Introduzione: le rivoluzioni non nascono dal nulla
Generalmente, la storia della Rivoluzione Mongola del 1921 inizia e finisce con gli interventi russo e cinese ed è vista come una nota a piè di pagina in un più vasto scontro geopolitico tra fazioni più grandi. È altresì presentata come l’inizio di un processo, quello della costruzione della Repubblica Popolare Mongolaa, ma raramente come la conseguenza della lunga catena eventi che in essa trovarono compimento. Il ruolo dei rivoluzionari mongoli quali fondamentale forza motrice degli eventi è stato progressivamente riesaminato e rivalutato in positivo1. Nonostante questo, l’aradb, il popolo della Mongolia, è solitamente trattato come qualcosa di secondario, una postilla per dare colore alle scene riportate, senza apparente rilevanza o scopo in tutta la narrazione degli eventi. Questo articolo ha l’obiettivo di analizzare i fattori socioeconomici che hanno anticipato e preparato lo scoppio della Rivoluzione Mongola del 1921: la prima parte si occuperà di analizzare le condizioni della società mongola feudale tra il XVII secolo e il 1911; la seconda ne seguirà lo sviluppo talvolta precipitoso, talvolta nascosto, tra la Proclamazione di Autonomia e l’entrata del Governo Popolare Provvisorio a Kyakhta. Sebbene non sia centrale per questo scopo la trattazione in dettaglio degli eventi, se sarà fornito un sommario dalla prospettiva degli arad e dei rivoluzionari mongoli, dando risalto a come i fatti abbiano di volta in volta influenzato la loro vita concreta, il loro pensiero e le loro aspirazioni.
Parte prima: La Mongolia prima della rivoluzione
Fondamenti e struttura del feudalesimo mongolo
Fin dagli inizi del XVII secolo, l’espansione e il consolidamento dell’Impero Russo in Siberia al nord e della dinastia Manchu dei Qing in Cina a sud avevano forzato i Mongoli a cambiare radicalmente i loro tradizionali modi vita. Le massicce e costanti migrazioni dei popoli nomadi che avevano caratterizzato la regione fino a quel momento furono coattivamente arrestate, mentre le classi dominanti Mongole si scoprirono sempre più incapaci di unire e stabilizzare con le armi il paese. Per affrontare e superare le nuove condizioni che si erano trovati ad affrontare, si rivolsero al Buddismo Tibetano, quale nuova forma di legittimazione e forza stabilizzante per l’ordine sociale. Si rivelò un’arma a doppio taglio2: la nuova classe dei lama buddisti si trovò presto in aperta opposizione con quella dei noyon, i nobili secolari, contrasto espertamente pilotato dai nuovi padroni Manchu della Mongolia Esterna.
La società mongola era quindi governata da due distinte classi di aristocrazia feudale: i principi secolari, noyon e taij, anche chiamati i nobili “neri”, e le istituzioni religiose, potenti lama reicarnati, i cosiddetti nobili “gialli” guidati dallo Jebtsundamba Khutuktu, il Buddha Vivente di Urga. Il popolo era collettivamente chiamato arad, e a sua volta era diviso tra i khamjlaga, servitori personali dei nobili secolari, gli shav’, che erano servi legati alla nobiltà monastica, e gli albat, sudditi diretti del principe regnante3. Kaplonski a merito descrive che quello che accadde in Mongolia nel 1921 come qualcosa di simile a “intraprendere una rivoluzione socialista in una Europa prima della Riforma Protestante”4. Differenza degna di nota, la evidente mancanza di centralizzazione: i nobili erano confinati in feudi minori, detti hoshun, dai Manchu, mentre i monasteri buddisti mancavano di una qualsivoglia gerarchia, agivano indipendentemente e tutt’al più “rispettavano” le reincarnazioni maggiori.
I nobili avevano basato la loro legittimità sulla loro ascendenza Chinggiside, ovvero tracciavano una linea diretta, patrilineare, tra sé e Chiggis Khaan (Gengis Khan). Le donne non avevano alcuno spazio nell’ordine sociale e politico: dopo aver pagato al suocero un “compenso nuziale”, il consorte e la sua famiglia acquisivano completamente ogni diritto sul lavoro produttivo e riproduttivo della sposa, mentre qualsiasi rivendicazione di lei sull’eredità e i titoli del padre erano annullati. Le nobildonne probabilmente ricevevano una qualche forma di educazione ma non ricoprivano mai ruoli di potere: una eccezione celebre di alcuni secoli antecedente ai fatti è Mandukhai Khatun (1449 ca-1510 ca), ma il di fuori lei le donne conservarono, soprattutto in questo periodo, una presenza quasi nulla nella sfera pubblica5. Di fatto, il tasso di alfabetizzazione privilegiava la popolazione maschile, ma era orribilmente basso nell’intero paese: allo scoppio della rivoluzione, si stimava che la porzione del popolo in grado di leggere e scrivere si attestasse attorno al 3%, mentre per le donne si parla forse dello 0,26%6. I nomi mongoli tipicamente includevano un patronimico, dato che tutte le informazioni rilevanti potevano essere praticamente riassunte nel nome del padre. Il matronimico era usato solo in caso il padre fosse incerto. Nato l’8 febbraio 1895 in un villaggio del poverissimo Tseten Khan aimag, figlio illegittimo di Khorloo, una donna arad in miseria, Choibalsan portò un matronimico per tutta la vita7. Pur essendo stato tagliato fuori fin da bambino dalle dinamiche di potere e legittimità tradizionali, sarà una delle figure chiave della rivoluzione del 1921 e, più tardi, della repubblica Popolare Mongola.
La storiografia mongola ha sottolineato come, nonostante la pastorizia fosse senza dubbio il modo primario di produzione, la forma in cui le relazioni di classe erano declinate era allo stesso tempo profondamente plasmato dalla proprietà della terra. La nobiltà ne possedeva un monopolio completo, godevano di privilegi di pascolo, e, anche se gli arad possedevano bestiame, tende, varie proprietà, per farne uso erano costretti a pagare un affitto al signore dell’hoshun8. La terra era nominalmente proprietà pubblica per legge, ma di fatto era disponibile per l’uso comune solo in estate ed autunno, quando greggi di proprietari diversi potevano liberamente pascolare sui prati del feudo. In inverno, a ogni unità famigliare era assegnato uno specifico lotto di terra, o övöljöö. Segnaposto, o addirittura guardie armate, erano usati per prenotare gli appezzamenti, e il signore poteva in qualsiasi momento reclamarne uno qualsiasi per uso personale. I terreni migliori per svernare, muniti dei pascoli migliori nelle vicinanze, pavimentazione per la tenda, riserve di sterco bovino essiccato da bruciare per riscaldarsi, erano solitamente requisiti dai nobili, assicurando loro di sopravvivere al duro inverno inverno mongolo senza perdere uomini o bestiame. Al popolo erano lasciate spesso aree molto meno ospitali dove condurre i loro animali, mettendo a rischio non solo la loro proprietà ma anche la loro stessa vita, come attesta una donna arad in questa lettera, datata 1876:
“Loro non permettono a me, la donna Dechin, di condurre il mio bestiame alle saline, e mi hanno assegnato per il pascolo nella regione di Ulaan-chuluut. Nelle colline pietrose Ulaan-chuluut né io né il mio bestiame possiamo sopravvivere anche solo fino alla fine dell’anno. Permettetemi di condurre il bestiame con Choijin, il contabile del nostro bag [sottodivisione amministrativa] in questo tratto erboso cosicché io possa conservare le bestie che mi restano e rimanere viva…”9
Gli arad erano anche coattivamente impiegati dai nobili per badare le greggi. Questo genere di corvée si dividevano in sürüg talbikhu, “mandare fuori” il bestiame a varie famiglie del popolo, e khoroga khikhü, la pratica di impiegare i servitori per pascolare le greggi vicino ai quartieri del signore feudale. Queste forme di organizzazione del lavoro non erano solo appannaggio della relazione signore-servo, ma anche gli arad più ricchi di tanto in tanto impiegavano i meno abbienti come manodopera per il proprio bestiame. Dall’altro lato, la signoria minore e i nobili senza terra spesso non possedevano abbastanza khamjlaga da usare per il pascolo dei propri animali ed erano persino obbligati dalle loro condizioni a lavorare per nobili maggiori. Il bestiame poteva anche essere prestato per dare aiuto ai più bisognosi, ad esempio per permettere loro di salvarsi da morte certa in inverno. Tuttavia, come viene sottolineato dagli storici mongoli, gli animali dati in forma di aiuti non erano mai parte delle proprietà del signore, ma erano confiscati dal bestiame dei sudditi e solo successivamente assegnati alle famiglie più povere10.
I Qing aggiunsero nuovi oneri alla popolazione già gravata da numerosi oneri. Dato che l’imperatore Manchu era riconosciuto quale principe regnante della Mongolia, fino al 1911 i servi albat erano formalmente sua proprietà, e parte degli affitti che tutto l’arad pagava per la terra andavano a finire direttamente nella casse dell’imperatore -l’altra parte era incassata dal signore dell’hoshun. Dal 1911, come vedremo, questi privilegi passarono al Jebtsundamba Khutuktu, asceso al rango di Bogd Khaan11. I Manchu privarono anche i feudi dei signor mongoli di vaste aree, assegnate a stazioni per le staffette imperiali oppure per il pascolo del bestiame che avrebbe dovuto essere fonte di sostentamento per le loro guarnigioni. Il popolo era anche forzato a servire nelle odiate örtöö, (stazioni postali) e nei kharuul (avamposti di frontiera), mentre vate aree erano messe da parte per il pascolo del bestiame proprietà diretta dei Qing stessi12.
Agli inizi del XX secolo, secondo alcune stime13, i monasteri assorbivano fino al 40% della popolazione maschile e che i grandi monasteri possedevano, da soli, almeno il 17% di tutto il bestiame del paese e un quinto delle terre. La vita monastica offriva una alternativa valida e in qualche modo diametralmente opposta alla tradizionalmente belligerante società mongola. I monaci, detti lama, aspiravano a vivere in contemplazione del divino e si radunavano attorno alle grandi reincarnazioni in monasteri disseminati per la Mongolia. La comunità dei fedeli buddisti, detta sangha, guardava ad essi come importanti centri religiosi, ma erano anche altrettanto importanti centri di produzione e commercio, che possedevano vaste proprietà terriere, a cui erano legati migliaia di servi. Ogni monastero era provvisto di un jas, una organizzazione il cui scopo era il mantenimento e l’accrescimento della ricchezza del monastero, nominalmente per garantire lo svolgimento delle attività religiose, e di un san, una tesoreria i cui capitali iniziali erano forniti dalla sangha come donazioni in forma di bestiame. Come parte della strategia Manchu, che mirava a usare le istituzioni religiose per stabilizzare il paese in opposizione alla nobiltà laica, i jas erano esenti dalle tasse imperiali, cosa che li portò a crescere progressivamente, entrando in competizione e persino superando per ricchezza i signori secolari. I monasteri presto iniziarono a operare a profitto attività come allevamento del bestiame per la rivendita, trasporto (cioè affittare animali da tiro che potevano esser usati per la migrazione di comunità o il commercio di prodotti), compravendita di beni, ma anche il prestito a interesse14. I pellegrini religiosi davano il loro contributo alle casse dei monasteri maggiori con le loro donazioni, che però apparentemente erano anche estratte dalla popolazione locale nella forma di “elemosina forzata” 15. Gli shav’ erano naturalmente impiegati nell’allevamento e per il pascolo del bestiame, mentre, dopo aver ottenuto i permessi richiesti dai Manchu, contadini cinesi o interi otog di shav’ erano impiegati in forma più o meno coatta per lavorare appezzamenti di terreno coltivati a foraggio oppure per fornire cibo al monastero16. Entrambe le attività avevano un costo in pratica nullo per il jas, che vedeva così i propri fondi moltiplicarsi ancora di più a fronte di un investimento minimo17.
Lo shav’ personale del Jebtsundamba Khutuktu, detto Ikh Shav’ (grande shav’), contava attorno agli ottantanovemila servi, e non aveva terre proprie per il pascolo: il bestiame del Buddha vivente erano autorizzati a muoversi liberamente per gli hoshun. Questo repentino e arbitrario influsso si migliaia di nuovi animali e persone creava, naturalmente, continui dissidi e ostilità non solo tra la nobiltà feudale e il Jebtsundamba Khutuktu, ma anche tra gli arad che abitavano gli hoshun più piccoli o già sovraffollati e i nuovi arrivati shav’18. Il primo compito dello Ikh’ Shav’ era quello di fornire i mezzi per il sostentamento e per i bisogni di base del Buddha vivente di Urga, degli alti lama sotto la sua giurisdizione e degli amministratori impiegati nei loro jas. A questo si aggiungevano altri obblighi, come provvedere le risorse necessarie per lo svolgimento delle cerimonie religiose, che in particolare richiedevano costoso tè cerimoniale, ma anche come fornire animali e manodopera per i lavori di riparazione degli edifici religiosi e per il periodico spostamento del grande monastero del Jebtsundamba Khutuktu. Quando il Buddha vivente moriva, gli shav’ erano mobilitati per fornire uomini, animali e finanziamenti per formare la delegazione che avrebbe portato la nuova reincarnazione dal Tibet in Mongolia19. Il costo di queste spedizioni, unito a quello delle grandi cerimonie che l’accompagnavano, poteva essere talmente elevato che il solo processo di acquisizione dei fondi dagli shav’ poteva richiedere fino a tre anni20. Il san del Jebtsundamba Khutuktu era per ovvi motivi inondato costantemente di donazioni dei pellegrini, ma anche dalle periodiche tasse imposte sugli shav’ per fare fronte alle spese di guerra o ai danni dovuti a disastri naturali21.
Detto questo, anche senza considerare la presa che la religione aveva sui Mongoli in questo periodo, gli arad erano molto spesso fortemente molto più inclini a lavorare per i feudatari religiosi piuttosto che per quelli laici. Questo perché a tutti i livelli le attività dei jas monastici erano generalmente meno basate su un tipo di sfruttamento meno intenso. Per esempio, il bestiame delle grandi reincarnazioni era molto spesso assegnato alle famiglie del popolo, ma solo alle famiglie già più abbienti: questo per il monastero era una sicurezza in più, in quanto i capi persi potevano essere facilmente rimpiazzati o rimborsati, ma in cambio queste famiglie godevano di importanti agevolazioni nella tassazione. Gli shav’ erano anche esenti dagli obblighi militari e dal servizio coatto come corrieri per le staffette di comunicazione22. I monasteri erano anche molto più propensi a prestare animali alle famiglie più povere così che potessero riuscire a sopravvivere anche senza animali di proprietà23, anche se attorno alla fine del XIX secolo apparirono progressivamente regole più stringenti che forzarono gli arad più indigenti a compensare il jas con una quantità prestabilita di prodotti animali24. Non era raro che popolani comuni cercassero attivamente di diventare shav’, spostando quindi progressivamente risorse e manodopera dagli hoshun secolari alle proprietà delle grandi reincarnazioni25. I mongoli svilupparono quindi una sorta di sentimento doppio nei confronti delle istituzioni religiose, cercando di tenere assieme il loro sentimento religioso da un lato e dall’altro la relazione economica, sempre più ostile e in contrasto, con i loro padroni religiosi. La loro attitudine nei confronti dei monasteri e dei lama è stata riassunta da Lattimore con la colorita espressione: “Il Buddha vivente di quel monastero laggiù e un sant’uomo e dobbiamo riverirlo; ma siamo anche autorizzati a odiare a morte [hate their guts] i suoi amministratori, che non hanno scrupoli verso di noi [put screws on us]”26.
Semi di rivolta e le radici della coscienza degli Arad
Gli arad, anche dopo le grandi trasformazioni che avevano scosso la società Mongola in questo periodo, avevano conservato una distinta memoria culturale, attorno alla quale trovarono la forza per organizzarsi i primi movimenti popolari. Alcuni ricordavano come in ere passate il signore dello hoshun doveva essere accettato dalla tribù prima di poter regnare, il potere del principe agli occhi di molti non era assoluto, e non lo era nemmeno secondo la legge27. Per questa ragione, anche se rivolte armate ebbero a tutti gli effetti luogo di tanto in tanto in Mongolia, alcune contro i Manchu, altre contri i signori locali, la lotta degli arad prese la peculiare forma di cause legali e petizioni, molte delle quali sono state conservate negli Archivi Nazionali. Il popolo comune, i monaci dei gradi inferiori, e alcune volte anche la piccola nobiltà si riunivano in gruppi numerosi, parlando in nome dell’intero hoshun, elencavano le loro rimostranze e firmavano poi i loro nomi a cerchio, così che non potessero essere individuati gli agitatori e i primi firmatari della petizione. I loro obiettivi erano limitati alla richiesta di compensi per i torti subiti, talvolta ottenevano la rimozione di un signore locale a favore di un altro, tipicamente della stessa famiglia. Molti di coloro che sporgevano querela, anche se vincevano la causa, erano però in ogni caso puniti. I primi movimenti organizzati, tuttavia, avevano piantato i primi semi di unità e coscienza comune tra gli arad, che stavano iniziando a sviluppare idee, limitate ma pericolose, riguardo la loro condizione e il posto che occupavano nella società mongola28.
Altri invece ricorrevano a un diverso tipo di ribellione, spinti dalla loro povertà assoluta e dalla miseria. Come abbiamo discusso, il popolo comune poteva accamparsi solo nei lotti di terra che erano stati loro assegnati dal signore. Quando tentavano di usare altre parti del territorio del feudo per il proprio sostentamento, il signore poteva ricacciarli con la forza negli appezzamenti a loro designati con la forza29. In più, era proibito per gli arad migrare oltre i confini dello hoshun in cui avevano residenza. Il fatto è, tuttavia, che diversamente da contadino cinese o dell’operaio russo, il pastore mongolo poteva sempre portare con sé i mezzi del proprio sostentamento, decidere di andarsene rapidamente senza immediate ripercussioni: nessun salario da perdere, nessun campo da lasciare all’incolto. Piuttosto che ribellarsi apertamente, molti scelsero di migrare dalle aree più povere e vivere di caccia, oppure portando via con sé qualcuno dei propri animali -o quelli rubati al signore30. Questa è la seconda, specificamente mongola, forma di ribellione che gli arad decisero di adottare per andare contro le proprie condizioni. Il padre del futuro eroe nazionale e rivoluzionario Damidin Sükhbaatar fu tra i molti che decisero di fuggire la povertà dello Tseten aimag, dove il proprio stesso bisnonno era stato già ucciso in una ribellione contro il signore locali anni addietro. Suo figlio Sükh nacque il 2 febbraio 1893 nella capitale Urga. Da ragazzino, nonostante la propria condizione, riuscì a farsi accettare come studente da un insegnante locale, ricevendo una forma base di educazione in matematica e scrittura31. Fu una opportunità decisiva nella sua vita, che lo elevò nella ristretta cerchia della popolazione mongola in grado di leggere e scrivere, e inserendolo a sua insaputa nella catena di eventi che discuteremo a breve.
Mercanti cinesi, una crisi di debito lunga un secolo
La dominazione Manchu aprì la strada all’ingresso dei mercanti cinesi nella Mongolia Esterna per intraprendere scambi commerciali tanto con i signori feudali, quanto con il popolo in generale. Una delle attività più profittevoli per i commercianti si rivelò essere il presto a usura, una pratica che, moltiplicatasi rapidamente oltre ogni misura, causò una crisi di debito attorno all’inizio del XIX secolo. I monasteri, che fino a quel momento avevano anch’essi provvisto servizi di prestito, sotto la pressione del capitale straniero, si adeguarono presto alle nuove condizioni e iniziarono a competere con i mercanti cinesi, alzando i tassi di interesse e incrementando le somme a disposizione. Il termine “usura” potrebbe sembrare fuori luogo ma, secondo alcune fonti32, lo stesso jas del Jebtsundamba Khutuktu, per esempio, forniva abitualmente prestiti con tassi di interesse annui del 26%, raggiungendo, pare, picchi del 60% alla fine del 1800. Se il prestito non era ripagato in tempo, tanto i monasteri quanto i creditori cinesi erano autorizzati a richiedere un ulteriore “interesse sull’interesse”33. Le pratiche finanziarie dei monasteri crebbero in sofisticazione, estendendosi dal prestito di bestiame a interesse all’emissione di denaro cartaceo. Quest’ultimo sviluppo mostra fino a che punto i monasteri erano arrivati in quel periodo a rappresentare importanti centri finanziari, tanto da essere paragonati da alcuni storici mongoli a vere e propri istituti bancari34. Le stesse istituzioni pubbliche furono gravemente coinvolte nella spirale di debiti: nel 1775, il debito totale dei quattro aimag della Mongolia ammontava a 200mila tael di argento35. I debiti privati aggravavano esponenzialmente la situazione, specialmente quando contratti da quegli stessi nobili che già faticavano a ripagare quelli del proprio feudo. Anche i privati cittadini erano profondamente colpiti dalla crisi: si calcola che nel 1807 i lama di Urga, da soli, avessero contratto debiti per 160mila tael36.
Al popolo, naturalmente, era richiesto di ripagare in toto i debiti privati dei nobili locali. A questo si aggiungeva il fatto che molti erano già indebitati: i mercanti prestavano loro piccole quantità di argento, animali, o prodotti, che ovviamente si aspettavano di veder ripagati pienamente e con interessi. Quando questo non succedeva, le autorità potevano essere rapidamente coinvolte. In altri casi, i nobili richiedevano tasse dall’arad nominalmente per ripagare debiti propri o del feudo, ma sequestravano poi denaro e animali dal popolo comune per il proprio profitto personale37. In un documento più tardo datato 1840, i sudditi dello stendardo di Wang Togtokhtör elencavano nella lunga serie di reclami almeno cinque38 diverse occasioni di prestiti fraudolenti o gestione in malafede di denaro o beni che erano stati richiesti per il ripagamento di debiti. La lista totale delle loro perdite, inclusi gli incidenti menzionati, raggiunge un totale di:
“[…] 17400 once di denaro d’argento, inclusi il costo e l’affitto di cavalli e cammelli, 2800 pecore, 200 teste di bestiame, 100 cavalli, 40 cammelli, 87 700 blocchi di tè [nda: si tratta del costoso tè rituale menzionato in precedenza, usato per il suo valore come moneta di scambio], 4 pelli di zibellino e 1 set per tende completo.”39
I mercanti, che in questo periodo erano più o meno liberi di circolare come volevano nel paese, causavano anche altro genere di disordini in vari hoshun, come attesta una lettera del 1779:
“I commercianti cinesi di Khökh Khot sono arrivati nella parte meridionale del nostro khushuu con grandi quantità di bestiame e si sono accampati lì, ma non c’è abbastanza spazio nel pascolo del khushuu perché i cinesi allevino lì il loro bestiame, e potrebbe accadere qualsiasi cosa per via delle liti tra il popolo e i cinesi che si contendono l’acqua e le terre per il pascolo”40.
Dispute come queste, unite al peggioramento della crisi dei debiti, creavano via via più risentimento tra i signori locali e i mercanti, un sentimento condiviso con il popolo comune, che avevano visto la loro qualità di vita peggiorare sempre più negli ultimi anni. Lattimore suggerisce che a questo livello i cinesi agivano come una sorta di classe media per la Mongolia, di “borghesia” nazionale41. La caratteristica principale di questa classe, tuttavia, era piuttosto il trasferimento costante di capitali fuori dal paese, fatto dovuto in parte alle politiche Manchu, che proibivano lo stanziamento permanente dei cinesi in Mongolia.
La crisi dei debiti preoccupava profondamente anche i Qing, in quanto di fatto impediva ai loro sudditi nella regione di pagare tasse al governo centrale. Le autorità imperiali si attivarono per impedire ai nobili di imporre tasse dagli albat, la popolazione per legge direttamente suddita dell’imperatore, ma l’iniziativa ebbe successo solo limitato42. Già negli anni ‘70 del XVIII secolo, alcune misure vennero introdotte per sanare una parte del debito accumulato: una grande parte degli interessi furono direttamente espunti, ma furono anche impiegati tutti i mezzi possibili per assicurarsi che i debiti evasi in sé fossero ripagati43. Un modo in cui i signori locali, ma anche il popolo comune, tentarono di accontentare i creditori fu attraverso la vendita di bestiame agli stessi mercanti come compenso per il denaro dovuto. Questo li esponeva tuttavia a un rischio, ovvero la possibilità che i commercianti li avrebbero potuti forzare a vendere il bestiame, ma solo a prezzi stracciati. Per prevenire questa possibilità, istituzioni feudali e arad tentarono di fissare il prezzo degli animali, con risultati incerti44. I commercianti furono anche in questo periodo confinati in insediamenti mercantili, in cinese maimaicheng. Molte di queste città commerciali furono fondate in varie parti della Mongolia, come sedi dell’amministrazione imperiale e centri nevralgici per la compravendita e il trasporto di beni, attività che in questo modo potevano essere svolte sotto l’occhio vigile degli ispettori Qing. Questa misura avrebbe risolto buona parte dei problemi, ma fallì completamente. I mercanti, che già in primo luogo non possedevano nemmeno una licenza commerciale, optarono per continuare i loro affari negli hoshun, dove godevano di spese più passe, tassazione e competizione nulle, e della possibilità di dettare praticamente i prezzi come volevano. Gli officiali Manchu che avrebbero dovuto controllare il commercio nel paese fingevano di non vedere oppure lo permettevano direttamente45. Nel 1796, l’imperatore capitolò definitivamente ai mercanti, e la Mongolia Esterna fu finalmente aperta al commercio libero46: i Qing non stavano facendo altro che semplicemente prendere coscienza di una situazione che dall’inizio stava già completamente sfuggendo di mano.
Note per la prima parte
1 See Thomas E. Ewing, Russia, China, and the Origins of the Mongolian People’s Republic, 1911-1921: A Reappraisal, in The Slavonic and East European Review, Jul. 1980, Vol. 58, No. 3, S. Maney and Son, Leeds 1980, pp. 399-421; Fujiko Isono, Soviet Russia and the Mongolian Revolution of 1921, in Past & Present, May, 1979, No. 83, Oxford University Press, 1979, pp. 116-140; e più recentemente da Cristopher Kaplonski, The Lama Question: Violence, Sovreignty, and Exception in Early Socialist Mongolia, University of Hawai’i Press, Honolulu 2014.
a D’ora in poi “Mongolia” sarà usato come termine per descrivere la regione della Mongolia Esterna, anche detta Mongolia Khalkha dal nome del gruppo etnico che in prevalenza la abita.
b Arad, così come shav’, sono nomi allo stesso tempo riferibili a un gruppo: gli arad sono le persone del popolo, gli shav’ sono i servi dei monasteri; sia nomi collettivi: l’arad (singolare) è il popolo, lo shav’ di un monastero è l’intera collettività dei servi ad esso legati.
2 Irina Y. Morozova, Socialist Revolutions in Asia: The Social History of Mongolia in the Twentieth Century, Rutledge, New York 2014, pp 3-8.
3 Cristopher Kaplonski, The Lama Question: Violence, Sovreignty, and Exception in Early Socialist Mongolia, University of Hawai’i Press, Honolulu 2014, p 47 e D. Tsedev, The Social and Economic Situation of the Shav, in David Sneath, Cristopher Kaplonski (ed.), The History of Mongolia, Global Oriental, Folkestone 2010, p. 771
4 Cristopher Kaplonski, op. cit., p 4.
5 M. Even, H. Tomlinson, Sex-equality norms versus traditional gender values in Communist Mongolia, in Clio. Women, Gender, History, No. 41, “Real socialism” and the challenge of gender, Editions Belin, 2015, pp. 163-164.
6 Dati citati da C. Kaplonski, op. cit., p 70.
7 Thomas E. Erwing, The Origin of the Mongolian People’s Revolutionary Party: 1920, in Mongolian Studies, 1978 & 1979, Vol. 5, Mongolian Society, 1979, pp. 84-85.
8 Academician Shakdarjav Natsagdorj, The Economic Basis of Feudalism in Mongolia, in David SNEATH, Cristopher Kaplonski (ed.), The History of Mongolia, Global Oriental, Folkestone 2010, pp. 693-694.
9 Quoted by A. S. Natsagdorj, art. cit., pp. 695.
10 A. S. Natsagdorj, art.cit., pp. 696-698.
11 Ivi, pp. 701-702.
12 Ivi, pp. 693-695.
13 C. Kaplonski, op. cit., p 17, 47 e M. Even, H. Tomlinson, art. cit., pp. 161-171.
14 D. Dashbadrah, J. Gerelbadrah, The Economy of the Monasteries, in in David Sneath, Cristopher Kaplonski (ed.), The History of Mongolia, Global Oriental, Folkestone 2010, pp. 789-790.
15 Ivi, pp. 793.
16 D. Tsedev, art. cit., pp. 780.
17 D. Dashbadrah, J. Gerelbadrah, art. cit., pp. 790-791.
18 A. S. Natsagdorj, art. cit., pp. 695.
19 D. Tsedev, art. cit., pp. 771-773
20 Ivi, pp. 774
21 Ivi, pp. 778-779
22 Khorloogiin Choibalsan, A Short Outline of the History of the Mongolian People’s Revolution, The November 8th Publishing House, Ottawa 2022, p 14. Questa fonte, che consiste in un memorial lasciato da Kh. Choibalsan pubblicato nel 1934 e poi riedito nel 1947 con correzioni, è problematica ed è stata dimostrata in parte inaccurata da H. Futaki (vedi articolo in Bibliografia). Tuttavia, rappresenta ancora la fonte di prima mano più diffusa e reperibile contiene diversi documenti del periodo. Quando la Short History di Choibalsan è qui usata come fonte, la trattazione è sempre confrontata con le ricerche di Futaki e altre fonti per controbilanciare la possibile inattendibilità dell’autore.
23 A. S. Natsagdorj, art. cit., pp. 697-698.
24 D. Dashbadrah, J. Gerelbadrah, art. cit., pp. 790.
25 Cristopher Kaplonski, op. cit., p 68.
26 Owen Lattimore, Nomads and Commissars: Mongolia Revisited, Oxford University Press, New York, 1962, p. 65.
27 Ivi, pp. 55-56.
28 Fujiko Isono, The Mongolian Revolution of 1921, in Modern Asian Studies, Vol. 10, No. 3, Cambridge University Press, 1976, p. 378.
29 A. S. Natsagdorj, art. cit., pp. 69
30 Owen Lattimore, op. cit., pp. 58.
31 T. E. Erwing, art. cit (1979), p. 89.
32 D. Dashbadrah, J. Gerelbadrah, art. cit., p. 791.
33 Ivi, p. 792.
34 Ivi, p. 793.
35 M. Sanjdorj, The Spread of Trade to the Countryside, in David Sneath, Cristopher Kaplonski (ed.), The History of Mongolia, Global Oriental, Folkestone 2010, pp. 705-706
36 Ivi, p. 712
37 Ivi, pp. 713
38 Mi sto riferendo ai punti 2-3-5-28-29 elencati in: S. Rasidendog and Veronika Veit (Trans.), Document 23: Petitions of Grievances Submitted by the People, in David Sneath, Cristopher Kaplonski (ed.), The History of Mongolia, Global Oriental, Folkestone 2010, pp. 825-837.
39 Ivi, p. 836.
40 Quoted in: M. Sanjdorj, art. cit., p. 706.
41 Owen Lattimore, op. cit. p. 67.
42 A. S. Natsagdorj, art. cit., p. 700.
43 M. Sanjdorj, art. cit., p. 707
44 Ibidem.
45 Ivi, pp. 708-9.
46 Ivi, pp. 710.
Bibliografia per la prima parte
Libri
Cristopher KAPLONSKI, The Lama Question: Violence, Sovreignty, and Exception in Early Socialist Mongolia, University of Hawai’i Press, Honolulu 2014.
Owen LATTIMORE, Nomads and Commissars: Mongolia Revisited, Oxford University Press, New York, 1962.
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Traduzione di documenti e fonti primarie
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