La foresta che brucia

Questi giorni a livello internazionale sono stati scanditi dagli incendi che stanno devastando la foresta amazzonica.
Una giusta indignazione si è fatta strada nell’opinione pubblica internazionale contro Bolsonaro e i suoi ministri, contro la loro cialtroneria e violenza. Lo spettro della lunga notte della dittatura militare torna a spaventare la coscienza del popolo brasiliano, in special modo i lavoratori, gli indios, le donne e le minoranze. La distruzione del polmone verde del mondo era un disastro annunciato dalla cialtroneria al potere.
Il clan Bolsonaro si lamentava dei diritti degli indios, dell’impossibilità di sfruttare le risorse dell’Amazzonia per il bene del paese, servito dall’immancabile negazionismo sul riscaldamento globale.

L’Amazzonia va in fiamme ma non per colpa di questo patetico buffone, ma del sistema che ha scelto questo individuo come proprio rappresentante, dopo aver usato Temer per abbattere il governo del PT.
La bancada ruralista, colonna portante di questo capitalismo periferico, ha ripreso il totale controllo del Brasile, Bolsonaro è il suo rappresentate di cui condiziona in toto le scelte politiche. Questi signorotti feudali, l’1% della popolazione brasiliana che possiede il 45% della terra coltivabile, formano un potente cartello di produttori di soia, cotone e canna da zucchero, spina dorsale delle esportazioni del paese assieme al petrolio e ad altre materie prime.
L’agribusiness rappresenta un quarto del PIL nazionale, fornisce occupazione ad oltre 30 milioni di lavoratori e rende il Brasile il primo esportatore mondiale di carne bovina e avicola, soia, caffè, etanolo, arance e canne da zucchero.
Sono loro ad alimentare l’erosione dell’Amazzonia per ottenere nuova terra per farne campi da coltivare o pascoli.

Il presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro

Pertanto il disastro in questione va inserito perfettamente nel quadro del capitalismo periferico brasiliano e nella sua logica estrattivista, un caso da manuale di accumulazione per espropriazione, concetto sviluppato negli ultimi anni dallo studioso marxista David Harvey. Questo tipo di accumulazione avviene con la forza, con l’uso della violenza che può impiegare la classe di capitalisti al potere e che riguarda la sfera extraeconomica. Un ritorno della violenza che si dispiega sia nella gestione del potere che nella forma di accumulazione, con il risultato di imporre un dominio che si esercita non più attraverso l’egemonia ma per mezzo della coercizione.
I piccoli eserciti dei fazendeiros che bruciano fette della foresta amazzonica, massacrano gli indios e i lavoratori agricoli non sono altro che la manifestazione concreta di tutto ciò, trovando ora una legittimazione politica anche nel governo.

Se questo è il quadro in cui agire, come dovrà rispondere la sinistra brasiliana?

Come abbiamo spiegato subito dopo la vittoria elettorale di Bolsonaro, deve partire da una profonda autocritica.
Il lulismo non ha messo in discussione questo modello periferico di capitalismo, fondato sull’estrattivismo, e tantomeno ha sfidato il potere della bancada ruralista.
L’esigenza di una riforma agraria ancora mobilita milioni di lavoratori sotto le bandiere del Movimento dei Senza Terra. Il PT si è limitato ad usare i soldi provenienti dalle esportazioni di materie prime e derrate alimentari per avviare un processo desarrollista su delle basi però inesistenti.

L’ex-presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva nel febbraio 2018, prima della carcerazione

Quando giunse la crisi nel 2013 la macchina si è inceppata ma nel frattempo le masse sprovviste di una adeguata educazione politica, necessaria per un loro coinvolgimento, hanno finito per essere aggirate dalle sette evangeliche sostenute dagli yankee e vicine a Bolsonaro. Queste sette hanno sostituito l’educazione politica, che era compito del PT, con l’illusione di una vita di sofferenza da patire nel mondo terreno per avere un premio dopo la morte. Con questo stratagemma non indifferente, in tutta l’America Latina la destra ha ottenuto i voti dei ceti popolari.
Non essendo stati capaci di proporre un’alternativa radicale di società, che per quanto ci riguarda si chiama socialismo, l’unico modo per superare il capitalismo periferico senza cadere nelle illusioni desarrolliste destinate al fallimento, il lulismo ha finito per tradursi in un’occasione mancata. Certo, esistono elementi positivi in questa esperienza, come il programma Bolsa Familia e la forte alleanza stabilita con tutti i governi di sinistra della regione, ma l’illusione di poter avviare un ciclo di accumulazione indipendente senza intaccare le strutture del capitalismo periferico ha determinato la situazione odierna.
Si deve ripartire dalle masse, dalla lotta di classe e dalla loro educazione politica se si ha l’ambizione di abbattere il potere della bancada ruralista e indirizzare il paese verso una strada diversa, che non veda più l’Amazzonia bruciare e il genocidio dei suoi abitanti.

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