— Elia Pupil
I. Pasolini e l’Egemonia
Rispetto a tale normalizzazione, tra coloro che riescono meglio a percepirla si mette in luce nel dopoguerra la figura di Pier Paolo Pasolini che analizza, pur non conoscendo ancora i testi di Horkheimer, Adorno o Marcuse(I), il capitalismo come realtà totalitaria. In questo sistema l’individuo viene assolutizzato entro le logiche produttivistico-consumistiche, permeato dai contenuti valoriali di utile, profitto e realizzazione materiale (la stessa dell’american dream): nulla può sfuggire ad una convalidazione di mercato, perversione generale rappresentante un unicum che accomuna al suo interno ogni diversità (l’importante che questa sia funzionale alla sua autoriproduzione) ed elimina ogni altra realtà.
Pasolini è lapidario nella sua analisi: il capitalismo è riuscito dove il fascismo ha fallito miseramente, ovvero omologare l’intera massa. Né il centralismo né la democrazia organica fascista e benché meno tutta la mistica che costruiva il pensiero fascista riuscì ad adempiere a tal compito: Pasolini, intento a descrivere l’architettura di Sabaudia, città creata dal regime di Mussolini, esprime in tutta la sua chiarezza il perché tale luogo, pur essendo stato modellato dai canoni estetici del Littorio, risulta tutt’oggi «a misura d’uomo» (Pier Paolo Pasolini, Vie Nuove n. 36, 6 settembre 1962). Sabaudia infatti, da perla egemonica del fascismo, viene collocata dal poeta tra il «metafisico europeo [cfr. De Chirico] e lo stesso realismo» (Pier Paolo Pasolini, L’omologazione del nuovo fascismo, Teche Rai, 1974), caratterizzazione volta ad evidenziare come le forme di vita abbiano colonizzato un fallace esperimento di controllo culturale: il fascismo “storico” aveva basato il suo potere su un tacito consenso delle masse ma la base antropologica del paese, quell’identità rurale, agricola e cattolica, non era stata snaturata.
Ad essa si era semplicemente aggiunta la sovrastruttura del potere fascista che non riusciva a soppiantare le identità locali, i dialetti o le tradizioni popolari: iniziative come la “Befana fascista” attuate dal regime avevano loro stesse un carattere squisitamente tipico e l’eliminazione dei dialetti e delle lingue minoritarie aveva portato alla creazione di una moltitudine incoscia di resistenza culturale: Pasolini potè esperire questo clima culturale già in gioventù in merito alla questione del casarsere, dialetto tipica della località friulana dove la famiglia di Pier Paolo era solita a trascorrere le vacanze.
Infatti Pasolini si appassiona al casarsese per opporsi sia ai diktat del padre, fervente nazionalista appartenente alla borghesia del luogo (caratterizzata dall’uso di un dialetto veneto contrapposto al casarsese, dialetto del proletariato rurale), sia all’italiano dell’epoca fascista, poiché era un italiano permeato da tale egemonia ideologica.
Quando, nei primi anni ’30, contro il parere di Giovanni Gentile, il MinCulPop varò norme finalizzate al purismo linguistico, l’azione istituzionale delle scuole sfociò in una vera e propria guerra ai dialetti, alle lingue minoritarie e straniere: l’apparato scolastico garantiva una formazione europea solo alle élite.
Proprio in questo contesto Pasolini inizia ad usare il casarsese per scrivere poesie, nonostante tale idioma sia caratterizzato dalla pura dimensione orale, una dimensione puramente contadina che fonda il suo metodo di comunicazione sull’oralità primaria poiché non necessitava i parlanti a saper scrivere e leggere.
Scrivendo la parola perde la propria materialità come espressione dell’indipendenza del linguaggio, ma resiste alla volatilità dell’atto di enunciazione: separando l’enunciato dall’enunciazione, Pasolini pone il casarsese su regole fisse.
Infatti le lingue ad oralità primaria hanno la caratteristica di non avere il canone di essere fisse e di aver regole: il significato delle parole non è racchiuso nello scritto, ma nel pragmatismo, nell’esperienza di coloro che vivono la lingua, in cui il parlante si fa da garante del rapporto tra parola e cosa.
Perciò Pasolini scrive in casarsese perché vuole servirsi del mondo dei parlanti: usare il senso puro del dialetto per esprimere il proprio sentimento puro, ed in questo frangente rendersi conto di aver fatto un atto politico, ovvero essersi schierato con quelle classi che il fascismo avversava, assumendone l’identità.
Le possibilità di resistenza diminuiscono tragicamente quando sorge il nuovo fascismo “borghese” del boom economico: l’omologazione totale che ha portato a quella progressiva e irreversibile mutazione antropologica, annullando le diversità a favore della globalizzazione e del conformismo, imponendo certi status symbol da raggiungere ad ogni costo.
«Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società»
Pier Paolo Pasolini, L’omologazione del nuovo fascismo, Teche Rai, 1974
I singoli si sono annullati in virtù di un unicum con un comune obiettivo in mente: la realizzazione del sogno imposto dal mercato.
«L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa…»
Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Scritti Corsari, Corriere della Sera, 1974
Andare contro la moda non è più simbolo di anticonformismo ed unicità, finché questo è funzionale alle logiche moderne: essere contro non è più «scegliere tra il bianco ed il nero, ma sottrarsi a tale scelta prescritta» (T. Adorno, Minima Moralia). Così si presenta a Pasolini la questione del fascismo e dell’antifascismo: gli antifascisti sono rimasti invischiati in una retorica politica anacronistica.
I nuovi fascisti e i nuovi antifascisti nascono dallo stesso sostrato culturale, da quella “nuova borghesia in fieri”, pertanto l’appartenenza all’uno o all’altro schieramento si determina solo per cause minime.
«Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…»
Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Scritti Corsari, Corriere della Sera, 1974
Con tali presupposti Pasolini prepara la sua critica unica al ’68, fatta da continua critica, ma anche da continua autocritica: Pasolini, al contrario di molti altri intellettuali dell’epoca, partecipò al ’68 scrivendo anche sui vari quotidiani che nascevano all’epoca come Lotta Continua o Il Manifesto, nonostante quel metodo “piccolo borghese” degli studenti che determinò la fine del movimento.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
[…]
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.Pier Paolo Pasolini, Il PCI ai giovani!, Nuovi Argomenti, 1968
L’invito di Pasolini è uno solo: abbandonare le categorie anacronistiche di fascismo e antifascismo e a contrastare il volto disumano del nuovo Potere che si stava inesorabilmente espandendo. Il nemico non è un sentimento fascista di matrice neoborghese (sentimento analizzato da Pasolini nella nascita dei NAR o di Ordine Nuovo, così come delle BR, quale azione funzionale al sistema per controbilanciare l’azione della sinistra), ma quel Potere fintamente democratico e falsamente tollerante che sfrutta quel fascismo per i suoi fini e che rappresenta il più totalitario e repressivo dei regimi.
II. Pasolini intellettuale organico
Come espresso nel paragrafo precedente, solo con l’esperire si creano quelle soggettività contraddittorie che solamente l’intellettuale organico, forte della connessione sentimentale con il collettivo sociale, può assorbire ed elaborare al fine di una strategia politica. Sotto l’egida di tale ragionamento, Pasolini si può dire il primo grande intellettuale organico alla subalternità del dopoguerra: Pasolini è stato organico ad una classe senza nemmeno saperlo. Evolvendosi dal periodo delle poesie casarsesi, egli afferma che non deve più cercare il regresso nella lingua, bensì nel parlante, protagonista della stessa opera; egli si avvicina sempre di più al romanzo, come la Meglio Gioventù o Ragazzi di vita.
Questo rappresenta la consecuzione ideale del messaggio attuativo contenuto nei Quaderni dal Carcere, dove il concetto di connessione sentimentale tra subalternità ed avanguardia viene plasmato da sapienti mani pasoliniane, per cui il regresso consiste nella trasposizione di tale connessione nel mondo del parlante, sotto-forma del sapere che si cala nel sentire del soggetto.
Pasolini in tal senso definisce una vera e propria tecnica letteraria che troverà ampio respiro anche nell’ambito cinematografico, il discorso indiretto libero, dove l’autore, al contrario del verismo di Verga, non si eclissa nel protagonista ma, al contrario, pone lo scrittore-soggetto politico intellettuale come espressione contemporanea del per-sé di classe e del filosofo organico.
Per inserire nel romanzo il sentire del quale era stato testimone, Pasolini inizia quindi a “regredire” non più solamente nella lingua altrui ma nel parlante stesso; in questo modo riesce a emergere insieme al parlante, senza eclissarsi, introducendo il discorso indiretto nel pensiero diretto libero. Nel discorso indiretto libero, infatti, vi è un vero e proprio intreccio tra il discorso indiretto dello scrittore, calatosi nel sentire del parlante, e il discorso del parlante stesso.
Si trova manifesto di questa affermazione nei versi delle Ceneri di Gramsci dove Pasolini asserisce:
«Lo scandalo del contraddirmi,
dell’essere con te e contro te;
con te nel core, in luce,
contro te nelle buie viscere;»Pier Paolo Pasolini, Le Ceneri di Gramsci, ed. Garzanti Libri, 2014
Ed è proprio questo “scandalo del contraddirmi” che fonda il manifesto entro cui far filosofia assume un significato pratico – trasformativo: la filosofia della praxis non tende al piano utopistico di risolvere la contraddizione entro un’identità assoluta, ma si fonda sulla contraddizione stessa.
Far filosofia vuol dire aver piena coscienza della contraddizione per cui, non sono il filosofo comprende, ma eleva sé stesso a contraddizione.
L’affermazione pasoliniana è perentoria: con la classe perdura ciò che è una fisicità che il poeta adottato casarsese non sfugge a connotar come “erotica”.
Nelle opere cinematografiche Pasolini riesce ad inserire la corporeità della classe operaia che aveva ammirato in gioventù e della quale aveva sempre apprezzato, anche eroticamente, i fisici ed i movimenti. Esalta quindi l’erotismo e la grazia tipici dei movimenti spontanei e veloci delle classi popolari, ricchi di quel sentire che cercava di trasmettere e per il quale ammirava tanto i giovani ragazzi operai. Il regista posiziona la macchina da presa facendo in modo che entri in soggettiva inquadrando un piccolo pubblico in asse con essa (soggettiva libera indiretta).
L’unione di sapere e sentire concretizza la coscienza politica potenziale nella classe: con tale azione, Pasolini depura Gramsci dalla teologia politica.
Pasolini esalta la contraddizione in quanto naturale, asserendo che la superfilosofia è quella che entra nella contraddizione, memore dello Zibaldone di Leopardi: “solo i marxisti amano la contraddizione”. In questa prospettiva viene definitivamente giustificato il ricorso stilistico di Pasolini alla figura retorica dell’ossimoro poiché correlazione tra opposti.
III. La dialettica: da Marx a Gramsci… a Pasolini
Per Gramsci, il contenuto realmente fecondo dell’immanentismo marxista si identificava con l’intima logica dialettica ereditata dai grandi, da Eraclito ad Hegel, che fa da struttura portate del sistema marxiano: la dialettica in tal caso diviene la nuova scienza delle contraddizioni, lo sguardo verso la totalità nella continua relazione tra opposti. Per Hegel la dialettica è la legge che regola l’assoluto, la risoluzione del finito nell’infinito la ragione: ogni finito non può esistere in se stesso, ma è obbligato ad opporsi ad altro ed entrare in una trama di relazioni. Alla funzione eternificante della conciliazione nella dialettica, Hegel opta per una dialettica a sintesi finale chiusa, con un preciso punto d’arrivo.
Globalmente considerata, la dialettica rappresenta allo stesso tempo legge ontologica di sviluppo della realtà e legge logica di comprensione di questa poiché eredità del seme soggettivista maturato in Fichte e Schelling fino alle sue estreme conseguenze in Hegel, in cui la questione gnoseologica non si limita a vagliare il dubbio dell’oggettivo extraumano ed esterno alla mente (così arrivando all’implicazione dell’esistenza nel pensiero, l’Io trionfante che prevale sullo studio del mondo esterno per cui l’essere segue il pensiero), bensì struttura ed identifica la stessa realtà col razionale, tanto che l’idea-in-sé (espressione della Logica) diviene l’ossatura intima della realtà.
Hegel ne distingue tre momenti: l’astratto-intellettuale, il negativo-razionale, il positivo-razionale. L’astratto (con valore di tesi) si ferma alle determinazioni isolate della realtà, particellizzate (ovvero astratte dal loro campo di rapporti). Il negativo-razionale (che assume il valore dell’antitesi) nega le determinazioni astratte, rapportandole con le determinazioni opposte poiché ogni significato ha al suo interno l’affermazione di ciò che è un oggetto grazie alla determinazione implicita di ciò che non è. Il positivo-razionale (sintesi) coglie l’unità delle determinazioni opposte, ricomponendole in modo sintetico.
La dialettica consiste quindi nell’affermazione di un concetto astratto (leggasi particellizzato) come tesi, la negazione di questo concetto e nel passaggio ad un concetto opposto, che funge da antitesi; nell’unificazione della precedente affermazione e negazione in una sintesi positiva comprensiva di entrambi. Riaffermazioni che Hegel focalizza con Aufhebung, che esprime l’idea di un superamento che è, al tempo stesso, un togliere e un conservare.
Il sistema hegeliano (Logica-Natura-Spirito) che Marx delinea come poggiante sulla testa viene modificato dallo stesso, tanto da non lasciar veritiera nemmeno l’affermazione di Engels sul presunto abbandono del sistema hegeliano a favore del metodo suo sostrato: Marx identifica ciò che all’interno sia del metodo che del sistema hegeliano e, selettivamente, elimina ogni elemento del metodo che possano legittimare la realtà reazionaria del sistema e viceversa, mantenendo parte del metodo e del sistema hegeliano come valido modello di sapere confacente alla ricchezza della vita e della storia, a patto però di eliminarne l’aspetto anamnestico. In definitiva Marx attua due operazioni su Hegel: il rovesciamento della dialettica hegeliana che si regge tutto sulle nozioni di astratto e di concreto(L) e l’opposizione all’immobilità del pensiero contemplativo, esigendo la dinamicità di un pensiero come sintesi dialettica di teoria e prassi, quale filosofia pratica.
La prassi diviene come realtà essenziale e sintetica, veritativa e trasformativa, tendente verso un processo di totalizzazione continua: in tal caso la totalità non è mai completamente data ma è strutturata in un processo aperto: è proprio su questa base che Marx fonda l’elemento più fertile della sua filosofia, rintracciato per primi solo da Gramsci e Labriola.
Il fulcro della caratterizzazione aperta e in continua totalizzazione della dialettica marxista è da ricercarsi nella amplificazione della dimensione assoluta ed affermativa della negazione (absolute Negativität) desunta da Hegel.
Sin dall’Ideologia Tedesca infatti, Marx con il suo riconoscimento dell’esistenza del proletariato, come di quella classe che esprime ed incarna la negazione assoluta della società capitalistica, smentisce che la razionalizzazione del reale, come la afferma Hegel, sia realizzata e nega quindi la filosofia che la esprime.
Tale materializzazione dell’assolutezza dell’antitesi trae origini proprio dall’estremizzazione e superamento dell’originalità della formulazione hegeliana: questa è assoluta perché è anche negazione autoriflessa, volta verso l’interiore, è un negare che nel limite negante verso l’altro nega nello stesso tempo il contenuto che delimita all’interno. Ergo, è una negazione che non implica una struttura dinamica fissa a disposizione del suo sviluppo, né una subalternità genetica all’affermazione della sua costituzione, essa è relazionata, ma non dipendente: la negazione diviene pure affermazione, lo scarto tra termini diviene espressione di lotta e potenza.
Il limite, Grenze, diviene il cardine della riflessione su tale momento per cui, attraverso la semplice assolutezza del Non, il negare diviene Sich-Abstoßen von sich selbst , re-pulsione sia attraverso l’interno che attraverso l’esterno: la potenza(POSTFAZIONE) negante che diviene foriera di nuove configurazioni della realtà, così come il rapporto tra Essere determinato e indeterminato esprime un nulla assoluto che nega se stesso e si costruisce nella processualità generatrice.
È la negazione della negazione in nuce, è il primo vero momento della sintesi oltre la mera negazione determinata (una cosa non è l’altra), portando il pensatore alla negazione assoluta di un concetto astratto al fine di definir la concretezza mediante l’attualizzazione delle contraddizioni ed il loro superamento: la componente subalterna, essendo il corpo non capitalista nel capitalismo, è depositaria di quella negazione assoluta (leggasi inconciliabile, leggasi affermazione creativa) che investe tutte le determinazioni del Capitale e porta arricchimento nella definizione del totale e conflitto alla prima determinazione (l’astrazione del Capitale a cui si contrappone il Concreto). Tale processo vede nell’essere umano l’attore principale della realtà come deterrente di una particolare necessità performante secondo la quale l’uomo, mediante la sua volontà, non si dirige con certezza verso il Sole dell’Avvenire (grande narrazione moderna che non convinse mai Marx) ma pone in esso, e nella sua azione, la garanzia della buona o cattiva riuscita (quando la Luxemburg parlò di socialismo o barbarie ben vide quanto la strada verso l’emancipazione umana non sia mai certa).
Anche Gramsci, fortemente caratterizzato dalla sua impronta storicistica, vedeva nella prassi lo strumento della liberazione dell’uomo, sapendo che la prassi rivoluzionaria stessa non ha garanzia scientifica di riuscita: come lui stesso dirà, l’unica cosa scientificamente dimostrabile è la lotta, lo scontro tra poteri e potenze.
La prassi, per Gramsci è anche catarsi: che segna
«il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’oggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così, mi pare, il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento dialettico»
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, p. 140
Apriamo un breve inciso per dire che il concetto di praxis in Gramsci supera se stesso, come ben osservò Kosik: in effetti, dalla prima identificazione della prassi come oggettivazione del soggettivo, il lavoro in tal senso, Gramsci parla della prassi come azione politica, azione sovrastrutturale ed intellettuale, tendendo a farla diventare ciò che formulò il filosofo cecoslovacco sovra citato, unione di coscienza pura e pratica, momento critico e momento pratico.
La prassi diviene funzione veritativa poiché, nell’attualizzazione racchiusa nel suo essere trasformativa, si restituisce alla filosofia la sua posizione all’interno del marxismo stesso nella sua più profonda questione: cos’è la verità?
È generazione dell’uomo, una generazione che vede sempre al futuro: secondo Gramsci, all’interno del processo che caratterizza la società, la sintesi non deve essere intesa in quanto assoluta, come nella dialettica hegeliana, ma in quanto sintesi delle contraddizioni di partenza, che può essere a sua volta soggetta ad un’altra antitesi, generando un susseguirsi irriducibile di contraddizioni. L’uomo è spinto naturalmente a cercare di risolverle in una sintesi che non ne implichi altre; è proprio per questo motivo che agisce con l’intento di superarle. Tuttavia, l’unico risultato che ottiene è quello di superare le contraddizioni iniziali, generandone di nuove. La “prassi” gramsciana sfugge, in questo modo, all’ottica di una dialettica totalitaria, in cui da una contraddizione di partenza si genera una sintesi che la risolve completamente. Qua sta il dissidio tra Gramsci e Pasolini, per cui le Ceneri del primo sono le ceneri dell’ottimismo teleologico marxiano a fronte dell’impossibilità di risolvere l’essere con il divenire e viceversa. In realtà, l’interpretazione che da Pasolini di Gramsci è estremamente inficiata dalla dottrina di partito, ben conscia di utilizzare quel robot di Benjamin che batte tutti a scacchi, chiamato marxismo ma animato da un nano orribile: il messianesimo teologico.
La rivoluzione non porterà alla risoluzione di quei conflitti irriducibili che sono intrinsechi della natura umana: le lotte interne all’essere umano, la sua dimensione esistenziale e mai completamente realizzata, ci sarà sempre, ma è proprio compito del marxismo pensare alla sua liberazione dalla razionalizzazione capitalistica.
In effetti, tale dimensione umanistica ha basi nel cambiamento assiologico del punto di vista di De Sanctis in merito agli abissi nell’essere umano (il regresso da negativo a positivo) e sugli studi di Ernesto De Martino, per cui il dramma esistenziale non cambierà mai: il divenire non si risolve completamente nell’essere e l’essere, come vorrebbe una lunga tradizione marxista da Engels a Marcuse esulando Marx in un piano nettamente più realista, non si risolve completamente nel divenire, così come l’irrazionale (leggasi virtuale, leggasi folle) non si risolverà mai nel razionale e viceversa. Il razionale è asintotico.
Da questa concezione della praxis, si può comprendere la critica che Pasolini, intellettuale gramsciano, fa ad Eugenio Montale. Nel 1971, Montale pubblica una raccolta poetica intitolata “Satura”, che Pasolini critica aspramente. All’interno delle sue poesie, Montale sostiene che all’uomo, ormai imprigionato dalle catene del totalitarismo capitalistico, non rimanga altro da fare che rassegnarsi e subire. Secondo il poeta, infatti, se non c’è più alcuna speranza, tanto da giungere a conclusioni più radicali dell’ultimo Horkheimer, per cui l’unico tipo di azione che può essere ammessa è la critica delle contraddizioni insite nella società.
Pasolini si appella con grande veemenza a questa visione, sostenendo che, per quanto non solo non ci sia la possibilità di giungere ad una sintesi totalizzante, ma non si abbia possibilità di assurgere gramscianamente all’egemonia della superstruttura per una prassi trasformativa, comunque si deve continuare a lottare. Per Pasolini, tale lotta ha una finalità di carattere conservativo, in quanto fondamentale per difendere la spontaneità irriducibile del mondo operaio, dalla quale è attratto. Secondo questo intellettuale gramsciano, quindi, l’uomo si deve criticare la società per prendere consapevolezza e coscienza delle contraddizioni che presenta, ma deve anche continuare a lottare per evitarne un possibile peggioramento.
Altro elemento utile per comprendere la posizione di Pasolini riguardo all’affermazione di una dialettica aperta e non iconico-mitologica è dato dalla sezione VIII del poemetto Picasso, pubblicato dall’autore nel 1953 su Botteghe oscure e presente in Le ceneri di Gramsci:
«Poi ecco, colmo, l’errore di Picasso:
esposto sopra le grandi superfici
che ne spalancano in pareti la bassa,
fittile idea, il puro capriccio,<
arioso, di gigantesca e grassa
espressività. Egli – tra i nemici
della classe che specchia, il più crudele,
fin che restavi dentro il tempo d’essa
– nemico per furore e per babelica
anarchia, carie necessaria – esce
tra il popolo e dà in un tempo inesistente:
finto coi mezzi della vecchia stessa
sua fantasia. Ah, non è nel sentimento
del popolo questa sua spietata Pace,
quest’idillio di bianchi uranghi. Assente
è da qui il popolo: il cui brusio tace
in queste tele, in queste sale, quanto
fuori esplode felice per le placide
strade festive, in un comune canto
ch’empie rioni e cieli, borghi e valli,
lungo l’Italia, fino all’Alpi, spanto
per declivi falciati e gialli
frumenti – nei paesi della smarrita
Europa – dove ripete i balli
e i cori antichi nell’antica
aria domenicale. Ed è, là l’errore,
in questa assenza. La via dell’uscita
verso l’eterno non è in quest’amore
voluto e prematuro. Nel restare
dentro l’inferno con marmorea
volontà di capirlo, è da cercare
la salvezza. Una società
designata a perdersi è fatale
che si perda: una persona mai.»
Pasolini scrive questo poemetto in seguito alla visione di alcuni quadri, rappresentanti la figura del militante liberato, in occasione di una mostra su Pablo Picasso (ritenuto un artista rappresentativo del pensiero marxista) presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Pasolini si esprime contrariamente a questa raffigurazione in quanto critica l’assenza del “brusio” tipico del popolo e poiché, secondo lui, la liberazione non è virtualizzabile – perché la stessa immaginazione programmatica della liberazione (in quanto visione anticipata del “Sole dell’Avvenire”) darebbe un carattere teologico al pensiero marxista.
Parte II e ultima,
Atene, 20 ottobre 2018
Udine, 19 novembre 2018
Note
- I. All’idea che esistono una storia e un tempo unitario che possiede una propria logica di sviluppo grazie alla quale tutti gli eventi acquistano il proprio significato, Gramsci sostituisce il primato dello spazio e delle differenze materiali.
- L. Nella sua produzione scritta, Marx usa i termini astratto e concreto riferendosi alla loro relazione in almeno tre modi:
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- Concreto = materia; astratto = spiriti: con il termine “concreto” si indicano gli oggetti materiali, fisici, la sensorialità bruta, contrapposta alla fantasticheria, al sogno, agli “spiriti”. L’astrazione inanimata dell’individuo della società civile (l’atomizzazione nella produzione, l’oblio al riconoscimento, il lavoro genericamente astratto) lo porta a farlo a diventare un atomo.
«La filosofia hegeliana ha trasformato tutto in idee, nella santità, in spettro, in spirito, in fantasmi [p. 178]… Hegel, per il quale il mondo moderno si era ugualmente risolto nel mondo delle idee astratte…[p. 187]»
F. Engels, K. Marx; L’ideologia tedesca, Opere complete, V, Editori riuniti, Roma 1992, p 178-187
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- Concreto = singolare; astratto = universale: la contrapposizione tra “il concreto”, ad esempio una singola vespa e “l’astratto”, l’idea universale di vespa. Questa contrapposizione è tipica della cultura logocentrica: gli stessi studi sociologici di Feyerabend sull’assenza di astratto come universale in alcune culture, come quella degli Inuit o delle etnie del Canada del Nord, che per identificare un animale, dicasi “l’alce” o “l’orso”, hanno una sterminata gamma di vocaboli ma non un termine che possa determinare la generalizzazione assoluta, se non l’astrazione di piccoli gruppi interni ad una specie.
«Se io, dalle mele, pere, fragole, mandorle, reali, mi formo la rappresentazione generale “frutto”, se vado oltre e immagino che “il frutto”, la mia rappresentazione astratta, ricavata dalle frutta reali, sia un’essenza esistente fuori di me, sia anzi l’essenza vera della pera, della mela, ecc., io dichiaro – con espressione speculativa – che “il frutto” è la “sostanza” della pera, della mela, della mandorla ecc. […] Io dichiaro allora, che mela, pera, mandorla, ecc. sono semplici modi di esistenza, modi “del frutto”. Il mio intelletto finito, sorretto dai sensi, distingue certamente una mela da una pera e una pera da una mandorla, ma la mia ragione speculativa dichiara questa diversità sensibile inessenziale e indifferente. Essa vede nella mela la stessa cosa che nella pera, e nella pera la stessa cosa che nella mandorla, cioè “il frutto”. Le particolari frutta reali non valgono più che come frutta parventi»
Marx, La Sacra Famiglia, ed. Rinascita, 1954
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- Concreto = connesso; astratto = staccato: È il significato più corrente, che fonda la categoria di totalità come concreto e particellazione come astratto.
Si ringrazia il professor Paolo Desogus per il seminario intitolato al rapporto tra Gramsci e Pasolini. Inoltre, si ringraziano Giulia Beltrame, Alice Castenetto e Giovanni Vecil per la fruttuosa collaborazione.
Postfazione
Questa tesi vuole raccogliere la possibilità di interpretare il processo storico-dialettico come gioco di potenze nella realizzazione dello storicamente soggettivo cercando di forzare la concezione di necessità storica “ipotetica” riscontrabile in Gramsci. Tale concezione introduce puramente un ambito di tipo speculativo che vuole rimanere contingente alle tesi vera e propria preferendo non inficiare il corpo dello stesso scritto nel caso questa possa essere, dopo una più completa revisione, considerata troppo audace. Per Aristotele potenza è δύναμις, che fa eco al divenire (che si dovrebbe tradurre appositamente in essente-in-potenza, dynamein on) ovvero capacità, capacità facoltativa, il che presuppone un aspetto di contingenza nelle possibilità di formazione di un possibile ente. Per Aristotele potenza è quindi possibilità quale base del rapporto tra enérgheia (l’attività) ed enteléchia.
Dal vocabolario tedesco si può rinvenire una differenziazione sottile, che è la medesima che cercò di usare Spinoza. In tedesco ci sono almeno quattro tipi di definizione della potenza così tradotta in Italiano. I primi due si identificano nel potere come potestà: sono Macht (potestà, forza) e Gewalt (potere violento). Poi ci sono gli altri due termini: Vermogen e Trieb. Il primo ha un significato ambivalente, spesso corrisposto alla potenza aristotelica come “possibilità” ma anche identificato con il secondo a seguire. Trieb è la vera rivoluzione che venne compresa a priori da Spinoza e dal Marx della Sacra Famiglia, per poi essere un vocabolo estremamente apprezzato negli studi spinoziani del dopoguerra. Trieb è potenza come impulso, atto, produzione, materia, processualità.
Ora ci inoltriamo nel pieno della nostra elaborazione speculativa, che vuole aprire alla discussione piuttosto che instaurare un circuito di referenzialità verso l’autore: premettiamo una piccola digressione di carattere filologico. Gramsci cita Spinoza solamente in un’occasione nei Quaderni, in cui il primo individua nel secondo una certa influenza nella composizione da parte di Marx dell’immanentismo storico pur non essendone parte essenziale, bensì solo compositiva. D’altra parte però R. Bordoli nel suo interessante Vitae Meditatio, Gramsci e Spinoza a confronto riesce bene ad identificare come:
«I presupposti dell’immanentismo assoluto sono pienamente conformi ad una teoria della libertà come liberazione, mentre non consentono la formulazione di una teoria della libertà come libertà d’indifferenza o facoltà della natura umana concepita al di fuori del suo sviluppo storico-concreto, né, d’altronde, permettono di escluderla sic et simpliciter dall’orizzonte etico-politico: come Spinoza respinge lo spiritualismo morale cartesiano ed il materialismo volgare di Hobbes, così Gramsci non accetta né l’idealismo crociano né il marxismo meccanicistico di Bucharin. Essi vedono sia dietro la difesa della libertà in interiore homine sia dietro i fautori dell’eterodeterminazione assoluta delle azioni umane, non tanto un errore teorico quanto l’obiettiva tendenza ad occultare la necessità della liberazione collettiva hic et nunc, ad ostacolare piuttosto che a favorire il parto del novum»
Bordoli, Vitae Meditatio, Gramsci e Spinoza a confronto, p.59
Per novum ovviamente si intendono i termini di passaggio dal regno delle necessità al regno delle libertà, l’identità asintotica tra Sollen und Mussen (dovere naturale e dovere giuridico), tra uomo e natura (natura umanizzata e uomo naturalizzato). Ricordiamo la citazione:
«[Il comunismo è] la vera risoluzione dell’antagonismo fra esistenza ed essenza, tra oggettivazione e autoaffermazione, tra libertà e necessità, tra l’individuo e la specie»
K.Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi cit., p.111.
Ciò può avere l’ardire di tornare a quella undicesima tesi su Feuerbach e riprenderne un carattere sopito: essa può essere letta non come una matrice di cambiamento delle fattezze ontologiche del reale, quale spesso viene presentata, quanto una ripresa pratica del reale stesso come totale in cui la prassi umana si inscrive, totalmente avverso ad un certo giustificazionismo statico-speculativo tipico dei filosofi che hanno solamente descritto il mondo senza dar conto delle relazioni di potere a priori della costruzione di tali descrizioni.
In effetti concetti marxiani come quello di astrazione reale, così come la precisa critica alla scienza del pensatore di Treviri per cui, anticipando il teorema delle forme di vita, esprime come
«Ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero immediatamente»
Marx, Il Capitale, Libro III, cit., p. 1008
«[Qui si mostrerà dove origina] il modo di vedere le cose dei borghesucci e degli economisti volgari, e cioè dal fatto che nei loro cervelli sempre soltanto si riflette la immediata forma di manifestazione dei rapporti, e non nella loro intima correlazione. Del resto, se così fosse, che ragione ci sarebbe poi di una scienza?»
Marx, Il Capitale, Libro I, cit., p. 438
«Rimproverando a Ricardo, e più ancora agli economisti volgari, di fermarsi alla superficie illusoria delle cose e di pretendere di dare “la scienza prima della scienza”, Marx li accusa di ignorare il lavoro della conoscenza come produzione. L’accesso alla “connessione intima” passa per la decostruzione delle apparenze e la conoscenza partecipa del reale attraverso un processo di “graduale differenziazione”».
Bensaïd, Marx, istruzioni per l’uso, p.173
L’ambito pratico della teoresi marxiana sancisce al suo epicentro la lotta per la verità, che è una lotta politica nei confronti della potenza del capitalismo, intesa sia come dispiegamento strutturale sia come potestà che lo convalida con la forza (bruta o direzionale). In tale ambito si può ritrovare nel processo produttivo come conoscenza l’elemento del potere simboleggiato dai rapporti che devono essere appianati e l’elemento della potenza come produzione veritativa, lavoro quale atto veritativo. E da ciò si distanzia dalla concezione aristotelica di potenza come possibilità.
La grande differenza tra una potenza, quella aristotelica, e l’altra, quella “spinoziana-bergsoniana” e anche marxiana (a priori delle speculazioni di Bloch sul tema) può stare proprio nella domanda di Deleuze: Cosa può un corpo?
Egli non si interroga sulle possibilità di un corpo (che per l’uomo in virtù della sua limitatezza conoscitiva – per rettorica direbbe Michelstaedter – sono possibilità, mondi contingenti, modi d’essere, per invece la natura sono connessioni), bensì si interroga su ciò che può fare un corpo in virtù della sua posizione in una rete di relazioni informative che lui deve chiarire ma in cui il corpo è immerso. Egli praticamente parla di un virtuale non ancora conosciuto che però non è ontologicamente possibilità. La contingenza, la possibilità, sono distorsioni conoscitive senza alcuna valenza ontologica delle dinamiche di sistema. Ora non esisterà più una potenza opposta all’atto, una materia opposta alla forma, ma esisteranno un virtuale opposto ad un attuale nello studio di una potenza continuativa che è la natura naturans, l’atto puro come dinamica di reiterazione naturale.
La potenza “negante” in tal caso è l’affermazione di quel novum che riesce a generare più realtà al netto delle contraddizioni tra totale ed astratto reale, è una costruzione veritativa basata su una forma di vita che possa renderla più esaustiva e coerente nei confronti del reale. Ovviamente questo discorso deve essere costruito in campo epistemologico, in particolare nei confronti di coloro che pensarono ad un confronto oggettivo tra teorie scientifiche (come Popper che, con la teoria dei gradi di corroborazione, incappa nel problema logico evidenziato da Tichy e Miller, oppure Lakatos che porta una teoria del grado di coerenza tra due programmi di ricerca) astraendo queste dal proprio retroterra storico e dalle proprie relazioni theory-laden, ma questo è un campo che volentieri lasciamo aperto per eventuali integrazioni sul tema.
Bologna, 8 agosto 2020
Bibliografia della II parte
- Pier Paolo Pasolini. Vie Nuove n. 36, 6 settembre 1962)
- Pier Paolo Pasolini, L’omologazione del nuovo fascismo, Teche Rai, 1974
- Pier Paolo Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, Scritti Corsari, Corriere della Sera, 1974
- Pier Paolo Pasolini, Il PCI ai giovani!, Nuovi Argomenti, 1968
- Pier Paolo Pasolini, Le Ceneri di Gramsci, Garzanti Libri, 2014
- Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, 140
- Friedrich Engels, Karl Marx; L’ideologia tedesca ,Opere complete V, Editori riuniti, Roma 1992, p 178-187
- Karl Marx, La Sacra Famiglia, Rinascita, 1954