La guerra in Ucraina analizzata dal gruppo di studio di Emiliano Brancaccio

Il secondo articolo preparato dal Collettivo Le Gauche in vista delle elezioni europee riguarda il tema della guerra in Ucraina che ha favorito l’emergere nel nostro paese di un regime di guerra funzionale alla chiusura di quello spazio post-neoliberista di cui abbiamo parlato nel nostro primo lavoro. Riteniamo l’analisi del gruppo facente capo ad Emiliano Brancaccio un ottimo spunto per parlare del ritorno della guerra sul suolo europeo da una prospettiva marxista.

  1. Introduzione

Nel libro La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti e Stefano Lucarelli sostengono che esista una tendenza verso la centralizzazione del capitale in sempre meno mani che produce la disgregazione dell’ordine liberaldemocratico e alimenta la guerra militare tra le nazioni. La tesi non è nuova nella letteratura marxista ma gli autori provano ad attualizzarla alla luce delle dinamiche messe in moto dalla globalizzazione che ha generato degli squilibri, creando posizioni di paesi creditori e debitori portando ad una lotta interna alla classe dominante. Lo sbocco di questo conflitto è la centralizzazione del capitale in sempre meno mani per mezzo della liquidazione e l’assorbimento dei debitori.

“Finché la centralizzazione opera entro spazi omogenei di potere, il grande meccanismo può anche subire interruzioni e contraccolpi ma in generale va avanti senza significative “rotture”. Quando però l’azione centralizzatrice dei creditori si spande al punto da travalicare i consueti perimetri geopolitici, si fa allora più forte il rischio di una reazione difensiva dei debitori. L’opposizione reale tra capitali in attivo e in passivo innesca così una catena obbligata di mosse che parte dalla crisi economica, sfocia nel protezionismo, e alla fine libera il braccio visibile e violento della guerra militare”1

Dal libero mercato si passa prima al protezionismo e infine alla guerra. Questa fase storica, di cui è la classe lavoratrice, tornata alla sua funzione di carne da cannone, la principale vittima, viene definita centralizzazione imperialista del capitale. Il conflitto in Ucraina ha resto evidente l’esistenza di due distinti blocchi imperialisti. Il primo, quello americano e anglosassone, viene definito dei debitori. Questi paesi trascinano nel loro campo l’Europa con l’obiettivo di difendere un’egemonia in crisi attraverso mezzi militar-monetari e il protezionismo. L’altro blocco, composto da Cina, Russia e i loro alleati, viene definito come quello dei paesi creditori in fase di ascesa. Brancaccio afferma che questo processo è minato dalla risposta bellica al protezionismo. Si tratta, inoltre, del venire meno del monopolio americano della guerra imperialista. In questo contesto la guerra in Ucraina può essere analizzata da un punto di vista alternativo alle molteplici veline di propaganda che spaziano dal sostegno acritico alle posizioni occidentali fino ai deliri su mondi multipolari che permetteranno una maggiore democrazia sul pianeta e di conseguenza favorirebbero addirittura l’affermazione del socialismo nel nostro paese. Gli autori fanno piazza pulita di tutte queste analisi irrazionali che rifiutano di individuare le leggi generali della Storia che, secondo canoni materialisti, dovrebbe essere intesa come una scienza del futuro da usare per ricercare nel passato le linee di tendenza per spiegare ciò che potrebbe accadere domani. Gli autori propongono di leggere il ritorno della guerra come l’avvio di una contesta economica su vasta scala per dimostrare la forza residua del potere americano nel poter passare senza traumi dal libero mercato al protezionismo mentre gli altri paesi sono costretti ad adattarsi a questi mutamenti.

2. La teoria dietro l’analisi

Nel Manifesto del Partito Comunista Marx ed Engels costruiscono la base della tesi della centralizzazione del capitale in sempre meno mani che nel Capitale verrà riformulata come legge generale di movimento della società.

“La centralizzazione capitalistica si può descrivere così: la feroce competizione tra capitali genera continuamente vincitori e vinti, con questi ultimi che a lungo andare vanno in bancarotta e vengono liquidati oppure assorbiti dai primi, a colpi di fusioni e acquisizioni. Pertanto, il controllo del capitale tende a concentrarsi sempre di più nelle mani dei pochi vincitori della guerra di mercato. È questa la centralizzazione, tendenza generale nel meccanismo di sviluppo e di crisi del regime di accumulazione capitalistica”2.

Questo processo genera la crisi dei piccoli proprietari e la polarizzazione sociale con il risultato di vederli ingrossare le fila del proletariato. Nei suoi lavori Marx tende ad utilizzare centralizzazione e concentrazione come sinonimi pur avendo due significati diversi nel complesso della sua opera. La concentrazione si riferisce alla creazione di nuovi mezzi di produzione e l’accrescimento della loro massa complessiva, sia in termini assoluti che come forza lavoro disponibile e finisce per essere basata sul processo di accumulazione o addirittura a coincidere con esso. La centralizzazione invece deriva dalla lotta per conquistare nuovi mercati generando vincitori e vinti. In poche parole, si tratta della marxiana espropriazione del capitalista da parte del capitalista:

“Il processo di centralizzazione capitalistica può concretizzarsi in vari modi: semplicemente attraverso l’uscita dal mercato dei capitali più deboli; oppure tramite liquidazione, acquisizione o fusione aziendale, che implicano cambiamenti nel diritto di proprietà; oppure anche in modo surrettizio, quando la proprietà formale del capitale resta frammentata ma il controllo si concentra in poche mani, come nei settori in cui le catene produttive sono basate sull’outsourcing oppure, più in generale, come accade con la massa dei capitali la cui proprietà è dispersa tra una miriade di azionisti e depositanti ma la cui gestione è demandata ai vertici di società per azioni e istituti bancari”3.

Le principali leve di questa dinamica sono la lotta della concorrenza che porta al successo dei capitali più forti, con una maggiore produttività e una maggiore scala di produzione e il sistema del credito. Esso riesce a catturare i mezzi monetari dei capitalisti individuali e agisce sul processo di centralizzazione del capitale grazie alla creazione di un’aristocrazia finanziaria che gestisce il capitale su base privata ma senza la necessità di controllare direttamente la proprietà. Riunendo sotto la direzione della finanza il capitale bancario, industriale e commerciale, il capitale lascia intravedere il superamento della libera concorrenza e un nuovo modo di produzione. Gli autori si soffermano su uno dei modi più sofisticati per superare il vincolo della proprietà, ovvero la società per azioni che permette a gruppi di controllo delle società di “governare una massa di capitale più grande di quella che formalmente possiedono”4, consentendogli di gestire molte decisioni riguardanti tutto il capitale. Fissato il punto di origine marxiano della teoria, il libro procede in due direzioni: la verifica empirica della legge e la depurazione dalle sue conclusioni teleologiche.

Tutto ciò è funzionale ad una sua attualizzazione che passa anche da una revisione critica dei classici della letteratura marxista. Questo porta gli autori a sostenere, fuori da ogni ingenua teleologia, che la legge della centralizzazione del capitale debba essere letta come una tendenza abbinata ad una regolazione politica intesa come politica economica del capitale finanziario associato alla politica dei banchieri centrali da cui dipende la solvibilità del sistema. Essa è essenziale perché nella lotta tra capitalisti ci sono sempre vincitori e vinti, acquisizioni e fusioni da parte dei vincitori. Ciò alimenta la centralizzazione del capitale e la monopolizzazione dei mercati. Di conseguenza è un elemento determinante per la sopravvivenza degli agenti economici del sistema. Quando spostiamo questa analisi a livello del settore bancario, la solvibilità si lega alla capacità riproduttiva di tutto il sistema economico. L’insolvenza di una banca può provocare un contagio finanziario che genera altre insolvenze. In questa analisi è centrale il concetti di riproduzione ripresa da Marx nel Capitale per spiegare la crisi del capitalismo. Nel secondo libro del Capitale affermerà come sia l’equilibrio che la riproduzione del capitalismo si manifestano come crisi ed è l’equilibrio ad essere un caso nel modo di produzione capitalista. Il paradigma alternativo proposto collega questi due punti alla centralizzazione del capitale affermando che:

“La questione della solvibilità, preludio della centralizzazione capitalistica, non può esser mai ridotta a problema puramente tecnico, di ricerca della più efficiente utilizzazione delle risorse. Per ogni data condizione di solvibilità e per ogni connesso ritmo della centralizzazione dei capitali in sempre meno mani, infatti, potranno sempre esistere diversi equilibri macroeconomici, e viceversa. L’implicazione, tra le altre cose, è che la condizione di solvibilità presenta sempre e comunque almeno un grado di libertà. Per ogni dato livello e composizione della produzione e dell’occupazione, è possibile che la condizione di solvibilità si configuri in modi diversi, ad esempio situandosi a livelli tali da determinare un basso numero di bancarotte, liquidazioni e acquisizioni e quindi un ritmo blando della centralizzazione del capitale oppure, viceversa, collocandosi a livelli tali da generare molte più bancarotte e acquisizioni e quindi un ritmo molto più frenetico della centralizzazione del capitale in sempre meno mani”5.

Ne consegue che la solvibilità rappresenta un conflitto interno alla classe capitalista in cui sono coinvolti capitali deboli e forti, dove i primi lottano per la loro sopravvivenza e contro la forza della centralizzazione del capitale mentre i secondi cercano di trovare sempre più forza e potere da questa dinamica. Si tratta di un conflitto “tanto più violento quanto maggiore sia la varianza tra le posizioni reddituali e finanziarie dei capitali in posizione di credito e dei capitali in posizione di debito. A seconda dei diversi possibili esiti di questo conflitto interno al capitalismo, la solvibilità risulterà più o meno stringente e la centralizzazione sarà più o meno potente”6.

Le conseguenze per i proletari dipendono dalle ripercussioni del conflitto su investimenti, prezzi, inflazione e disoccupazione. Questo punto porta gli autori a parlare delle banche centrali che nell’attuale fase del capitalismo è influenzata nella sua azione dalle teorie dell’economista John B. Taylor. La sua tesi sostiene che il banchiere centrale debba seguire una “regola ottima” che lo porta a calibrare i tassi d’interesse in funzione della stabilità dell’inflazione del reddito intorno all’equilibrio naturale. Qualora il reddito dovesse crescere eccedendo il livello dell’equilibrio naturale e l’inflazione dovesse superare un livello obiettivo, il banchiere centrale deve aumentare i tassi d’interesse per rallentare l’attività economica e attenuare le tendenze inflazionistiche. Qualora il reddito e l’inflazione fossero sotto il livello di equilibrio, i tassi d’interesse dovranno essere ridotti per stimolare l’economia. Si tratta della famosa regola di Taylor con cui l’autorità monetaria stabilizza l’economia intorno all’equilibrio naturale e si pone come scopo la salvaguardia della stabilità finanziaria. I parametri di questa regola sono stati calcolati a partire da una serie di elaborazioni empiriche. Negli ultimi anni è stata sottoposta ad una serie di critiche perché non è stata trovata alcuna relazione causale tra la regolazione del tasso d’interesse e il PIL o l’inflazione. Inoltre non sussiste un legame tra il tasso d’interesse e la sua capacità di guidare gli investimenti e di conseguenza la domanda aggregata. Questo apre ad una nuova definizione del ruolo del banchiere centrale.

Le banche centrali non si fanno carico della gestione del ciclo economico e dell’inflazione, è qualcosa fuori dal loro controllo. Utilizzano la politica monetaria per regolare il conflitto distributivo tra creditori e debitori sul tasso d’interesse e sulla sostenibilità della propria posizione finanziaria.

“La banca centrale è infatti soggetta a due pressioni contrapposte: i debitori che mirano a tassi d’interesse bassi e condizioni di prestito favorevoli, e i creditori che invece puntano a tassi alti, anche per compensare le eventuali perdite causate dall’inflazione. Ma l’andamento dei tassi incide pure sulla sostenibilità dei rapporti tra gli uni e gli altri. Dati i livelli di reddito, l’inflazione, lo stock di debito accumulato da famiglie, imprese, banche e istituzioni pubbliche, le loro posizioni finanziarie risulteranno mediamente più sostenibili o meno, a seconda delle azioni intraprese dalla banca centrale sui tassi di interesse e sulle altre variabili monetarie. Ad esempio, quando il reddito e l’inflazione sono bassi rispetto all’ammontare dei rimborsi delle posizioni debitorie, i debitori privati e pubblici del sistema si troveranno in una posizione fragile e sarà necessario un basso livello dei tassi di interesse, in modo da rendere possibile il rifinanziamento ed evitare una situazione di insolvenza. Al contrario, se il reddito e l’inflazione sono elevati rispetto ai rimborsi del debito, le posizioni dei debitori saranno più sicure e potranno affrontare una politica dei tassi di interesse relativamente più restrittiva. La deflazione e l’inflazione generano quindi scenari contrapposti. Nel caso della deflazione, il banchiere centrale dovrà valutare fino a che punto favorire i fallimenti dei debitori. Nel caso dell’inflazione, dovrà invece decidere se e in che misura compensare i creditori dall’erosione di capitale causata dall’aumento dei prezzi. In questo senso, commentando la politica di aumento generalizzato dei tassi d’interesse conseguente alla crescita dei prezzi degli ultimi anni, altrove abbiamo detto che il banchiere centrale può esser visto come una sorta di “scala mobile” del capitale in posizione di credito. I lavoratori non ce l’hanno più, i capitalisti sì”7.

Tutto ciò viene definito “regola di solvibilità” secondo cui dalla fissazione del tasso d’interesse dipende la solvibilità del sistema economico. Ciò è possibile perché aumentare i tassi d’interesse rende più difficile l’accesso al credito e incide sulla solvibilità del sistema. Può accadere anche il contrario con l’intento di aiutare i debitori a sopravvivere e influenzando l’andamento della centralizzazione del capitale. In breve, il banchiere centrale diventa l’arbitro di un conflitto interno alla classe capitalista tra capitali che generano profitti sopra e sotto la media, solvibili e insolventi.

“Quanto più il banchiere centrale fissa un tasso di interesse basso rispetto al livello “medio” definito dalla condizione di solvibilità delle imprese, tanto più le imprese in difficoltà, caratterizzate da profitti relativamente bassi, potranno sperare di risultare solvibili. Viceversa, quanto più la banca centrale impone un tasso di interesse diverso rispetto al livello necessario a che tutte le imprese realizzino profitti “normali”, tanto maggiori saranno le bancarotte e tanto più grande potrà essere quindi il vantaggio delle imprese solvibili che rimangano sul mercato, e che al limite potrebbero anche decidere di acquisire a buon mercato i concorrenti sulla via dell’insolvenza. Ecco così emergere quella circostanza decisiva che Marx definiva con l’espressione “centralizzazione dei capitali”. Il banchiere centrale, governando la solvibilità, regola il conflitto tra capitali e con esso anche il ritmo della centralizzazione”8.

3. Le condizioni economiche della pace

Nella primavera del 2024 esce il libro Le condizioni economiche della pace che sviluppa le tesi del lavoro precedente. Brancaccio sostiene che l’espansione degli scenari di guerra sia da ricondurre allo squilibrio economico del capitalismo americano causato da problemi di competitività esplosi a partire dalla crisi economica del 2007-2008, pur mantenendo la leadership mondiale su tecnologia e produttività. I segni del declino sono stati sottovalutati nell’illusione di poter governare i processi scatenati dalla globalizzazione. Questo ha prodotto un’economia che importa molto ed esporta poco, accumulando debito nei confronti dell’estero e in particolare con il principale paese del gruppo dei creditori, ovvero la Cina. Lo squilibrio sino-americano è durato più del dovuto garantendo agli USA l’egemonia nell’ordine mondiale che ha permesso il finanziamento del suo complesso militar-monetario facendo espandere, parallelamente al debito pubblico, le sue milizie all’estero negli scenari di guerra.

Com’è stato possibile tutto ciò? Per trovare una spiegazione vengono proposte alcune riflessioni provenienti da noti economisti come Eichengreen, De Cecco e Arrighi con l’obiettivo di individuare anche i legami tra guerra e finanza. Dal primo viene ripresa l’analisi dei tentativi di ripristino del gold standard tra le due guerre mondiali. Queste azioni sono fatte nel segno dell’austerità monetaria e fiscale che contribuì a creare l’instabilità che portò alla Grande depressione, al nazismo e alla Seconda guerra mondiale. Una tesi simile viene rintracciata nelle elaborazioni teoriche di De Cecco:

“L’argomento, in questo senso, può essere sintetizzato nell’idea che alla vigilia del primo conflitto mondiale il gold standard avesse ben poco a che fare con la sua mitizzata rappresentazione di perfetto meccanismo di riequilibrio automatico delle relazioni economiche mondiali. Al contrario, il regime dell’oro era in realtà costituito da una complicata congerie di politiche finalizzate a mantenere la centralità della Gran Bretagna nel regime finanziario internazionale, nonostante i già significativi problemi di tenuta della sua egemonia imperiale. In particolare, afflitta da problemi emergenti di competitività, l’economia inglese accumulava deficit commerciali con gli altri paesi avanzati che pretendeva di compensare imponendo un suo surplus commerciale dentro i confini dell’impero e soprattutto sull’India, la quale a sua volta riusciva a vantare un surplus sul resto del sistema mondiale. Il mantenimento di questo intricato circuito si rendeva necessario per il mantenimento di una centralità nel regime finanziario, pur in una situazione di relativo declino del capitalismo imperialista britannico”9.

Il risultato è stato prolungare l’egemonia dell’imperialismo inglese contribuendo ad alimentare le tensioni belliche che sfoceranno nella Prima guerra mondiale. Il terzo riferimento, Arrighi, lega l’espansione del circuito finanziario globale alla crisi del vecchio ordine egemonico. Le operazioni speculative possono tenerlo in vita nonostante una posizione finanziaria negativa ma questo rischia di produrre una deflagrazione finale ancora più grande e violenta.

Gli USA si ritrovano con un passivo di 18 miliardi di dollari, l’80% del PIL. Fino agli anni ’80 avevano una posizione netta di sostanziale pareggio con l’estero. Virano completamente sul debito con la globalizzazione. La differenza con il declino dell’imperialismo britannico risiede nell’assenza dell’India per scaricare il surplus commerciale e questo rende gli USA ancora più dipendenti dall’espansione finanziaria per coprire il debito estero. Il meccanismo che regge tutto il sistema viene chiamato centralizzazione speculativa coloniale e prevede l’acquisto cinese di obbligazioni americane a basso rendimento mentre gli americani orientano gli investimenti verso le più redditizie imprese cinesi. Con la grande recessione tutto ciò entra in crisi rendendo problematico il finanziamento del debito e del circuito militar-monetario. Da qui sorge la paura di vedere i cinesi esportare i capitali per comprare le imprese americane, con il rischio di assistere al pesce forte cinese che mangia il pesce piccolo americano e dirottando in Asia la traiettoria della centralizzazione del capitale.

Questo è il vero motivo dietro il protezionismo americano e il cosiddetto friendshoring, ovvero la tendenza a continuare a fare affari con i paesi amici mentre vengono tenuti alla larga gli avversari. Questo cambiamento è stato registrato anche dal FMI nel capitolo finale dell’outlook di aprile 2023 chiamato geoeconomic fragmentation che descrive la trasformazione della globalizzazione con la creazione di blocchi geo-economici in contrasto. Tutto ciò è dimostrato dall’arresto della crescita del commercio internazionale e dal calo degli investimenti diretti esteri passati dal 5,5% del PIL mondiale nel 2007 all’1,5%. Il crollo va attribuito alla caduta degli investimenti diretti esteri cinesi che conferma la tesi di Brancaccio. Il FMI sostiene che si tratta della reazione delle imprese al rischio geopolitico, ovvero fare friendshoring limitando gli affari ai paesi alleati. Per Brancaccio la spiegazione andrebbe rovesciata. Sono simili pratiche e il protezionismo ad alimentare le tensioni nel mondo. Questa strategia, inoltre, non inizia con l’invasione russa dell’Ucraina ma addirittura con l’amministrazione Obama. Il passaggio a questa nuova dimensione del commercio globale non è indolore visto ché i paesi creditori contestano l’abbandono americano delle loro stesse regole del gioco.

“Ecco allora che emerge una contesa colossale, di portata storica: nella crisi del vecchio sistema egemonico americano, occorre stabilire chi sia oggi legittimato a fissare i criteri fondativi di un nuovo ordine economico mondiale. Purtroppo, come la storia del capitalismo insegna, una controversia di tale portata matura sempre in un contesto di prove di forza, non più solo economiche ma anche militari”10.

Siamo entrati nella fase della centralizzazione imperialista del capitale che trasforma la disputa economica in un confronto militare, come dimostrano i dati sulle morti per la guerra in crescita dall’inizio del secolo.

Smontando la tesi di Pinker secondo cui stiamo andando verso un periodo di pace grazie alla società liberale, Brancaccio e Suppa dimostrano come dal 2001 ad oggi le vittime di guerra sono in aumento.

“In termini assoluti, i morti causati da conflitti militari raddoppiano, passando dai 120 mila circa del 2001 ai 240 mila circa del 2022. E in rapporto alla popolazione si registra un incremento persino più accentuato, da circa 0,5 a circa 3 morti per centomila abitanti. Anche escludendo l’estremo dell’ultimo anno corrispondente all’esplosione del conflitto in Ucraina, la tendenza crescente resta comunque marcata”11.

Questi morti possono essere rapportati all’andamento del PIL e alla spesa militare. Sono un segno dell’efficacia distruttiva degli armamenti bellici contro i proletari di tutto il mondo. La misura delle vittime in rapporto al PIL dà un coefficiente chiamato produzione di vittime a mezzo di merci, cioè un output inscindibile dall’attuale stato delle forze produttive e dei rapporti di produzione.

“Seguendo le linee di tendenza, si osserva che il numero delle vittime di guerra per ogni miliardo di Pil prodotto nel mondo aumenta di tre volte nel ventennio esaminato, passando da poco meno di 0,5 a poco più di 1,5. Inoltre, il numero di vittime per ogni miliardo di spesa militare quasi triplica, passando da poco meno di 25 a poco meno di 70. Le tendenze crescenti sono confermate anche se si decidesse di rimuovere dall’analisi l’anno dell’inizio della guerra in Ucraina”12.

Per porre rimedio a questa situazione serve una soluzione basata sulle condizioni economiche per la pace e valutare la loro attuabilità nel nuovo regime di centralizzazione. La possibilità è data dalla costruzione di un nuovo ordine cooperativo internazionale ispirato in parte a Keynes e al suo piano del 1943. Si tratta di una regolazione concordata a livello politico per affrontare i grandi squilibri economici maturati in questa fase del capitalismo. La regolazione politica avrebbe lo scopo di attaccare la causa della guerra, cioè le forze della centralizzazione. Senza un simile accordo tutti i trattati di pace firmati sono solo tregue. Questo schema si applica non solo alla risoluzione del conflitto in Ucraina ma anche a quello nel frattempo esploso a Gaza. Per Brancaccio la Palestina si inserisce nel tentativo del blocco americano, nonostante la transizione ecologica e le tecnologie estrattive utilizzate negli USA per estrarre il gas, di appropriarsi delle materie prime e delle risorse energetiche del Medio Oriente e inglobando nel blocco americano i paesi arabi disposti a firmare gli Accordi di Abramo. Tuttavia veniva messa da parte la risoluzione della questione palestinese, indebolendo il progetto di friendshoring e destabilizzando la regione.

L’emergere di questo nuovo ordine cooperativo avrà inevitabilmente dei tratti non capitalistici perché dovrà portare alla regolazione politica degli squilibri dei mercati e la pianificazione dei rapporti economici internazionali. Saremo in grado di fare ciò prima dello scoppio di un nuovo grande conflitto?

  1. Emiliano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista. Mimesis, Milano 2022, le citazioni legate al libro sono prese da un ebook e pertanto non sono disponibili le pagine. ↩︎
  2. Ivi. ↩︎
  3. Ivi. ↩︎
  4. Ivi. ↩︎
  5. Ivi. ↩︎
  6. Ivi. ↩︎
  7. Ivi. ↩︎
  8. Ivi. ↩︎
  9. Emiliano Brancaccio, Le condizioni economiche della pace, Mimesis, Milano 2024, le citazioni legate al libro sono prese da un ebook e pertanto non sono disponibili le pagine. ↩︎
  10. Ivi. ↩︎
  11. Ivi. ↩︎
  12. Ivi. ↩︎

3 Replies to “La guerra in Ucraina analizzata dal gruppo di studio di Emiliano Brancaccio”

  1. Capire le dinamiche che spingono verso un conflitto mondiale senza ritorno è essenziale per contrastare la propaganda mediatica e opporsi attivamente a questa retorica della guerra “giusta” e “necessaria”.
    Grazie per questa avvincente analisi.

  2. L’articolo comincia con la messa alla berlina di ogni velleità di ‘multipolarismo’ come possibile soluzione alla crisi capitalistica attuale. Tuttavia dopo una analisi, di impronta marxista e ampiamente condivisibile per quanto mi rigiuarda, sulla crisi, alla fine si propone :
    ” la costruzione di un nuovo ordine cooperativo internazionale ispirato in parte a Keynes e al suo piano del 1943. Si tratta di una regolazione concordata a livello politico per affrontare i grandi squilibri economici maturati in questa fase del capitalismo. La regolazione politica avrebbe lo scopo di attaccare la causa della guerra, cioè le forze della centralizzazione. Senza un simile accordo tutti i trattati di pace firmati sono solo tregue. ”
    Proposta che sembra in aperta contraddizione con l’incipit denigratorio del ‘multipolarismo’ che è ben esposto all’inizio dell’articolo. Insomma: Russia e Cina sarebbero imperialisti come gli USA, solo nella posizione di ‘imperialisti creditori’, ma la loro proposta di multipolarismo non è molto diversa da quella di Brancaccio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *