Socialismo riformista e Comunismo rivoluzionario

— Sigma

Nella lettera del 5 marzo 1852 a Weydemeyer, Marx scrive:

Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato:

  1. dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione;
  2. che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato;
  3. che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi.»

Ad essere di nostro interesse in questa sede sono il preambolo e il punto 2; Marx sostiene di non essere lui lo scopritore dell’esistenza delle classi e della loro lotta, ma di essere il dimostratore della necessità della dittatura del proletariato come esito di questa lotta.

Molti riconoscono l’esistenza della lotta di classe, a destra e a sinistra (tralasciando coloro che la dissimulano e sostengono invece l’esistenza della lotta tra razze, tra «ricchi e poveri», ecc.), anche se con esiti diversi, dato che vi sono coloro che sono dalla parte della borghesia in tale lotta, volendo mantenere lo «stato di cose esistente», altri invece ritengono che la lotta di classe sia una situazione senza sbocco, che continuerà all’infinito (a ciò rispondono tutti e tre i punti!), altri ancora che la lotta di classe ha sì come sbocco la società senza classi, però il mezzo per ottenerla è la riforma piuttosto che la rivoluzione.

A questa terza categoria, voglio rivolgere una breve considerazione: come la borghesia potrebbe permettere una cosa del genere? Come sarebbe possibile oggettivamente riconfigurare i rapporti di produzione della società tramite delle riforme? A tal riguardo, la prospettiva riformista è utopica, ma non nel senso di progetto di qualcosa che non c’è, quanto nel senso di progetto che non può venire ad essere: la borghesia beve il sangue del proletariato ogni giorno, con il lavoro, la guerra, il silenzio, le divisioni che fomenta costantemente nel suo seno, le menzogne che propugna come nostre. Il 1848 ha conosciuto la prima reazione borghese ai sommovimenti del proletariato rivoluzionario, seppur ancora non organizzato e non cosciente completamente delle leggi che governano la società; il 1871 l’eccidio congiunto della Comune di Parigi da parte degli «acerrimi nemici» Francia e Prussia, mostrando come la lotta di classe sia transnazionale, e che la borghesia (come all’epoca della Rivoluzione Francese le potenze assolutiste) collabora internazionalmente per distruggere i germi del nuovo che essa stessa contribuisce a piantare; con le reazioni dal 1917 al 1922, tra la guerra civile in Russia, i fratricidi dei comunisti da parte dei «compagni» socialdemocratici, in cui l’SPD e il PSI dicevano di «porgere l’altra guancia» (vedasi l’articolo di Turati del 4 Maggio 1921 sull’Avanti) alla cruenta violenza fascista, che ovunque stava bastonando se non sparando alle organizzazioni del proletariato.

Marx, nei Quaderni sulla filosofia epicurea del 1839, scrisse che «In momenti come questi i mediocri pensano esattamente il contrario dei grandi condottieri. Credono di rimediare il danno diminuendo le forze in campo, frazionandole, cercando un compromesso con le necessità reali; viceversa Temistocle, allorché Atene corse il rischio di essere distrutta, spinse gli Ateniesi ad abbandonarla e a fondare sul mare, su un elemento nuovo, una nuova Atene», critica che rivolse poi anche agli anarchici nel corso dei sommovimenti negli anni ’60 e ’70 del XIX secolo. Per il proletariato vi è solo vittoria o sconfitta, e se la vittoria può essere il momento glorioso che sorge dalle ceneri e dalle braci della rovina e della lotta, la sconfitta è «scritta con caratteri di sangue e fuoco» nella storia di una classe che cerca l’emancipazione. Disperdere le forze, o lasciare potenziale inutilizzato, per la classe può significare solo sconfitta, perché se la borghesia possiede i missili, le mitragliatrici, i media, i manganelli e le prigioni, mentre noi possediamo solo la nostra forza lavoro, e quindi ogni strumento ci permette di puntellare e rinsaldare lo spazio che la classe guadagna a scapito della borghesia.

Coloro che la promettono tramite la via riformista non tengono conto di come la classe che detiene i mezzi di produzione non li mollerà senza passare sul suo cadavere, come avviene fin da quando gli schiavi in rivolta guidati da Spartaco, sconfitti, vennero crocefissi lungo l’intera via Appia come punizione e ammonimento. La lotta di classe porta necessariamente alla dittatura del proletariato per porre fine a sé stessa, per chiudere «la preistoria della società umana» e aprire le porte a ciò che ci aspetta.

E no, la borghesia di oggi non è «illuminata», la lotta di classe e il sopruso non sono finiti, perché oggi come ieri nella pandemia è stato il proletariato a pagare la crisi con la salute, senza protezioni, con la perdita del posto di lavoro, con le spedizioni al fronte per conto di altri, con l’agonia mentre la politica borghese si rimesta in giochi che il proletariato ormai guarda insofferente, pur subendone le conseguenze. L’unica via d’uscita è la dittatura del proletariato, ottenuta con la forza e non con la benevolenza della borghesia. Coloro che promettono una soluzione pacifica confidano nella pace, come se la classe dominante decidesse di rinnegare la sua guerra totale, da un lato civile perché combattuta contro il proletariato e frazioni borghesi locali, dall’altro mondiale contro altre borghesie, quindi confidando sul rinnegamento di sé stessa e della natura violenta del suo dominio; la possibile diserzione di qualche borghese a favore della causa del proletariato non è un fattore su cui fondare la strategia di emancipazione della classe. Da tali posizioni non può venire nessuna soluzione, quindi nemmeno la pace perché la lotta di classe continuerà ad esistere e a mietere vite finché le classi stesse continueranno ad esistere.

Piuttosto che disperdere le forze, uniamole, imbracciamo ogni arma che possediamo, con la propaganda, la denuncia, la conoscenza delle masse e lo stretto legame con le loro preoccupazioni, organizzando il dissenso allo scopo della rivoluzione proletaria. L’uscita dall’oggi non avverrà tramite lo Stato, perlomeno quello borghese, e lo Stato borghese non potrà essere «ripulito» dai tutti i «resti dei tempi passati» senza una «Grande Scopa», come quella della «Rivoluzione Francese del secolo decimottavo» (v. la Guerra Civile in Francia, III). La fine della società borghese può finire soltanto con la fine della proprietà privata, dei rapporti di produzione e di possesso attuali, realizzabili solo tramite l’espropriazione, l’occupazione, «sbarazzarsi dell’esercito permanente e della polizia, elementi della forza materiale del vecchio governo» e della «forza della repressione spirituale», ieri nella Chiesa e oggi in essa, nei media e in tutto ciò che il mondo di oggi ci offre agli occhi.

Tra comunismo o barbarie, scegliamo il comunismo. Tra la riforma o la rivoluzione, scegliamo la rivoluzione.

 

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