Mark Fisher: la politica contro il realismo capitalista

Realismo capitalista: un’analisi politica

Mark Fisher descrive il realismo capitalista come quella sensazione che porta molti a convincersi non solo che il capitalismo sia il migliore dei mondi possibili ma perfino l’unico a cui possiamo pensare. La sua forza deriva dal modo in cui sussume e consuma la storia pregressa.

Il realismo capitalista non è un tipo di realismo ma il realismo in sé e per sé. Quando ogni ideale è collassato in elaborazione simbolica o rituale non resta che il realismo capitalista. Esso si erge come uno scudo davanti ogni ideale e credenza. In questo modo abbassa le nostre aspettative in cambio della sua protezione dai totalitarismi ma innesca un meccanismo simile a quello proprio della depressione. In poche parole, ogni speranza o stato positivo è trattato come un’illusione pericolosa. Il concetto di realismo capitalista deve molto agli studi sulla cultura postmoderna di Fredric Jameson che hanno come elemento centrale il fallimento del futuro. Questo concetto sviluppato da Mark Fisher prende atto degli aggravamenti e della cronicizzazione dei processi analizzati da Jameson già negli anni ’80. Inoltre si tratta di una risposta alla sconfitta del movimento operaio occidentale consumatosi negli stessi anni, in particolare quello del paese di Fisher, cioè quello inglese, e al collasso dell’unica alternativa esistete allora al capitalismo, ovvero il socialismo reale dell’Europa Orientale.

Ormai non esiste alcunché fuori dal capitalismo che di conseguenza occupa l’intero orizzonte del possibile per intere generazione, finendo per sedimentarsi anche nel nostro inconscio e colonizzare i nostri sogni.

Riprendendo alcune analisi di Slavoj Žižek, Fisher afferma che il realismo capitalista riesce a tollerare anche una dose di anticapitalismo, questo vale in particolare per alcuni prodotti dell’industria culturale come i film, che assume una forma puramente gestuale e funzionale al suo rafforzamento. Viene messo in scena l’anticapitalismo al posto nostro, garantendoci allo stesso tempo di continuare a consumare e celando “il fatto che le operazioni del Capitale non dipendono da alcuna convinzione soggettivamente imposta”1. L’ideologia nel capitalismo ci porta alla sopravvalutazione del credo in quanto atteggiamento interiore soggettivo mentre all’esterno continuiamo a partecipare agli scambi capitalisti. L’anticapitalismo autentico è difficile da distinguere perché spesso concede troppo al realismo capitalista con i tentativi di mitigazione del capitalismo e le sue difficoltà nel proporre una vera alternativa.

Mark Fisher

Il realismo capitalista quindi, oltre a condizionare il clima culturale, il nostro modo di pensare e perfino le nostre rivolte, sembra privo di fratture e strappi. Come possiamo affrontarlo?

Non possiamo proporre una semplice critica morale del capitalismo perché si corre il rischio di passare per dei semplici utopisti. Bisogna dimostrare la sua inconsistenza mostrando come il realismo capitalista non è realista. Ciò che viene considerato realismo è in realtà frutto di scelte politiche ben precise. Esse vengono naturalizzate e considerate valide indipendentemente da ogni possibile ragionamento logico atto a dimostrarne l’insensatezza. Questo spiega come mai il neoliberismo sia riuscito a far accettare come qualcosa di ovvio una gestione aziendalistica di interi pezzi del welfare state, pensiamo alla sanità e alla scuola. Ogni processo rivoluzionario dovrebbe puntare alla distruzione di questo ordine apparentemente naturale e dimostrare che ciò che oggi pensiamo sia impossibile è in realtà a portata di mano. A questo punto del ragionamento Fisher, usando gli strumento della psicanalisi lacaniana rimessa in circolazione da Žižek, distingue la realtà e il reale. La realtà si costituisce sopprimendo il reale che per l’autore è una X non rappresentabile e può essere intravisto nelle spaccature della realtà. La sfida al realismo capitalista può partire dall’evocazione dei reali che “sottendono la realtà per come il capitalismo ce la presenta”2.

L’applicazione concreata di questi ragionamenti è la catastrofe ambientale che il realismo capitalista trasforma in un problema risolvibile dal mercato mentre viviamo in un mondo con risorse finite in cui è impossibile crescere all’infinito. La crisi ecologica dimostra come il capitalismo è contrario ad ogni nozione di sostenibilità. Si tratta di un argomento che già in questo momento mobilita masse di militanti diversamente da altri che non sono ancora, per Fisher, una terra di contesa definita. Pensiamo alla salute mentale che il capitalismo tratta come un fatto naturale mentre l’autore spinge per una sua politicizzazione, specialmente per quanto riguarda problematiche ormai molto comuni come la depressione. Utilizzando le analisi di Oliver James sulla correlazione tra sofferenza mentale e neoliberismo, si domanda come sia possibile che la nostra società si sia abituata a tollerare una proliferazione così ampia di una simile malattia, soprattutto tra i giovani. La risposta che fornisce Mark Fisher è molto dura: si tratta del prezzo che dobbiamo pagare per dimostrare come il capitalismo sia l’unico sistema funzionante.

Un altro elemento che Fisher lungamente critica nel libro Realismo capitalista è la burocrazia. Lungi dall’essere un retaggio dello stalinismo, nel neoliberismo si sviluppa e prolifera finendo per accompagnare la vita di tutti i lavoratori del tardo capitalismo. Questo è in evidente contraddizione con l’immagine antiburocratica che vuole dare di sé il neoliberismo. Ad espandersi è una burocrazia fatta di target, obiettivi, mission e risultati, specialmente nel mondo dell’istruzione in cui l’autore era impiegato, che risulta essere una sorta di ironico ritorno del represso che si piazza al centro del sistema che lo voleva spazzare via. La spiegazione di queste trasformazioni risiede nei nuovi modi di produrre del postfordismo che da un lato appiattiscono le gerarchie e dall’altro aumentano le possibilità di controllo, pensiamo all’utilizzo delle TIC, dei lavoratori.

Sia le malattie mentali che la burocrazia sono fenomeni che Mark Fisher incontra lavorando nei further education college. Qui entra in contatto con gli studenti inglesi e si domanda: come mai gli studenti non si ribellano alle politiche neoliberiste di cui sono vittime? La risposta che trova è legata all’impotenza riflessiva. Gli studenti non si ribellano perché non possono cambiare la situazione orribile prodotta dal neoliberismo ma si tratta di una presa d’atto priva di fondamento poiché è la classica profezia che si autoavvera. Molti di questi adolescenti soffrono anche di depressione e/o problemi di apprendimento. L’autore pensa sia sbagliato ridurli a semplici problemi neurologici o squilibri chimici perché significa escludere una causa sociale sistemica. Fisher descrive gli studenti con cui ha lavorato come persone affette da edonia depressa. Mentre i depressi si trovano in uno stato di anedonia, i ragazzi in questa condizione non sono capaci di inseguire altro che il piacere. Sentono la mancanza di qualcosa ma non può che essere appagata oltre il principio del piacere. Tutto ciò deriva dalla situazione contradittoria in cui gli studenti si trovano. Da un lato sono forza lavoro in formazione ma dall’altro sono ormai dei consumatori di servizi.

Sul piano politico Fisher osserva che lo schieramento a sinistra si divide tra “comunisti liberali” e immobilisti. I primi sono rappresentati da filantropi come George Soros che uniscono al profitto la retorica dei diritti umani, dell’impegno per la transizione ecologica e per una maggiore postmodernizzazione del lavoro, cioè spingere sulle dinamiche di trasformazione proprie del postfordismo. I sostenitori dell’immobilismo sono invece i nostalgici del passato, coloro che sognano la restaurazione di quel compromesso tra capitale e lavoro, tipico del fordismo, andato per sempre in frantumi. Questi due schieramenti sono figli delle circoscrizioni imposte dal realismo capitalismo e per la sinistra sono solo controproducenti. In particolare Fisher attacca coloro che vogliono intestarsi battaglie per tornare nel passato, prima del capitalismo postfordista. Bisogna, invece, riappropriarsi del nuovo ma questo non significa la sua passiva accettazione bensì lo smascheramento delle false promesse del neoliberismo, dimostrando che si tratta di una restaurazione del puro dominio di classe sui subalterni.

L’immobilismo non può funzionare dove il neoliberismo si è già imposto e il fordismo è crollato e conviene ricordare ai novelli socialdemocratici sovranisti che il suo collasso è stato determinato anche dalle lotte operaie degli anni ’60 e ’70 che non ne volevano più sapere di lavorare tutta una vita nella stessa fabbrica, con la sua organizzazione produttiva rigida in cui gli unici spazi di socializzazione tra colleghi erano i pochi momenti di pausa o durante le lotte. Il capitale ha metabolizzato questi desideri di cambiamento e in questo modo ha messo all’angolo le istituzioni partitiche e sindacali classiche del movimento operaio che si sono dimostrate incapaci di rispondere a partire dal nuovo terreno determinato dalla risposta del capitale alla lotta di classe.

Nel frattempo il conflitto non è più vissuto come esterno, tra i blocchi sociali, ma come interno, al livello della psicologia del lavoratore nonostante resti oggettivamente incastrato nel vecchio conflitto di classe che non è ovviamente scomparso. Appoggiandosi alle analisi di Christian Marazzi Fisher afferma che “sotto il postfordismo
i lavoratori assomigliano agli ebrei che nel Vecchio Testamento lasciano la «casa di schiavitù»: liberi da una prigionia verso la quale non provano nostalgia alcuna, ma anche abbandonati, persi nel deserto, confusi sul da farsi”3.

Questo conflitto genera nei lavoratori problemi psichici come disturbi bipolari ma ad averli è lo stesso capitalismo che nel postfordismo alterna cicli di espansione e crisi simili alle oscillazioni tra eccitazione incontrollata e crolli depressivi. Il capitalismo ha da sempre plasmato e riprodotto gli umori della popolazione e questa fase rappresenta il picco di questa capacità. Per questo è di fondamentale importanza politicizzare le malattie psichiche. Tutte queste patologie possono essere descritte come un fatto neurologico. Ad esempio la depressione è associata ad un basso livello di serotonina. Quello che andrebbe spiegato politicamente è perché alcune persone hanno un basso livello di serotonina.

Alla fine del libro Mark Fisher fornisce alcune indicazioni politiche molto interessanti sul futuro della sinistra. La nostra parte politica non dovrebbe avere l’ambizione di costruire uno Stato che provvede a tutto ma neanche abbandonarlo. L’obiettivo è la sua sottomissione ad una volontà generale da ricostruire a partire da uno spazio pubblico ricomposto da una situazione critica generata dal neoliberismo, dove questo spazio è solo una somma di individui soli e con i propri interessi distinti.

La sfida viene lanciata ad un capitale ormai ontologicamente e geograficamente ubiquo che dobbiamo affrontare contrastando l’ideologia della fine delle grandi narrazioni. Occorre anche tenere in considerazione che neoliberismo e realismo capitalista non sono la stessa cosa. La crisi economica del 2007-2008 ha messo in crisi tanti argomenti ideologici del neoliberismo che nel senso comune è erroneamente associato al ritorno dello Stato minimo. I salvataggi con i soldi pubblici delle banche “troppo grandi per fallire” e le iniezioni di denaro per salvare il capitalismo hanno irreparabilmente spazzato via queste balle ideologiche e con ancora più forza è intervenuta la gestione della pandemia che Fisher non ha potuto vedere a causa del suicidio che ci ha privati per sempre di questo prezioso compagno. Il realismo capitalista può fare a meno del neoliberismo e convertirsi sia ad un nuovo modello socialdemocratico che a forme più autoritarie di gestione del potere. Senza un’alternativa continuerà a dominare l’inconscio politico-economico. L’attaccamento della sinistra a modelli e dibattiti del passato non aiutano nella ricerca di una soluzione perché sono solo un ostacolo all’organizzazione politica del presente. Il fallimento di modelli anticapitalisti nel passato non deve gettarci nella disperazione. Le nostre azioni, inoltre, non devono essere una reazione al capitale ma sono a tutti gli effetti parte integrante della costruzione di un rivale capace di sfidarlo al suo stesso livello che oggi significa accettare la globalizzazione come terreno di lotta principale. La base di partenza per fare tutto ciò sono i desideri post-sessantotto che sono stati assorbiti dal capitalismo nel neoliberismo ma che non possono essere soddisfatti da questo modo di produzione. Per esempio la richiesta di una vera autonomia del lavoratore in fabbrica o una riduzione del peso della burocrazia sulle nostre vite. Per fare tutto ciò abbiamo bisogno di un nuovo soggetto politico e un ripensamento radicale delle vecchie strutture del movimento operaio, come i sindacati. Senza una simile riflessione, ad esempio, è impensabile ripensare un’arma fondamentale per i lavoratori come lo sciopero.

“Contro il managerialismo abbiamo bisogno di nuove forme di lotta e di protesta. Insegnanti e docenti dovrebbero ad esempio ripensare tattiche come gli scioperi o il blocco degli scrutini quando il loro unico risultato è danneggiare gli studenti: nel college in cui insegnavo, quando si trovavano davanti a uno sciopero i dirigenti erano contenti, perché risparmiavano sulle retribuzioni mentre i disagi per il college restavano trascurabili. Piuttosto, quello di cui abbiamo bisogno è una ritirata strategica da quelle mansioni che colpiscono innanzitutto manager e dirigenti, a cominciare da quegli ingranaggi di autosorveglianza che non hanno alcun impatto sull’offerta educativa, ma senza i quali il managerialismo non potrebbe esistere. Al posto delle manifestazioni simboliche e spettacolari su cause pur nobilissime come quella palestinese, è tempo che i sindacati degli insegnanti mettano in scena proteste ben più immanenti e che colgano l’opportunità data dalla crisi di liberare i servizi pubblici dall’ontologia aziendale: se nemmeno le aziende riescono a essere gestite come aziende, perché mai dovrebbero farlo i pubblici servizi?”4

Qualcosa di simile deve essere fatto anche per la salute mentale, trasformando la medicalizzazione in antagonismo contro il capitale.

“La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un’opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre effetti sproporzionatamente grandi. L’evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l’orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile”5.

Brevi appunti sul Comunismo acido

Il concetto di comunismo acido compare in un’introduzione incompiuta del 2016 per un progetto di un nuovo libro. In questo testo Mark Fisher ci invita a guardare con attenzione cosa il capitale tenta costantemente di ostacolare invece di cercare il modo per sconfiggerlo. Il capitale, infatti, non tollera la nostra capacità di produrre, prenderci cura di cose, persone e di godere collettivamente. Il modo in cui vengono organizzate la produzione e la repressione hanno come scopo ultimo impedire l’affermazione dell’Abbondanza Rossa frutto della nostra capacità di produrre ricchezza in comune. Il principale agente utilizzato per raggiungere questo obiettivo è il neoliberismo che per Fisher venne ideato non per abbattere il logoro compromesso tra capitale e lavoro delle socialdemocrazie o il decadente modello del socialismo reale sovietico bensì quelle forme di comunismo libertario e socialismo democratico che stavano emergendo nel mondo tra gli anni ’60 e ’70. L’esempio che Fisher porta a sostegno di questa tesi è il modo brutale con cui il governo socialista di Allende in Cile venne brutalmente abbattuto dal golpe del generale Pinochet sostenuto dagli USA. Il regime che venne instaurato fu un formidabile laboratorio in cui sperimentare per la prima volta il neoliberismo prima di essere gradualmente esportato e imposto nel resto dell’Occidente. Con la sua definitiva affermazione venne generato anche il realismo capitalista.

Fisher sottolinea come il neoliberismo non sia stata una forma di restaurazione. L’individualismo forzato a cui spesso lo associamo è una nuova forma di individualismo nato in contrapposizione alle nuove forme di organizzazione politiche comuniste e socialiste che dovevano essere spazzate vie con l’obiettivo di farle dimenticare alla popolazione. L’autore chiama comunismo acido il controesorcismo che viene effettuato per non dimenticarle.

“Il concetto di comunismo acido è una provocazione e insieme una promessa. Una sorta di scherzo, ma i cui obiettivi restano piuttosto seri. Indica qualcosa che a un certo punto sembrava inevitabile, mentre oggi appare impossibile: la convergenza tra coscienza di classe, socialista-femminista e psichedelica, la fusione dei nuovi movimenti sociali in un progetto comunista, un’estetizzazione inedita della vita quotidiana”6.

Il termine comunismo acido ha quindi lo scopo di descrivere, attraverso lo studio di sviluppi e conseguenze ancora tutte virtuali, quegli elementi che fanno intravedere un mondo libero nelle strutture dello stesso realismo capitalista.

Non manca l’occasione per polemizzare con i ritardi della sinistra tradizionale, in particolare per il modo in cui hanno sottovalutato l’influenza della controcultura degli anni ’60 e ’70 sulla classe operaia. In Inghilterra, e ancora di più in Italia, erano comparsi dei lavoratori che lottavano fuori dagli schemi classici del movimento operaio. Volevano un mondo dove il ruolo del lavoro, grazie all’automazione, fosse marginale. Respingevano con forza l’infelicità prodotta dal lavoro. Sembrava che quel mondo potesse, negli anni ’70, essere realizzato molto facilmente ma questa rivoluzione non ci fu. Tuttavia le condizioni per un tale cambiamento, dice Fisher, oggi sono più mature di allora.

“Ciò che da allora è mutato al punto da diventare irriconoscibile è l’atmosfera emotiva ed esistenziale. La gente si è rassegnata all’infelicità del lavoro, persino quando si sente ripetere che l’automazione sta eliminando le sue mansioni. È necessario ritrovare l’ottimismo di quella fase degli anni Settanta, esattamente come lo è analizzare nei dettagli i meccanismi dispiegati dal capitale per trasformare la fiducia in sconforto. Comprendere la logica di un simile processo di logoramento della coscienza è il primo passo per invertirne la direzione”7.

  1. Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2017, p.44 ↩︎
  2. Ivi, p.53 ↩︎
  3. Ivi, pp.80-81 ↩︎
  4. Ivi, pp.150-151 ↩︎
  5. Ivi, p.152 ↩︎
  6. Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome. Scritti politici. k-punk/1, Minimum fax, Roma 2020, tutte le citazioni del libro sono tratte da un ebook, pertanto non sono disponibili le pagine. ↩︎
  7. Ivi ↩︎

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