo di santi patroni locali a cui sono collegati miracoli, come anche forte culto di reliquie di questi santi, che sono spesso i primi missionari. Il caso più noto è quello di Guadalupoe a Tepeyacac, dove già sorgeva un santuario prima della conquista. La data della prima apparizione, tutt’ora frutto di controversie, è il 1531, e già nel 1550 era nato un cerimoniale indiano che circondava i poteri miracolosi e le guarigioni della Vergine13.

Il Brasile: purgatorio e paradiso dei bianchi.

Spostiamo ora l’attenzione sul Brasile, dove si trovano similitudini ma anche enormi differenze. Qui il processo di assimilazione dei nativi fu lento, poiché, a detta dei missionari, serviva loro del tempo «“a uscire dall’infanzia della civiltà, in cui si trovavano, e di essere educati cristianamente (la speranza era nei bambini), imparando la vita politica dell’Occidente, con i loro sorveglianti indiani a punire le piccole infrazioni”». I nativi iniziarono lentamente ad apprendere nuovi mestieri, a costruire nuove case alla maniera dei portoghesi, ai quali pian piano si unirono nelle processioni e nelle altre ricorrenze religiose. Iniziarono poi a fraternizzare insieme nelle feste e nei banchetti, a volte offerti da loro stessi14.

Il processo di colonizzazione di questo vastissimo territorio ebbe inizio ufficialmente nel 1532; inizialmente mancò un piano organico, risultò insufficiente l’azione dei donatari delle capitanie prima e dei governatori generali dopo; inoltre l’iniziativa dei privati era sempre disordinata, arbitraria, poco costruttiva e con pochissimo riguardo nei confronti dei nativi. Nella maggior parte dei casi i coloni agivano come “uomini nuovi” in terra di nessuno, mossi dal desiderio di costruirsi una nuova vita lontano dall’Europa15. I portoghesi costruirono in Brasile una società che si basava principalmente sull’agricoltura, sulla stabilità della famiglia patriarcale e sulla manodopera assicurata dalla schiavitù. Una società dal carattere fortemente ibrido: agraria, schiavista ma non sorretta da una coscienza razziale, che qui fece posto a un esclusivismo religioso. In Brasile il potere fu nelle mani di potenti famiglie aristocratiche, per la maggior parte proprietarie di zuccherifici, che non sempre obbedivano ciecamente alle direttive di Lisbona e della Chiesa, anzi erano solite adirarsi contro ogni forma di abuso del potere centrale16. Le grandi piantagioni non furono organizzate dallo Stato, ma su iniziativa dei privati; soprattutto grazie al lavoro di Martin Alfonso nel sud del paese e Duarte Coelho a nord arrivarono i primi coloni che misero radici, con mogli, figli, bestiame, piante alimentari, strumenti agricoli, ma anche con gli schiavi africani, utilizzati inizialmente per le operazioni di disboscamento e bonifica, per le quali i nativi, giudicati “molli” e incostanti”, risultarono inadeguati. I portoghesi furono i primi europei a stabilirsi realmente in una colonia, dopo aver venduto ciò che avevano nel paese d’origine per trasferirsi con tutta la famiglia. Questo predominio della famiglia fu eguagliato solo dalla presenza dei membri della Compagnia di Gesù, interessati, più che ad assecondare gli interessi dei proprietari terrieri, a fondare una repubblica di «“indios addomesticati per Gesù”», che obbedissero solo al Signore e lavorassero nei loro orti e giardini17.

Il piano di civilizzazione non fu così perfetto e preciso: a un certo punto i nativi divennero irrequieti, cercarono di smantellare il villaggio di São Paulo de Piratininga, persistevano le guerre intertribali e si continuava a uccidere prigionieri nei campi e a darli da mangiare ai loro parenti. Era chiaro, agli occhi dei gesuiti, che per loro non era ancora giunto il momento di essere incorporati nella civiltà e nello Stato brasiliano. Ci fu un evento risolutore: la partenza di Nóbrega da Bahia verso sud, insieme a Mem de Sá nel gennaio 1560, avrebbe dato inizio a una nuova opera in cui l’unità della fede sarebbe servita come base per l’unità politica: è proprio ora che l’unificazione politica del Brasile prese slancio. Mem de Sá si impadronì di Fort Coligny (di proprietà dei calvinisti francesi) e il villaggio venne ribattezzato in Sant’André in Piratininga; con questo, insieme al villaggio di São Paulo fortificato, la Capitania di São Vincente cessò di vivere “alla mercè degli indios”. Una volta rinforzata la retroguardia l’interesse dei portoghesi si rivolse verso le regioni di Guanabara e Iperoig: «“con lo sforzo congiunto di tutte le forze costruttive, in un chiaro senso di unità, sicurezza e lungimiranza, si stavano organizzando i bastioni del Brasile”»18.

Nel 1556 il re del Portogallo ordinò a una giunta di esaminare la maniera in cui venivano effettuati, in Brasile, i riscatti degli schiavi; il nodo della discussione era la categoria del riscatto di schiavi per “estrema necessità” e il re ordinò a Mem de Sá di invitare alla riunione il vescovo Pedro Leitão, i due Ouvidores (Brás Fragoso e Fernão da Silvia) e tre padri della Compagnia: il Visitatore Inácio de Azevedo, il provinciale Luís da Grã e Manuel da Nóbrega, anche se quest’ultimo non potè partecipare. Un contributo importante venne dato dal teologo Quirício Caxa, Maestro dei Casi di Coscienza del Collegio di Bahia, che ampliò il campo dei riscatti dando a “estremo” il significato di “grande” e ritenendo che la necessità fosse “grande” abbastanza da giustificare la vendita e l’acquisto degli schiavi. Nóbrega disse che nessun significato, nemmeno quello di “grande”, in nessun testo giuridico emesso dal Tavolo della Coscienza di Lisbona, doveva o poteva essere interpretato come qualcosa di diverso da “estremo”: solo quando la condizione di “estrema necessità” fosse stata soddisfatta, la vendita o l’acquisto sarebbero stati legittimi secondo la legge. Con questo, secondo lui, si limitava la portata della schiavitù. Nell’esposizione della sua dottrina padre Nóbrega citò il testo di San Gregorio per il quale «“contra naturam est homines hominibus dominari”», che porterebbe quindi all’abolizione della schiavitù. Gli sforzi del gesuita portoghese non poterono però andare oltre l’esame dei titoli con cui la schiavitù veniva praticata, tra tutti i casi che esaminò solo uno soddisfaceva le condizioni di “estrema necessità” richieste dalla legge. Così Nóbrega trasse diverse conclusioni che si possono riassumere in questa maniera:

– in tutti i casi, tranne uno, c’è stata un’ingerenza con l’inganno «“per imprigionare e catturare i poveri indiani”»;

– sono in errore i confessori che assolvono i padroni che tengono questi indiani come schiavi, perché la libertà è un diritto naturale e divino, contro il quale le ragioni umane non possono prevalere19.

Nell’epoca in cui ebbe inizio la conquista dell’America l’Europa viveva un periodo di forti ambiguità: da un lato vi era una ripresa della crescita economica, il prosperoso commercio transoceanico, ma dall’altra parte vi erano i manuali degli inquisitori, la caccia alle streghe, i roghi e l’istituzionalizzazione finale della tortura. Il Brasile occuperà una posizione particolare nell’immaginario europeo, soprattutto per le diversità che preoccupavano profondamente gli europei. Prima di tutto quelle umane: i nativi con il cannibalismo e la loro spossatezza, gli schiavi neri dall’Africa, la stregoneria e il desiderio di autonomia dei coloni preoccupavano le autorità molto di più delle nuvole di insetti, dei serpenti giganti e del caldo immenso20.

Secondo padre Simão da Vasconcellos, l’attenzione divina si rivolse prima all’Europa e all’Asia: lì Dio ha collocato l’uomo, il paradiso terrestre, i patriarchi; l’altra parte del mondo è stata lasciata senza paradiso, senza patriarchi e senza la presenza divina per 6691 anni (l’età della terra secondo un calcolo di allora). Alla fine Dio incaricò i portoghesi di diffondere la fede nelle nuove terre21: era dunque diffusa l’idea che la scoperta del Brasile fosse opera di Dio, ed ebbero l’impressione di essere arrivati in Brasile in un momento in cui la presenza di Satana tra gli uomini si stava particolarmente accentuando; tutto era confermato dalla presenza di animali ed esseri diabolici, cannibali e stregoni22.

Nel contesto della società coloniale la magia è quasi sempre qualcosa di individuale, per alcuni coloni era il modo in cui ci si poteva adattare all’ambiente circostante; a volte rifletteva le tensioni della vita quotidiana o poteva servire a ottenere qualcosa da un amante, a causare la morte di un rivale, ad allontanare gli invidiosi. Nel secolo XVI le pratiche magiche nella colonia mostrano contaminazioni europee e indigene e col passare del tempo si sono aggiunti anche tratti di riti africani; col tempo queste pratiche assumeranno delle forme specificatamente coloniali23. Tutto il processo di colonizzazione si è svolto all’insegna di un discorso ideologico che ha rielaborato e riutilizzato le immagini di inferno, purgatorio e paradiso; la maggior parte dei racconti dei coloni sono storie di uomini che nel confronto con gli indiani fanno largo uso di queste immagini. Non mancano alcune particolari metafore, come quella del colono Antonil, un gesuita, secondo cui la colonia è un purgatorio dal quale si esce purificati proprio come lo zucchero viene raffinato e reso bianco dal lavoro umano. La colonia assume per la metropoli il ruolo di epuratore dei mali sociali: era un luogo pieno di delinquenti, dove si sviluppava una moderna schiavitù, su cui si basò lo sfruttamento coloniale; le classi dominanti hanno sfruttato la visione paradisiaca, comune a molte culture, rendendola un elemento costitutivo dell’ideologia colonizzatrice. La nascita della schiavitù moderna è direttamente collegata a questo discorso, dal momento che è andata di pari passo con l’esplorazione della terra americana, inferno e paradiso allo stesso tempo. Così gli europei potevano sfruttare al limite il lavoro dei neri ridotti a esseri dannati: il bianco viveva un purgatorio dove godeva di ricchezze che non aveva creato e la sua pena è il vivere in una terra di neri e di pagani. Così, nelle parole di Antonil, il purgatorio è costituito dal continuo fare i conti con le contraddizioni terribili della vita nella colonia24.

In questo contesto le Visite dell’Inquisizione sono state anche momenti terribili in cui si sono messe a nudo le crepe tra il mondo della Riforma cattolica e quello della religiosità popolare: come poteva la religione della Riforma, formale e rigorosa, tacere davanti agli imprevedibili e caotici riti indigeni e africani delle colonie? Come entravano in conflitto la rigidità dell’Inquisizione e le forme di religiosità coloniale? Le credenze popolari sono qui ricollegate a una maggiore familiarità con la sfera divina, da un’accentuata naturalezza col mondo del sesso, dell’identificazione del sesso col diavolo. Se un colono avesse fustigato un crocifisso in quanto ebreo o se un altro avesse dubitato del purgatorio poiché calvinista, qui interessa capire gli atteggiamenti di queste persone alla luce di una religiosità specifica, sfaccettata e sincretica25.

Il dispositivo della denuncia.

L’analisi della documentazione coloniale restituisce dati molto interessanti su professione, origine, sesso, stato civile ed etnia delle persone denunciate, ma anche elementi utili per capire qualcosa di più sul meccanismo della denuncia. Tra i denuncianti il 20% è costituito da lavoratori liberi e artigiani, il 16% da agricoltori e mercanti, il restante è da dividere tra chierici, funzionari dello Stato, soldati, servitori, lavoratori a contratto e vagabondi. Per quanto riguarda invece i denunciati troviamo i lavoratori a contratto e i vagabondi al 17%, lavoratori liberi e artigiani al 14,51%, a parità con gli schiavi. Raccogliendo i numeri si nota come la maggior parte dei denuncianti era legata alla proprietà, alle grandi imprese, al potere civile, militare ed ecclesiastico: è chiaro che gli appartenenti agli strati più bassi della società denunciavano molto poco, ma erano, in confronto, i più giudicati come trasgressori morali. Da una parte si potrebbe pensare che ci fosse una maggiore accettazione delle norme morali tra “uomini buoni” e la predominanza di atteggiamenti “devianti” tra poveri e schiavi, dall’altra si potrebbe pensare a una certa “solidarietà di classe” nel gioco della denuncia, cioè il ricorso al Sant’Uffizio da parte dei membri privilegiati della società, come ulteriore strumento di coercizione sociale. Questa teoria potrebbe essere confutata, dal momento che i “bravi uomini” della colonia non avevano così tanto bisogno di strumenti pubblici per reprimere colpe individuali dei loro subordinati26. Allo stesso tempo però, l’attivazione del processo di denuncia stimolava la rete di privilegi e oppressioni che permeava il tessuto sociale: gli individui ricchi, anche proprietari di una piccola bottega, o con qualche posizione negli affari di governo, si sentivano in diritto e in dovere di rispondere alla chiamata dell’Inquisitore. D’altra parte, non è da escludere l’ipotesi che tra vagabondi, servi e schiavi, c’era forse indifferenza o addirittura ignoranza su cosa significasse una visita del Sant’Uffizio.

Rimettendo mano ai dati dei denuncianti vediamo che il 72% era costituito da bianchi, il 4% da mulatti e il 2% da neri; il 62% proveniva dal Portogallo, il 22% era brasiliano, il 12% proveniva da altre colonie portoghesi e il restante da altri paesi. Per quanto riguarda lo stato civile invece, il 60% erano uomini sposati, il 26% era celibe, l’8% era vedovo e del 6% non abbiamo informazioni. Nel totale, il 68% dei denuncianti erano uomini e il restante 32% donne27.

Nella maggior parte dei casi il denunciante accusava di una qualche trasgressione perché ne era stato testimone o semplicemente perché aveva sentito dire che qualcuno aveva compiuto peccato o eresia. Una certa Uana de Fonseca, moglie di un detenuto, denunciò un uomo, di cui non conosceva il nome, per aver sentito dire che era solito avvicinare un crocifisso all’organo genitale della moglie al momento dell’atto sessuale; Catarina Vasquez, una commessa, denunciò il marinaio João Ribeiro per aver sentito dire che era stato visto peccare con un mozzo; Guimanesa Tavares, una commerciante, denunciò numerose persone che non conosceva, tra cui «“il marito della vicina della sua vicina”» per aver sentito dire che quando litigava con la moglie lei era solito chiamarlo «“somitigo”». Ma se alcune denunce rivelano le convinzioni morali degli informatori, molte altre erano pure vendette personali e non era raro che venissero accusati debitori insolventi o truffaldini.

Paulo Alfonso, proprietario di un mulino, denunciò le «“azioni nefaste”» di Pero Garcia, anch’egli signore di un mulino, ammettendo però che l’accusato non aveva pagato quanto dovuto; Francisco Fernandez, calzolaio, denunciò il suo amico Francisco Luís per aver difeso la fornicazione semplice, perché aveva scommesso un pollo contro l’opinione dell’accusato, secondo cui «“negoziare con una donna per strada per andare a letto con lei era peccato mortale”» : il motivo della denuncia era il non aver ricevuto il pollo dopo aver risolto il dubbio morale a suo favore. In generale, gli uomini e le donne delle colonie, nella loro vita quotidiana, sembravano essere molto attaccati ai principi morali cattolici, anche se davanti al Visitatore cambiarono atteggiamento e si attennero esclusivamente ai principi del Monitorio. Videro l’Inquisitore talvolta come un giudice che poteva riparare alle offese passate, ma lo percepirono anche e soprattutto come uno spietato giustiziere, pronto a punirli con il sequestro dei loro beni o con la morte; se c’era un tratto comune a tutti gli informatori questo era sicuramente la paura, capace di renderli improvvisamente guardiani della morale cristiana. A quanto pare i Visitatori di Bahia furono molto più indulgenti con i peccatori denunciati: Heitor Furtado de Mendonça, Visitatore nel 1591, fu autorizzato a giudicare in ultima istanza i casi di bigamia e di colpe minori; Marcos Teixeira, Visitatore del 1618, ricevette ordini simili. In generale, dovevano fungere da istruttori per i casi più gravi, che venivano poi giudicati a Lisbona. Potremmo dire che l’Inquisizione non lavorava di per sé con la pena, ma con la paura conseguente alla minaccia della pena. In diversi processi, la qualità degli imputati, ossia il loro status sociale, ha contribuito a evitare le penitenze pubbliche, che, nella maggior parte dei casi, si traduceva nel dover stare in piedi, col capo scoperto e con una candela accesa in mano. Le sentenze più miti venivano spesso lette in privato, perché la qualità degli imputati era tale da sottrarli alla pubblica umiliazione; nella maggior parte dei casi si trattava dei principali uomini di spicco delle località attraverso cui si spostava l’Inquisizione durante le visite. Pero Cardigo, signore di un mulino di Pernambuco e uomo di governo, fu denunciato da un solo testimone per blasfemia, che egli avrebbe poi confessato solo in seguito all’apertura del processo nei suoi confronti. L’imputato ha raccontato agli inquisitori che tutto è iniziato a causa di «“divergenze”» col genero riguardo la sella di un cavallo. Così preso dalla collera affermò di non credere in Dio. L’uomo chiese misericordia in ginocchio, a detta dell’Inquisitore mostrò molti segni di pentimento; alla fine venne condannato al pagamento di cento cruzados28.

Nel caso specifico del Brasile, la storiografia ha confermato che la percentuale di donne denunciate è nettamente superiore a quella degli uomini, in quanto molte di queste avevano fama di eseguire pratiche “divinatorie”. Lo sguardo rivolto a queste “maghe” dell’epoca era filtrato da una serie di rappresentazioni che erano strutturali al sostegno di determinate norme di comportamento, le quali tracciavano il confine tra ciò che era, o non era, considerato deviante. Il rapporto dialettico tra le varie rappresentazioni, nel contesto coloniale, permette di analizzare la presenza femminile nella società coloniale, nel momento in cui alcune donne avessero tenuto a bada i propri istinti e tutti quei comportamenti che potevano renderle una minaccia per la società29.

Così, i discorsi europei, volti a conformare i comportamenti femminili, penetreranno anche nella società coloniale: erano discorsi che avevano degli obiettivi specifici, veicolati tramite le messe domenicali, le regole delle confraternite, i racconti popolari, le confessioni; il tutto in linea con le direttive di Trento. Tutti i discorsi qui trattati permettono di vedere la colonia come un’estensione della metropoli, ma allo stesso tempo come la sua negazione: è in questo spazio di ambiguità e contraddizione che l’espressione di potere delle autorità coloniali fu anche un fattore di forte tensione. Non c’erano effettivi limiti all’esercizio del potere, le autorità intervenivano in qualsiasi modo ritenessero opportuno. In quest’ottica l’onore di una donna era qualcosa che, per estensione, riguardava anche gli uomini, la Chiesa, lo Stato, era dunque un bene pubblico30.

L’apostolato cattolico, detentore di un forte potere monopolistico religioso e ideologico, nell’organizzazione dell’America portoghese, contribuì a preservare la sottomissione femminile. Dalla storiografia brasiliana si apprende poi che vennero istituiti sempre più istituti di reclusione femminile, legati a ordini religiosi o laici, col preciso scopo di preservare l’onore,e tenere sotto controllo la sessualità, femminile. In ottica coloniale questi istituti rispondevano anche ad altre esigenze: per esempio, un padre poteva decidere di inviare la figlia da un piccolo insediamento in una metropoli, ma ciò risultava molto costoso e questi istituti divennero sempre più centri di socializzazione delle ragazze, mentre venivano preparate al matrimonio con un’adeguata educazione domestica31.

Le pratiche di cui erano accusate le donne erano di vario tipo, grazie alle carte della Prima Visita possiamo ricostruire un quadro più generale della situazione. In percentuale i riti di magia, praticati da donne, sono così ripartiti:

– riti magici di invocazione dei diavoli: 16,52%;

– riti magici amorosi: 6,19%;

– riti di divinazione: 5,16%;

– riti di incantamento 2,7%;

– riti di invocazione degli spiriti: 2,6%.

Le percentuali degli uomini accusati sono invece più basse e nettamente differenti:

– riti magici di invocazione dei diavoli: 3,37%;

– riti di divinazione: 2,25%;

– riti di incantamento: 1,12%;

– riti magici di cura: 1,13%;

– riti di protezione: 1,13%32.

Quali sono i motivi di una così massiccia presenza femminile nelle denunce, soprattutto in riti che prevedono l’invocazione di diavoli? La partecipazione di queste donne come «“agenti attivi”» è sicuramente ricollegata a motivi diversi: nel contesto coloniale è importante la relazione tra la maggiore varietà di pratiche magico-religiose legate a un certo individuo e la maggior possibilità che esista una gamma di conoscenze della presunta “maga”: in una società in cui la magia era intesa come importante strumento capace di conferire una relativa tranquillità in chi la praticava, i «“riti magici”» sono come dotati di “plasticità e sincretismo, adattandosi facilmente alle esigenze e alle aspirazioni di diversi gruppi sociali”33.

Come collegare genere femminile, potere patriarcale e magia? Gli uomini esercitano violenza fisica e simbolica contro le donne, la partecipazione diretta o indiretta a pratiche magico-religiose è una forma di resistenza a questa misoginia. Tutto ciò porta alla tessitura di una rete di interesse femminile ma anche a una relativizzazione del dominio. Ma prima o poi la donna viene denunciata: in quel momento c’è il termine del riconoscimento ottenuto, il consolidamento dell’eresia nel patto demoniaco e la denuncia di donne contro altre donne34.

  1. Aníbal Quijano, Colonialità del potere ed eurocentrismo in America Latina, pp. 77,78. ↩︎
  2. Ivi, pp. 79-80. ↩︎
  3. Ivi, p. 81. ↩︎
  4. Cfr. Monumenta Brasiliae, Vol. II (1553-1558), in Monumenta Missionum Societatis Iesu, Vol. XI, por Serafim Leite S.I., Roma, M.H.S.I, 1975, pp. 54-55. ↩︎
  5. Cfr. Charles Gibson, The Aztecs Under Spanish Rules. A History of Indians of The Valley of Mexico, 1519-1810, Standford University Press, Standford, 1964, p. 98. ↩︎
  6. Ivi, p. 100-101. ↩︎
  7. Ivi, p. 110. ↩︎
  8. Ivi, pp. 117-118. ↩︎
  9. Ivi, p. 120. ↩︎
  10. Ivi, pp. 122-123. ↩︎
  11. Ivi, p. 124. ↩︎
  12. Ivi, pp. 128-129. ↩︎
  13. Ivi, p. 133. ↩︎
  14. Cfr. Monumenta Brasiliae, Vol. III (1558-1563), por Serafim Leite S.I., Roma, in M.H.S.I., 1958, pp. 74*-75*. ↩︎
  15. Cfr. Amintore Fanfani, Sullo sviluppo del Brasile nell’era coloniale, in «Rivista Internazionale di Scienze
    Sociali», n. 3/10, 1939, p. 780. ↩︎
  16. Cfr. Gilberto Freye, Casa-Grande & Senzala. Formação da Família Brasileira sob o Regime de Economia Patriarcal, Rio de Janeiro, L. J. O., 1958, trad. it Padroni e schiavi. La formazione della famiglia brasiliana in regime di economia patriarcale, Torino, Einaudi, 1965, p. 3. ↩︎
  17. Ivi, pp. 220. ↩︎
  18. Cfr. Monumenta Brasiliae, Vol. III, p. 76*-77*. ↩︎
  19. Cfr. Monumenta Brasiliae, Vol. IV, pp. 64*-65*. ↩︎
  20. Cfr. Laura de Mello e Souza, O Diabo e a Terra de santa Cruz. Feitiçaria e religiosidade popular no Brasil
    colonial, Companhia das Letras, San Paolo, 1986, p. 2. ↩︎
  21. Ivi, pp. 33-34. ↩︎
  22. Ivi, p. 153. ↩︎
  23. Ivi, pp. 156-157. ↩︎
  24. Ivi, pp. 372-373. ↩︎
  25. Ivi, p. 374. ↩︎
  26. Cfr. Mott, Escravidão e homosexualidade, in Vainfas Ronaldo, História e Sexualidade no Brasil, Graal, Rio de Janeiro, 1986, p. 52-53. ↩︎
  27. Ivi, pp. 56-57. ↩︎
  28. Cfr. Nunes Fernandes, A Defesa dos Réus: processos judiciais e práticas de justiça da Primeira Visitação do Santo Ofício ao Brasil (1591-1595) , Fino Traço Editora, 2022, pp. 216-217.
    ↩︎
  29. Cfr. Dayne Augusta Santos da Silva, Vivência religiosa feminina no Brasil colonial, Universidad de Brasília,
    2009, pp. 1-49: pp. 30-31. ↩︎
  30. Ivi, pp. 32-33. ↩︎
  31. Ivi, p. 35. ↩︎
  32. Ivi, p. 151-152. ↩︎
  33. Ivi, p. 154-155. ↩︎
  34. Ivi, p. 161. ↩︎

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